Carbonia. In miniera comandano gli Alleati in continuità col fascismo

3 Maggio 2020
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Gianna Lai

Sulla storia di Carbonia puntuale il post domenicalea partire dal 1° settembre scorso.

Se così grave è la situazione dell’azienda, ora sembrava che, come negli anni del fascismo,  i costi di tali perdite dovessero ancora ricadere sulle maestranze della miniera,  in termini di sfruttamento e di bassi salari. Gravi le condizioni di lavoro, sempre in pericolo la salute e la sicurezza, a causa dei ritmi impossibili da sostenere. A causa delle ‘tecniche  minerarie di allora ancora del tutto inadeguate’, a causa di ‘quei giacimenti che non si prestavano all’apertura di grandi gallerie’, essendo tale, la conformazione degli strati e dei fasci di strati, da impedirlo. Così Pietro Cocco, nell’intervista rilasciata a Giuseppe Marci sulla miniera al tempo degli americani, in ‘nuova rinascita sarda’, del 1988. Che sottolinea ancor più come ‘la vita dei minatori fosse angosciata dai bisogni materiali: uscivamo al mattino con 250 grammi di pane pessimo, la nostra razione; un razionamento che durò fino al 1946′ 1).
Nè potevano  avere voce in capitolo altri, sulle miniere, se non gli alleati, come chiarisce lo stesso Alto commissario generale Pinna, già nel suo discorso per l’insediamento della Consulta, riportato da Girolamo Sotgiu: ’sull’attività mineraria, sui suoi indirizzi e sul suo sviluppo, l’intervento dell’Alto commissario e della Consulta non poteva che essere limitato, come chiarì subito il generale Pinna, perchè sia in materia di prezzi che di controllo della produzione  l’intero settore delle miniere era regolato dalle decisioni degli alleati….: per l’Alto commissario e per la Consulta, pressocché impossibile intervenire’ 2).
C’era stato, é vero, subito dopo la riapertura delle miniere, un intervento  del governo sui salari delle maestranze Carbosarda, che aveva anche garantito  ‘una settimana premio’, per gli operai, e un doppio stipendio per gli impiegati3), ma bassissime  restavano ancora le retribuzioni a causa del continuo aumento dei prezzi. Perché, ‘nel Sud ‘occupato dagli alleati, il crollo dell’apparato statale e, con esso, degli esistenti meccanismi di distribuzione e di controllo dei prezzi,  l’emissione di moneta di occupazione (amlire) nella misura di 114 miliardi, ai quali si aggiungono 31 miliardi versati direttamente dalla Banca d’Italia agli angloamericani, quale contributo alle loro spese di guerra in territorio italiano, per un totale di 45 miliardi, il cambio fissato nella misura punitiva di 100 lire a dollaro (cioè a quattro volte quello esistente nel marzo del 1938, mentre i prezzi erano saliti solo della metà), avevano scatenato un incontrollato processo inflazionistico, che provocò aumenti dei prezzi fino a 40 volte il livello del 1938′ 4).Ed allora, ‘la politica del congelamento dei salari mantenuta fino al settembre del 1943, dovette essere abbandonata’, i primi miglioramenti retributivi il Governo militare alleato fu costretto a concederli già nel dicembre del 1943 mentre, ‘nella seconda metà del 1944 la CGIL ottenne l’aumento medio del 65% dei salari e degli stipendi, rispetto al settembre del 1942 (ma la svalutazione aveva galoppato assai di più); un’indennità di carovita di lire 35 giornaliere, l’aumento del 50% degli assegni familiari, la gratifica natalizia per gli operai dell’industria’. Ed infine la concessione di quella indennità di carovita che, secondo Di Vittorio, aveva dato ‘un sollievo a tutti i lavoratori…e portato un aumento forse maggiore ai lavoratori meno pagati’. E tuttavia, neppure  dopo tali miglioramenti le retribuzioni reali avrebbero potuto ‘tenere il passo con l’aumento dei prezzi’, si può infatti ‘calcolare che, alla fine del conflitto esse fossero pari, nel Sud, al 75% di quelle del 1938′ , come dice Sergio Turone nella sua storia del sindacato in Italia 5).
Un aumento del costo della vita insopportabile nell’isola, da 1,50 lire nel 1938  il prezzo di un chilo di pane, a 2,40 nel 1942, senza che gli aiuti destinati ai meno abbienti potessero minimamente modificare il quadro, ancora nel 1948  il 10% della popolazione iscritta all’elenco dei poveri, come nota Girolamo Sotgiu nella sua Storia della Sardegna durante il fascismo 6). E così a Carbonia,  tra febbraio e marzo del 1945, la paga minima giornaliera degli armatori non sarebbe andata oltre le 101,55 lire, quella dei minatori  non oltre le 96,55, degli aiuto 86,50, mentre in laveria la retribuzione oraria delle donne  superava di poco le 2 lire. E un chilo di pane costava 15 lire al prezzo ufficiale, fino a 70 lire al mercato nero,  Delogu pag 235 e l’alloggio costava dalle 10 alle 30 lire, un quintale di carbone per riscaldamento 10 lire, 10 lire anche 20 grammi di sapone 7).    In quelle retribuzioni erano compresi anche i premi di presenza e carovita, mentre l’introduzione di una nuova forma di conteggio del cottimo, secondo l’Alto Commissario, che rese pubbliche queste tabelle  per sollecitare i disoccupati ad accettare le proposte della SMCS, avrebbe garantito ai minatori un salario medio di lire 170 al giorno, 140 per armatori e aiuto minatori 8).
In realtà, con l’istituzione del nuovo conteggio di cottimo, si aggravano le condizioni di lavoro per le maestranze del Sulcis,  sempre in pericolo la salute e la sicurezza  proprio a causa dei ritmi impossibili da sostenere, inesistenti ancora i presidi nella miniera e nei cantieri, scarsissima l’assistenza infortunistica e di soccorso se  l’ospedale cittadino dell’INAIL mancava persino dell’ambulanza. 9).   Difficili ancora  le condizioni di lavoro per  l’inadeguatezza dei sistemi di coltivazione,  conseguenti al mancato completamento delle strutture interne, dopo l’abbandono almeno in parte dei pozzi, effettuandosi ancora il disgaggio per tutti quegli anni col solo ausilio del motopicco, secondo quanto avrebbe scritto Il Lavoratore del 14 maggio 1947. Ad aggiungersi, alla nocività della vita nei pozzi, dai gas alle polveri di carbone, le frequentissime  imposizioni, come detto, del prolungamento dell’orario di lavoro che, insieme alla sempre scarse conoscenze della miniera da parte  dei nuovi assunti, sarebbero ancora stati causa di tanti morti in quegli anni, 20 solo tra il 1944 e il 1945 10) e di molti gravi incidenti, la cui prevenzione continuava a non impensierire affatto l’azienda, esattamente come per il passato.
Come negli anni del fascismo, anche fra questi nuovi operai, che avevano del tutto sostituito i precedenti, solo quelli provenienti da Iglesias e da Bacu Abis, dalle miniere toscane e dalle zolfare siciliane avevano adeguata conoscenza del loro lavoro,  mentre gli altri ne apprendevano i rudimenti, come nell’anteguerra, dai compagni del loro gruppo, ancora  mancando una vera scuola aziendale.  E ancora vittime della malaria, spesso di epidemie da denutrizione o da pessime condizioni igieniche, e nei luoghi di lavoro e negli alloggi collettivi, come ai vecchi bei tempi della nascita di Carbonia.
E sempre forte, sproporzionata, come ai vecchi tempi del regime, l’intransigenza della direzione aziendale, rimasta proverbiale ‘per i metodi fascisti’ ancora in adozione contro gli operai,  costretti a lavorare scalzi e senza protezione alcuna. ‘ I minatori scendono in miniera nudi e scalzi’, scriveva  Giovanni Lay ancora  sul Lavoratore del 1 settembre 1945, perché un paio di scarpe costavano in quei mesi dalle 250 alle 400 lire, contro un salario medio di 150 lire giornaliere,  continuamente  eroso, tuttavia, dall’inflazione.
Dalla sede ACaI di Cortoghiana, il commissario governativo Sanna, un sardista particolarmente ligio alle direttive alleate, aveva confermato alla direzione della miniera lo stesso gruppo dirigente, tecnici e capi servizio, degli anni del fascismo, così da consentire all’azienda, attraverso licenziamenti e rigido controllo delle nuove assunzioni, ‘di circondarsi soltanto di persone a lei devote’, come si legge su L’Unione Sarda del 13 febbraio 1945. E la parola d’ordine ‘fuori i continentali’, in particolare, avrebbe significato, non tanto l’interesse primario di privilegiare l’occupazione dei sardi, da buon sardista quale era il commissario Sanna, quanto la volontà principale, evidentemente, di avere e mantenere la riserva degli incarichi più importanti dentro l’azienda Carbosarda. E poi, di  tener fuori dalla miniera, il più possibile, quadri di partito o di sindacato che, militari provenienti dalla penisola, erano finiti qui in Sardegna con il loro reparto, essendo ben noti a commissariati e forze dell’ordine, in quanto molto attivi nell’organizzazione del lavoro clandestino, sia nelle zone di provenienza, sia tra i militari dell’esercito.   Perché nasceva la CGIL, rinascevano i partiti e anche dentro la miniera, come Sanna temeva, le cose avrebbero potuto cambiare, come poi cambiarono a Carbonia, proprio grazie alla presenza dei ‘continentali’, tra i promotori di un nuovo movimento in grado, per la prima volta dalla nascita della città, di prendersi cura dei minatori, di farne crescere consapevolezza e capacità di resistenza allo sfruttamento.

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