Pandemia: responsabilità di Cina e USA

21 Maggio 2020
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Gianfranco Sabattini

Sia pure in presenza di molti dubbi sul come si è diffusa nel mondo la pandemia da Covid-19, si sta diffondendo il convincimento che la Cina, il Paese epicentro della diffusione del virus, non abbia detto tutta la verità. A parere di Wu Xiangning dell’Università di Macao, in un articolo comparso sul n. 3/2020 di Limes (“L’incertezza è l’unica certezza della Cina”), quanto è accaduto è da imputarsi al fatto che la leadership governativa cinese è incorporata in una struttura verticistica dello Stato, che induce i funzionari periferici a “privilegiare alcuni interessi e non altri”, in quanto propensi a garantire la stabilità del regime, anche a discapito della salute pubblica. L’orientamento dall’alto verso il basso del sistema governativo cinese – afferma Wu Xiangning – pone forti limitazioni alla capacità dei funzionari politici e amministrativi periferici di individuare e segnalare gli indizi di qualsiasi motivo di crisi territoriale; è perciò inevitabile che tali limitazioni influiscano negativamente sull’elaborazione delle politiche atte a contrastare le emergenze nazionali. Ciò comporta che gli errori di valutazione commessi dagli organi di governo locali siano trasmessi a quelli gerarchicamente superiori, sino a quelli centrali, ripercuotendosi inevitabilmente sui processi decisionali finali. Quanto accaduto a Wuhan, dopo la comparsa del virus Covid-19, testimonia abbondantemente questi limiti, propri del sistema di governo cinese.
La particolare struttura verticistica dello Stato cinese prevede che, quando insorge un qualsiasi problema in una delle molte province in cui è suddiviso il Paese, la leadership centrale incarichi le strutture pubbliche periferiche di delineare un insieme di scenari e di soluzioni al problema, per cui la decisone finale da parte degli organi centrali viene presa sulla scorta delle raccomandazioni periferiche. In questo modo, sottolinea Wu Xiangning, nel dicembre del 2019 gli organi sanitari della provincia dello Hubei, con capitale la città di Wuhan, hanno presentato al governo centrale tre scenari: il primo prevedeva che il contagio avrebbe dato vita a una grave crisi; il secondo che la diffusione del virus sarebbe stata modesta; il terzo che si era in presenza di un problema di salute pubblica non preoccupante. Gli stessi organi periferici competenti, optando per quest’ultimo scenario hanno valutato che gli sviluppi dell’epidemia fossero prevedibili e curabili, essendovi prove che l’infezione fosse trasmissibile da una persona a un’altra.
Queste valutazioni degli organi periferici dello Hubei sono state accolte con favore dagli organi centrali di Pechino, i quali – osserva Wu Xiangning – “hanno cercato di stabilire un equilibrio tra la necessità di prendere il virus per le corna e quella di dare priorità al raggiungimento di altri obiettivi economici, sociali e politici”. Di conseguenza, quando le autorità centrali di Pechino hanno tradotto gli scenari delineati dalle autorità periferiche in politiche concrete da applicare a livello locale, hanno puntato a garantire “il minor impatto possibile sullo status quo sociopolitico”, permettendo così che il virus si diffondesse al di fuori della provincia dello Hubei.
Le misure adottate dalla leadership cinese sono state improntate a due ordini di esigenze: innanzitutto, ad esercitare un rigido controllo sulla circolazione delle informazioni, al fine di evitare che la loro diffusione generasse panico tra i cittadini e ripercussioni a livello internazionale; in secondo luogo, ad impedire agli ospedali di divulgare le notizie sulla diffusione del virus senza la preventiva autorizzazione delle autorità sanitarie locali. Tutto ciò ha fatto sì che il numero dei contagi risultasse a lungo molto basso, privando le autorità centrali della disponibilità di informazioni realistiche e attendibili sulla reale pericolosità del virus; fatto, quest’ultimo, che ha impedito alle stesse autorità centrali di adottare misure più conformi alla pericolosità dell’epidemia, che andava progressivamente trasformandosi in pandemia.
Se ad influenzare le valutazioni iniziali sulla reale pericolosità di Covid-19 sia stato un tentativo di insabbiamento da parte degli organi burocratici periferici, oppure un loro errore di valutazione, è una questione che, sebbene ancora oggetto di dibattito, non può non investire la natura verticistica e illiberale dell’organizzazione dello Stato cinese; nonostante l’iniziativa del presidente Xi Jinping, volta a incoraggiare i cittadini a denunciare i possibili tentativi di insabbiamento della diffusione del virus da parte delle burocrazie periferiche, non si può certo giustificare la conservazione di una struttura governativa verticistica della quale egli è il massimo rappresentante, non solo nell’interesse dei cittadini cinesi, ma in generale di tutti i Paesi coi quali la Cina intende intensificare i propri traffici commerciali.
Il sintomo più evidente delle incongruenze proprie del tipo di regime politico dello Stato cinese è offerto, a parere di Wu Xiangning, dalla vicenda del dottor Li Wenliang, il medico che ha denunciato senza la preventiva autorizzazione il rischio pandemico di Covis-19. Per questa iniziativa l’operatore sanitario è stato ammonito da due poliziotti, ammoniti poi, a loro volta, per negligenza; punizione, quest’ultima, che non è servita ad impedire che il dottor Li Wenliang morisse dopo essere stato infettato mentre curava i suoi pazienti.
Nel complesso, quindi, la mancata libera circolazione dell’informazione ha messo in evidenza l’inefficacia del sistema cinese di prevenzione e controllo delle malattie, dando luogo ad una situazione che si era già verificata, allorché la Cina è stata colpita, nel 2003, dalla Sars (una sindrome respiratoria acuta). Anche allora la libera circolazione delle informazioni è stata impedita, con la censura del dottor Jang Yanyong, operante presso l’ospedale dell’Esercito popolare di liberazione. Sebbene successivamente la Cina abbia ristrutturato il proprio sistema medico di allerta, l’organizzazione istituzionale dello Stato ha continuato a risentire dei limiti della sua struttura rigidamente gerarchica e illiberale; è questo il parere di Shen Dingli, docente presso l’Istituto di Studi internazionali dell’Università di Shanghai e autore di “Così la Cina sta vincendo la partita del coronavirus” (Limes, n. 3/2020).
La competenza dell’organizzazione sanitaria cinese è fuori discussione, ma la sua rigida subordinazione al sistema politico centralizzato non le permette di assumere decisioni sulla base di valutazioni realistiche nell’interesse, non solo della Cina, ma anche degli altri Paesi coi quali essa è strettamente connessa sul piano delle relazioni economiche. Il modo in cui la Repubblica Popolare si è prodigata, dentro e fuori dei propri confini, per contenere la diffusione dei contagi potrebbe indurre a sperare che l’attuale leadership si sia resa conto della necessità di cambiare la struttura del proprio sistema politico; ma l’obiettivo strategico che essa si è data, di diventare entro il 2049 la prima potenza economica mondiale, rende difficile pensare che sia anche propensa a sacrificare la sua crescita economica e militare a vantaggio della protezione della salute; per cui la probabile mancata disponibilità a cambiare strategia lascia fondatamente presumere che la Cina non sia disponibile a cambiare in senso liberale il proprio sistema politico.
I costi indotti dalla illiberale organizzazione del regime politico cinese, oltre che in termini di vite umane, si tradurranno anche in termini economici. A parte il costo immediato per la cura dei cittadini colpiti dal virus Covid-19, i costi di lungo periodo non possono ancora essere stimati; ma in prospettiva è possibile intravedere il collasso di un gran numero di piccole imprese e la propensione di molti investitori stranieri a trasferire le fabbriche fuori dalla Cina, per evitare che la eccessiva dipendenza dalla Repubblica Popolare comporti il rischio di vedere disgregarsi le filiere produttive nelle quali gli investitori esteri soni integrati. Si tratta di una tendenza che, secondo Wu Xiangning, metterà enorme pressione sulla leadership politica di Pechino, per via del fatto che l’economia del Paese è ormai fortemente dipendente dalle importazioni ed esportazioni, rispettivamente, da e verso il mercato globale.
Su questo punto, nell’interesse di tutti Paesi integrati nell’economia mondiale, diventano importanti i rapporti che la Cina ha con gli Stati Uniti d’America; se è da escludere che nell’immediato questi ultimi, finché la Casa Bianca sarà occupata da Donald Trump, possano instaurare con la Cina un rapporto meno conflittuale, è sperabile che in prospettiva essi maturino l’interesse a una maggior regolazione e controllo del modo in cui sinora si è sviluppata la globalizzazione, facendo venir meno le ragioni principali delle attuali preoccupazioni di Pechino per la tenuta di medio-lungo periodo della propria economia.
Certo, allo stato attuale l’atteggiamento degli Stati Uniti non è sicuramente favorevole ad inaugurare un più disteso rapporto con la Cina, accusata di non aver detto la verità riguardo alla gravità dell’epidemia da Covid-19; per ritorsione Trump, anziché avvertire l’urgenza di addivenire all’adozione di regole politiche comuni nella gestione delle relazioni internazionali, ha invece sospeso i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità, accusandola di non aver “adeguatamente ottenuto, verificato e condiviso informazioni in modo tempestivo e trasparente” e, dunque, d’essere stata filocinese nella gestione delle informazioni sulla trasformazione dell’epidemia cinese in pandemia mondiale.
Se nemmeno una crisi sanitaria di portata mondiale, le cui cause sono da molti rinvenute nel modo in cui le due superpotenze hanno gestito sinora in termini conflittuali i traffici mondiali, è motivo per indurle alla collaborazione nel comune interesse, diventa difficile immaginare quale altro motivo possa esserlo.

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