Recovery Fund e il rilancio del disegno europeo

22 Luglio 2020
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Gianfranco Sabattini



La crisi sanitaria che ha invesyito l’economia mondiale all’inizio di quest’anno avrà sui Paesi colpiti dalla pandemia effetti ben più gravi di quelli che essi hanno patito a seguito della Grande Recessione del 2007-2008. Le stime più ottimistiche per l’Italia, secondo il Fondo Monetario internazionale, “prevedono per il 2020 – afferma Francesco Saraceno in “L’economia europea tra lockdown e Fondo per la ripresa” (Il Mulino, n. 3/2020) – una contrazione del PIL del 9,2%, a fronte di un calo del 2009 che era stato del 5,3%”.
Alla gravità della situazione si aggiunge il fatto che il crollo simultaneo dei redditi e della produzione impedisce ai responsabili della politica economica degli Stati colpiti dalla pandemia di fare ricorso alle “categorie standard” della macroeconomia keynesiana. Infatti, con l’imprevista e improvvisa diffusione del virus Covid-19 si è ridotta drasticamente la domanda aggregata, a seguito del crollo dei redditi, ma è anche calata – osserva Saraceno – “l’offerta aggregata, vittima in primo luogo della chiusura di tutte le attività non essenziali da parte dei governi ma anche del disarticolamento delle catene internazionali del valore e del crollo degli ordini”. Ciononostante, la natura pandemica della crisi sanitaria non ha “spento la speranza “che la ripresa sia più rapida rispetto al dopo 2008”.
A livello globale, la Grande Recessione del 2007-2008 seguiva a due decenni di crescita squilibrata, caratterizzata da un’espansione abnorme del settore finanziario, del debito pubblico e privato e dagli squilibri della bilancia internazionale dei pagamenti; allora, per il superamento della crisi si è reso necessario che le politiche volte a sostenere le attività economiche fossero accompagnate da un ricupero dell’economia reale. Per quanto molte della cause della crisi finanziaria globale del 2007-2008 (quali, in particolare, le disuguaglianze distributive, la riduzione delle prestazioni welfariste e dell’intervento dello “Stato regolatore” nell’economia) sussistano ancora, tuttavia la misura degli squilibri macoeconomici presenti nell’economia globale al sorgere della pandemia era decisamente inferiore a quella del 2007.
Perché, dopo la pandemia, la ripresa risultasse più rapida rispetto al dopo 2007, si è reso necessario che le misure adottate dai governi dopo il lockdown fpssero in grado di tenere in vita le parti essenziali del sistema produttivo, evitando che difficoltà impreviste ed eccezionali ne causassero un cedimento irreversibile; ciò ha comportato che fossero conservate in vita le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, e messe nella condizione di far fronte ai loro impegni finanziari, “in modo che al momento della ripresa queste potessero sostenere i consumi e la domanda aggregata. E’ questo il motivo per cui – sottolinea Saraceno – “contrariamente a quanto avviene in una crisi keynesiana ‘classica’”, è stato necessario indirizzare le politiche di bilancio verso l’obiettivo del sostegno delle imprese, dei livelli occupazionali, e quindi dei redditi, partendo dal presupposto che “preservare i posti di lavoro” fosse fondamentale, “sia per garantire una ripresa rapida delle attività economiche sia, soprattutto, per non disperdere il patrimonio di conoscenze e di produttività che rende un rapporto di lavoro molto più di una semplice relazione contrattuale”.
Governi e banche centrali hanno utilizzato – ricorda Saraceno – una pluralità di strumenti per salvaguardare l’integrità del sistema produttivo, fornendo alle imprese la liquidità necessaria per “far fronte ai pagamenti senza fatturare”. A tal fine, i governi hanno utilizzato le politiche di bilancio per importi mai sperimentati in epoche precedenti, indirizzando i trasferimenti secondo tre linee di intervento: innanzitutto, per contenere gli esiti devastanti della crisi sanitaria; in secondo luogo, per permettere alle imprese di rinviare i loro adempimento (in particolare, quelli fiscali), allo scopo di sostenerne la liquidità; infine, per consentire alle stesse imprese di poter facilmente accedere al credito bancario. Secondo la Banca d’Italia, l’impegno complessivo del governo comporterà per il 2010 un disavanzo corrente della pubblica amministrazione pari al 10,4% e un debito pubblico consolidato corrispondente al 156% del PIL. Tale impegno, è stato giustificato sulla base della valutazione che una distruzione permanente, sia pure parziale del sistema produttivo, e quindi della base imponibile per il sistema fiscale, sarebbe stata molto più devastante per l’economia e per lo stesso debito pubblico.
Impegni così onerosi per il bilancio pubblico sono stati vissuti – osserva Saraceno – solo dopo eventi bellici; proprio dall’esperienza delle Seconda guerra mondiale possono ricavarsi proficui indirizzi di politica economica validi per il presente; allora il debito non è stato “quasi mai ripagato, ma solo progressivamente riportato a livelli ‘normali’ da una combinazione di crescita e inflazione”. L’esperienza deve perciò servire a suggerire “come garantire che gli Stati possano essere in grado di rifinanziare un debito” che in alcuni subirà notevoli incrementi. Nel caso dei Paesi europei, la garanzia dovrebbe essere fornita dalla solidarietà che gli Stati membri dell’Unione, se andranno a buon fine le iniziative che, dopo lo scoppio della pandemia, sono state prese dalle istituzioni comunitarie.
Il Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo del 23 aprile del 20120, in piena emergenza pandemia, ha infatti approvato la creazione di un Fondo per la ripresa (Recovery Fund) dei Paesi colpiti dal Coronavirus; Il Fondo dovrà essere di entità adeguata e destinato a favore dei settori e delle aree geografiche dell’Europa maggiormente colpiti dalla crisi. Il Consiglio ha pertanto incaricato la Commissione di analizzare le esigenze specifiche e di presentare una proposta all’altezza della sfida che l’epidemia ha posto ai singoli Stati. Mancano ancora, però, le certezze e i dettagli sul nuovo Fondo; per esempio, non è stato stabilito entro quale data il Fondo dovrà essere approvato, anche perché la Commissione e lo stesso Consiglio Europeo pensano che esso debba essere strutturato in termini di interventi articolati e complessi a favore dei settori più colpiti, e soprattutto orientato a salvaguardare la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, maggiormente esposte al rischio di uscire in modo irreversibile dal mercato.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha presentato al Parlamento Europeo la proposta che il Fondo abbia una dotazione di 500 miliardi di euro, da raccogliere sui mercati finanziari e garantiti dal bilancio dell’Unione Europea. La Commissione ha precisato che alla somma del Fondo saranno aggiunti prestiti a tasso agevolato, per cui l’intero cumulo di risorse dovrebbe ammontare a circa 750 miliardi di euro. Di questi, l’Italia dovrebbe riceverne 172,7, la quota più alta destinata a un singolo Paese: 81,8 miliardi di euro in sussidi e 90,93 miliardi sotto forma di prestiti a tasso agevolato. L’utilizzazione di queste risorse non basterà tuttavia per tornare alla situazione precedente la crisi; il loro impiego servirà bensì a far compiere all’economia nazionale un reale “balzo in avanti”, attraverso riforme volte a migliorare la produttività del sistema economico: potranno essere riparati i danni causati dalla crisi pandemica, ma dovrà essere migliorata la prospettiva di un futuro migliore per il Paese. Nel complesso, con l’istituzione del Recovery Fund, l’Europa intende rafforzare, oltre che la propria economia complessiva, anche la propria capacità di far fronte a rischi imprevisti ed eccezionali, consapevole che uscire dalle crisi sanitarie dovrà significare per il futuro un maggior consolidamento delle fondamenta dell’Unione.
Per comprendere l’importanza che riveste l’iniziativa europea di costituire un Recovery Instrument per il rilancio delle economie dei Paesi membri dell’Unione colpiti dalla pandemia da Covid-19, occorre tener conto del significato politico dell’iniziativa. Va infatti tenuto presente che l’iniziativa non viene portata avanti dal Consiglio Economia e Finanza (Ecofin), una delle articolazione del Consiglio dell’Unione Europea, composta dai Ministri delle finanze degli Stati membri; tale compito sarà svolto invece dal Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper), altra articolazione del Consiglio composta dai capi o vice-capi delegazione degli Stati membri presso l’Unione Europea e da gruppi di lavoro ad esso subordinati. Il modo in cui si stanno definendo le finalità del Fondo è la dimostrazione del fatto che queste saranno decise ad un livello tale da affievolire il più possibile l’influenza diretta dei singoli governi nazionali sulla prosecuzione dei lavori.
È stata la Commissione, come si è detto, dietro incarico del Coniglio a prendere l’iniziativa, con diretto interessamento, però, della Cancelleria di Berlino e dell’Eliseo, senza la cui pressione nulla sarebbe successo. Tuttavia, per quanto esistano ancora molti problemi da risolvere (in particolare, il superamento dell’opposizione all’istituzione del Fondo da parte dei cosiddetti Stati membri “virtuosi” (principalmente Olanda, Danimarca, Svesta e Austria), il Recovery Fund rappresenterà un cambiamento di filosofia della politica economica europea, giustificato dal fatto che la crisi pandemica, non avendo avuto un’origine economica, ha suggerito la necessità di una maggior solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione; ciò perché, si è preso coscienza che il livello di sviluppo e di complessità dell’economia globale esporrà in futuro i singoli Paesi al rischio sempre più frequente di shock improvvisi e non prevedibili. Pertanto, la politica economica europea dovrà rappresentare anche il presidio atto a far fronte a rischi eccezionali, con fondi eccedenti quelli necessari per il governo del normale andamento del ciclo economico.
In questo senso, il cambiamento di filosofia introdotto con l’approvazione del Recovery Fund rappresenterà un passo in avanti sulla via dell’integrazione politica dell’Europa. La sua attuazione, infatti, approfondirà i rapporti tra i singoli Stati più di quanto è sinora avvenuto; poiché l’attuazione del Fondo sarà diretta a promuovere, oltre che a ricuperare, la capacità di crescita del singoli Paesi membri dell’Europa, essa dimostra che la comunità governerà le relazioni tra gli Stati membri passando da una prospettiva di “competizione tra gli stessi Stati” a una di “condivisione dei rischi” cui essi sono esposti. Si tratta di un cambiamento radicale, che sinora non era mai stato possibile affrontare.
Se il Fondo per la ripresa avrà successo (il clima in presenza del quale se ne discute a livello europeo non è rassicurante) e se l’Italia saprà utilizzare le risorse messe a sua disposizione in modo da risolvere gli squilibri strutturali che ne condizionano la ripresa economica, conclude Saraceno, i principi che lo ispirano, oltre a spingere l’Europa a dotarsi di una “propria capacità di bilancio”, contribuiranno ad alleggerire la pressione dei mercati sui singoli Stati, in particolare su quelli gravati da un alto rapporto debito/PIL. L’autonoma capacità di bilancio da parte dell’Europa, infine, potrebbe segnare anche il superamento della sterile contrapposizione tra “Paesi virtuosi” e “Paesi indebitati”, che gli egoismi nazionali hanno sinora costantemente riproposto, a scapito dello spirito solidaristico su cui sin dall’origine è fondata la realizzazione del disegno europeo.

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