Le idee vecchie che ostacolano il governo dell’economia

5 Novembre 2020
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Gianfranco Sabattini

In politica, quando si discute di problemi economici ci. si colloca sempre all’interno di un quadro di riferimento fondato sul “tradizionale continuum sinistra-destra”, che ha al suo centro valori diversi cui fanno riferimento i partecipanti alla discussione. Così, ad esempio, con riferimento all’equità sociale, i sostenitori della sinistra fondano le loro argomentazioni su una visione della giustizia sociale che esclude l’esistenza di eccessive disparità distributive, mentre i sostenitori della destra partono dal presupposto che “l’intervento dello Stato per ridurre la disuguaglianza e il rischio sia immorale. Tassare i ricchi per aiutare i poveri è, a loro avviso, una forma di furto”, a prescindere da quanto lodevole possa essere lo scopo.
L’economista, in linea di principio, sostiene Paul Krugman in una recente raccolta di suoi articoli dal titolo “Discutere con gli zombie. Le idee economiche mai morte che uccidono la buona politica”, non può dire se sono validi i valori sostenuti dalla sinistra, oppure quelli avanzati dalla destra; egli, però, può fondatamente prevedere cosa è prevedibile ci si possa attendere da una politica formulata sulla base di un insieme di determinati valori. Schierarsi dalla parte dei sostenitori delle idee progressiste, oppure dei sostenitori delle idee conservatrici, è l’aspetto che determina la politicizzazione della discussione, qualunque sia l’argomento oggetto di contronto.
La più tenace delle “idee economiche mai morte” è la convinzione che tassare i ricchi sia controindicativo per l’economia nel suo complesso, e che un taglio delle tasse sui redditi alti produrrà una maggiore crescita economica. Ovviamente, a questa idea si associa anche quella secondo cui, se si vuole uno Stato con poche tasse e poche prestazioni assistenziali, occorre convincersi “che i programmi per la rete di sicurezza sociale sono dannosi e inattuabili”. Ma se è semplice comprendere la politicizzazione del discorso sulle tasse e sulla spesa pubblica, come mai – si chiede Krugman – la si estende anche a discorsi su problemi che non hanno alcuna connessione palese con la giustizia sociale?
Per esempio – osserva Krugman - l’inquinamento ambientale e le recessioni danneggiano tutti (ricchi e poveri), per cui è lecito chiedersi come mai coloro che condividono i valori propri della destra non si oppongano all’idea di stampare moneta per contrastare l’inquinamento ambientale e le congiunture negative. A suo parere, la risposta è che, sin tanto che non si verificano eventi negativi tali da prefigurare pericoli anche per i ricchi, questi ultimi persistono nel sostenere le idee sorpassate; quando però tali pericoli si concretizzano, allora anche i ricchi si convincono della necessità dell’attuazione di politiche volte a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera o a contenere gli esiti indesiderati della fase negativa del ciclo economico, diventando più inclini ad accettare pure l’idea che occorrano politiche pubbliche per ridurre le disuguaglianze distributive. Salvo poi, rimossi i pericoli, tornare a recitare le loro vecchie “litanie”.
Secondo Krugman, è sempre stato così: negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, ad esempio, la destra statunitense, dopo aver condiviso la politica del “New Deal” rooseveltiano (d’ispirazione keynesiana) per contrastare gli effetti della Grande Depressione, ha intrapreso una dura battaglia contro il pensiero del grande economista di Cambridge, “arrivando addirittura a cercare di impedirne l’insegnamento nelle università, sebbene John Manynard Keynes l’avesse correttamente definita una dottrina ‘moderatamente conservatrice’, un modo per salvare il capitalismo, non per distruggerlo”. Passato il pericolo, la destra conservatrice ha percepito la continuazione della politica del “New Deal” come l’inizio di una serie di azioni governative il cui esito finale sarebbe stato quello di rendere stabile l’intervento pubblico nella regolazione dell’economia. Ora però, dopo la Grande Recessione (e a maggior ragione dopo la pandemia da Coronavirus-19), la situazione economica è diventata molto diversa e più grave, rispetto a quella esistente all’indomani dello scoppio delle Grande Depressione, così da giustificare il coinvolgimento politico anche dell’economista. La gravità della situazione è infatti tale da “imporre” l’abbandono – afferma Krugman - dell’idea che l’analista economico debba restare politicamente neutrale, ma debba invece “aiutare i policy maker a governare in maniera più efficace”, informando l’opinione pubblica, quando ricorrano discorsi scorretti condotti in malafede, dove questi sono sbagliati; ciò è tanto più necessario, quanto maggiore è la gravità degli esiti di ciò che è accaduto a livello globale a partire dal 2007-2008.
La crisi seguita alla Grande Recessione ha sostanzialmente colto tutti di sorpresa. Una parte significativa di economisti era però preparata ad affrontare la situazione post-crisi, perché disponeva di uno schema, elaborato inizialmente dopo la Grande Depressione del 1929-1932 ed “aggiornato e perfezionato durante la crisi asiatica degli anni Novanta e la lunga stagnazione giapponese”. Lo schema, formalizzato in termini macroeconomici e denominato dagli addetti ai lavori “modello IS-LM”, è una rappresentazione sintetica del pensiero economico keynesiano, con il quale è stato dimostrato che, “quando un’economia è profondamente depressa - in particolare, quando è così depressa, per esempio, dagli strascichi di una crisi finanziaria che persino l’azzeramento dei tassi d’interesse non costituisce uno stimolo sufficiente per ripristinare la piena occupazione -, tutto cambia”. Tradizionalmente, in periodi normali, il compito di contrastare le recessioni è affidato alle banche centrali dei singoli Paesi; queste banche dispongono della possibilità di “stampare denaro” e di usarlo per acquistare titoli del debito pubblico, con cui possono controllare con efficacia il tasso d’interesse sui prestiti a breve termine. In questo modo, le banche centrali riescono ad evitare le recessioni, promuovendo una riduzione dei tassi d’interesse per sostenere un’espansione del credito ai privati, i quali, utilizzando per ragioni diverse tale credito, concorrono a sostenere la domanda finale del sistema economico.
In periodi straordinari, invece, pur potendo le banche centrali “tagliare i tassi sino ad azzerarli”, può accadere che ciò non sia sufficiente a contrastare il verificarsi di una recessione; in questo caso, a causa del cambiamento delle regole del “gioco economico” la virtù diventa un vizio, la cautela un rischio e la prudenza una follia: i “deficit di bilancio – sostiene Krugman – sono utili, non dannosi; […]. Fare troppo poco è un rischio molto più grave che fare troppo. E quelle che paiono scelte responsabili […] finiscono per aggravare la depressione”. Non era facile fare accettare “ricette” monetarie espansive al personale politico e al mondo degli imprenditori, ancora “legati” ad idee ormai superate; ciononostante; questo approccio macroeconomico al governo dell’economia è stato però accettato dalle “figure mediaticamente più influenti”, mentre gli eventi successivi al 2008, laddove le “ricette” sono state applicate, hanno confermato in modo spettacolare le previsioni derivabili dal modello IS-LM, anche se molti tra il personale politico, dopo avere accettato i suggerimenti, non hanno esitato ad ignorarli, perché sono sopravvenuti in essi alcuni dei pregiudizi convenzionali.
Uno di questi pregiudizi era fondato sulla paura del deficit corrente del bilancio pubblico, che ha indotto i politici a trascurare il fatto che, se i deficit di bilancio possono costituire motivo di preoccupazione in tempi normali e il senso di responsabilità fiscale è una virtù da conservare, quest’ultima, come già è stato ricordato, diventa un vizio quando prevale una condizione di generalizzata depressione per il sistema economico. Un altro pregiudizio era riconducibile alla “convinzione che la politica debba muoversi con cautela; anche in questo caso è stato ignorato il fatto che, se in tempi normali la cautela è una virtù raccomandabile, quando invece ricorrono situazioni di depressione economica, qualunque ritardo negli interventi dello Stato aumenta la probabilità di aggravare la crisi economica.
Tuttavia, riconosce Krugman, non va ignorato il fatto che la macroeconomia (ovvero lo studio delle depressioni economiche e delle politiche idonee a contrastarle) sia un campo “profondamente diviso” nel dominio degli studi economici. Infatti, al ramo della macroeconomia che corrisponde al contributo di John Maynard Keynes degli anni Trenta se ne contrappone un altro che sostiene la validità di “ricette” antidepressive molto diverse; un disaccordo rispetto alla macroeconomia keynesiana che, per Krugman, è diventato “molto distruttivo” dopo la Grande Recessione del 2007-2008. Il disaccordo tra i due rami della macroeconomia risale al periodo immediatamente successivo alla Grande Depressione del 1929-1932; gli economisti conservatori hanno considerato la teoria keynesiana impropria per un’economia di mercato, e in alternativa, sulla base di argomentazioni logiche, hanno sostenuto che valutazioni “del tutto razionali” portavano alla conclusione che l’offerta di moneta non avrebbe avuto alcun effetto sulla disoccupazione. I fatti però hanno smentito queste argomentazioni degli economisti conservatori e questa; smentita che ha raggiunto il suo culmine con la crisi del 2007-2008.
Secondo gli economisti conservatori, le origini della crisi andavano ricercate nell’eccessivo indebitamento del settore pubblico, determinato soprattutto dall’estensione del welfare State; ma ciò, a parere di Krugman, non corrisponde al vero: era vero - egli sostiene - che i deficit pubblici “salivano alle stelle, mentre il mondo precipitava nella crisi economica”; ma, ricorrendo situazioni di quieta natura, per “limitare i danni”, sarebbe stato necessario che qualcuno fosse stato disposto a spendere più del dovuto, e a svolgere tale ruolo non potevano che essere gli Stati. E’ accaduto, invece, che gli establishment dominanti decidessero che “era tempo di passare dalla lotta contro la disoccupazione all’austerità fiscale, principalmente ai tagli della spesa”; la svolta verso l’austerità ha avuto, nel migliore dei casi, l’effetto di ritardare la ripresa (come è accaduto egli Stati Uniti e alla Gran Bretagna) e, nel peggiore, quello di conservare in recessione gran parte dei Paesi dell’Unione Europea.
Com’è possibile, si chiede Krugman, che in Europa le cose siano andate “così storte”? La sua risposta è che ciò è accaduto perché gli establishment dominanti hanno ignorato “l’aritmetica e le lezioni della storia”, per cui non può sorprendere che i leader europei abbiano sottovalutato “gli avvertimenti secondo cui l’abbattimento della spesa statale e l’aumento delle tasse avrebbero scatenato profonde recessioni” e insostenibili disuguaglianze distributive.
La conclusione di Krugman è che i leader europei hanno cercato di far fronte ai deficit pubblici unicamente con l’austerità, ignorando che le politiche economiche ad essa ispirate, per promuovere la ripresa del sistema economico, non hanno mai avuto successo: non l’hanno conseguito nell’esperienza della Gran Bretagna dopo la prima guerra mondiale e dopo lo scoppio della Grande Depressione del 1929-1932, hanno fallito nel caso della Grecia e sono risultate disastrose per altri Paesi dell’Unione Europea, al punto che, per alcuni di essi, come ad esempio per l’Italia, la depressione economica ancora perdura.

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