1° Premio “Donna al traguardo 2020″ ad uno scritto di Gianna Lai sul lavoro delle donne a Carbonia

27 Dicembre 2020
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Gianna Lai, con questo scritto, ha vinto il 1° Premio “Donna al traguardo 2020. Sezione raccontiamo le donne”. Un omaggio a una storia di ordinaria resistenza frmminile in un ambiente di lavoro e in un contesto sociale difficile, che ci induce a sospendere la sequenza ordinaria dei post domenicali sulla storia di Carbonia per lasciare spazio a questo bel riconoscimento.

Nella città aziendale anche il lavoro delle donne è determinato dall’ACaI  ed è importante verificarne  le peculiarità, rispetto alle paghe degli uomini, partendo dalle tabelle salariali della SMCS, la Società Mineraria Carbonifera Sarda, azienda di Stato, che gestisce le miniere. Scarsamente sindacalizzate nell’immediato dopoguerra, ma raggiunte facilmente dalla propaganda per il voto e dal volantinaggio di partito durante la campagna elettorale, le donne già contribuivano a cambiare il volto della città dopo il 1945, trasferendosi in massa, con la famiglia, al fianco dei mariti minatori.
Donne in laveria, le addette alla cernita del carbone appena estratto, che rapidamente attraversa i piazzali nelle berline condotte dal locomotore. Ancora insalubri gli ambienti, ereditati più o meno tali e quali dal fascismo, caldo terribile in estate, molto freddo in inverno. Nastri trasportatori e frastuono delle macchine, seppure talvolta ammodernate, respirare in mezzo alle polveri, che si depositano  sulle persone e sugli abiti, e alle sostanze che si sprigionano dal minerale, spazi di movimento assai ridotti. E brevi le pause concesse per il pranzo, ma che si svolge all’interno del luogo di lavoro stesso, presso i nastri trasportatori e tra i cumuli di carbone. Nessuna  possibilità di miglioramento, in termini di salario e di mansioni, prive anzi di mansionario alcuno le donne dipendenti SMCS, dirigere il lavoro in laveria rimane ancora responsabilità esclusivamente maschile, di  capi servizio e sorveglianti. Così per le altre lavoratrici, in massima parte donne delle pulizie, nei   piazzali dei cantieri e negli uffici delle varie direzioni minerarie.
A seguito del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro degli operai addetti all’industria mineraria, firmato il 16 ottobre 1946, il primo dopo la Repubblica, le Tabelle salariali SMCS, sui ‘nuovi minimi di paga’, prevedono, per le donne capo famiglia, lire 120 giornaliere. Un salario di gran lunga inferiore alle 171 lire del manovale comune, la più bassa delle qualifiche stabilite per gli operai SMCS. A seguire, le altre indennità: contingenza 139 lire per le donne, 160 per il manovale comune. Le voci che riguardano gli operai, li distinguono in ‘operaio specializzato, operaio qualificato, operaio comune, manovale comune’, con relativa paga corrispondente. Niente è specificato invece  riguardo alle donne, relegate alla fine della tabella, forse compresa la mansione, la qualifica, nell’identità sessuale stessa, nella stessa appartenenza di sesso. E si  distingue semplicemente fra ‘donna capo famiglia e donna non capo famiglia’, ancora più sfruttata quest’ultima, più basse le indennità. E, ancora a seguire,  ‘ragazzi dai 16 ai 18 anni, lire 120, ragazzi inferiori ai 16 anni, lire 92′, paghe, come si vede, del tutto irrisorie.
Qualche centinaio, e spesso anche molte di più, le donne occupate tra laveria e servizi,  variando di molto il reclutamento a seconda della quantità di minerale estratto e di varie altre eventualità, se deve essere velocizzata la consegna del combustibile, se i piazzali di miniera, o del porto di Sant’Antioco, già ne contengono tanto in attesa dell’imbarco, se la produzione rallenta a seguito della protesta operaia, ecc. E sono in assoluto tra le donne più povere  che vivano a Carbonia, le cernitrici, in condizioni di vera sofferenza, quasi sempre prostrate  dalla vedovanza, dall’aver perso un marito o un fratello o un padre in miniera, fino a divenire proverbiale la loro  indigenza  in città, ’sennò non andrebbero a fare il lavoro che fanno’. Spesso sconosciute ai più, vengono dai paesi del Sulcis  e dai furriadroxius vicini, vivono nella periferia più degradata della città, nei cameroni, se non nelle baracche fatiscenti prive di servizi e di ogni forma di igiene, dove proliferano malattie endemiche, dal tifo alla difterite, come attestano le Relazioni prefettizie al Ministro dell’Interno. Le foto del periodo le ritraggono vestite di nero, oppure con gli abiti ancora in uso nei paesi del Sulcis, prive di indumenti adatti e senza guanti e protezione alcuna. E con quel fazzoletto in testa a renderle così simili tra loro,  pur dimostrando età diverse: madri di famiglia e giovani ragazze, il viso annerito dalla polvere. Nello sguardo la sorpresa per come la loro attività possa  aver suscitato l’interesse del fotografo, mentre lavorano al nastro trasportatore, che impone a ciascuna il ritmo della macchina in perenne movimento.
Nuove cittadine ma senza diritti, le cernitrici e le donne addette ai lavori più umili, pesanti e dequalificati nei servizi della miniera e negli uffici, con turni che si protraggono incontrollabili, a seconda delle esigenze della direzione, in pratica escluse dal lavoro impiegatizio, ancora prerogativa esclusiva maschile. E poi a Carbonia le donne sono lavoratrici a domicilio, domestiche nelle case dei dirigenti e dei tecnici, bidelle nelle scuole e, ancora, addette alla pulizia  negli uffici pubblici e nell’ospedale cittadino. Molto più raramente infermiere, funzione svolta  a lungo in città dalle suore Orsoline, che gestiscono anche l’asilo dei bambini, in via Brigata Sassari.  Si esauriscono in ben poche altre possibili occasioni, fuori dall’ambito familiare, le attività delle donne di Carbonia, una città in cui miniera, case, strade, spacci, tutto appartiene all’Azienda di Stato ACaI, perlomeno fino a quando essa stessa non consentirà l’apertura di botteghe e negozi  privati. Non restano che le bancarelle di frutta e verdura, di dolciumi e di vestiti e cose usate, sparse tra i quartieri  più poveri della città, una vita insicura che costringe a trascurare la famiglia, la giornata intera fuori di casa, dal mattino presto, a rifornirsi dei prodotti. E poi il lavoro stagionale per chi abita nelle frazioni, Serbariu, Caput Aquas, Barbusi, Sirai,  mestieri poveri e di grande fatica, le paghe scarse e sempre malsicure, uomini e donne integrano così il ben magro salario della miniera.
A dare uno spiraglio di speranza,  un reddito sicuro se pur modesto, l’apertura dei grandi magazzini, PTB, poi UPIM, vero riscatto per tante ragazze. E poi l’apertura, a pieno regime, delle scuole elementari per le maestre, spesso molto numerose tra le mogli dei dirigenti e degli impiegati. E l’apertura del mercato cittadino, tante donne a gestire le bancarelle del pesce e dei generi alimentari più vari, fino alla nascita dei piccoli negozietti di quartiere, col beneplacito dell’azienda. Vero sostegno, le bottegaie e i commercianti, alle lotte dei minatori e alle loro famiglie: vendita a credito, ‘a libretto’, in attesa del salario di fine mese, anche quando incomincia a diventare meno sicuro, con l’inizio dei licenziamneti di massa. E cuoche nelle refezioni della scuola, le donne, e lavandaie, sarte, magliaie, pensionanti, commesse, parrucchiere, ‘fu il loro modo di diventare cittadine in un miscuglio di lavori tradizionali e nuovi’, come dice l’antropologa Paola Atzeni, a fianco ai mariti  muratori, barbieri, sarti, calzolai, falegnami, il volto della città che pretende di sopravvivere oltre la crisi.
A lungo tante  donne hanno imparato a vivere in una città abitata  prevalentemente da uomini, fatta  per il lavoro degli uomini. E quando si stabilizzano gli abitanti, finalmente nei primi anni cinquanta il vero  riequilibrio, emerge poco a poco una comunità lentamente già in formazione fin dagli anni precedenti. Grazie alla presenza dei partiti e del sindacato e dell’UDI, l’Unione Donne Italiane, e dell’associazionismo femminile e giovanile, una cultura del lavoro fondata  su uguaglianza  e solidarietà. E grazie alla presenza delle mogli e dei bambini dei minatori, in quelle abitazioni moderne, provviste di luce, acqua corrente, bagno, focolare per il carbone. Pur se ancora circondate da una periferia degradata, Corea e gli abusivi intorno alla città, nelle baracche prive di servizi, dove le donne continuano a lavare i panni nei vicini corsi d’acqua.
Nuovi rapporti tra le famiglie nei quartieri, nuove forme di  solidarietà, in questa storia  che accomuna migliaia di persone durante il passaggio epocale dalla guerra alla pace. Il cambiamento nei modi di pensare e nelle mentalità, in uno spazio di relazioni enorme, come è enorme la città, rispetto al paese di provenienza. Coppie e famiglie giovanissime, così numerose le classi della scuola elementare, ciascuna formata da 40-50 bambini, dove la scuola c’è, evidentemente, mancando ancora del tutto nelle piccole frazioni. Ed i caratteri  sembrano rimanere quelli del passato, ancora tutti quei dialetti, dal veneto al siciliano al sardo, capendosi tuttavia benissimo gli abitanti tra loro. Ed anche  i bambini, tutti quei bambini provenienti da famiglie così numerose, come erano quelle dei minatori, che dentro la scuola apprendono l’uso dell’italiano e in casa continuano a parlare la lingua d’origine dei loro genitori. E che vivono la trasformazione attraverso la precaria e instabile condizione data  dalla  miniera, ancora definendo il legame nuovo col paese, nello scambio fra le due culture, contadina e operaia. In particolare durante le lotte dei lavoratori per la difesa delle miniere e dei contadini per la conquista della terra, tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta. Quando  il protagonismo delle donne inciderà ancora di più, e sarà determinante il loro processo di emancipazione nel costruire un futuro possibile e di grande impegno civile e sociale: far studiare i figli e combattere le lotte per il lavoro.

Questo e gli altri scritti del concorso sono pubblicati nel volume “Storie di ordinaria resistenza femminile”, 18^ ed., a cura dell’Ass. Donne al traguardo.

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