No al deposito di scorie nucleari in Sardegna. E la questione va riportata a livello europeo

8 Gennaio 2021
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Tonino Dessì, già Assessore regionale della difesa dell’ambiente

È stata pubblicata il 5 gennaio da parte della Sogin, società pubblica di gestione del nucleare, su incarico del Governo, la mappa dei siti ritenuti idonei all’ubicazione del deposito nazionale unico italiano delle scorie nucleari.
Su 67 località distribuite in 7 Regioni, ben 14 risultano indicate come idonee in Sardegna.
Chi segue l’annosa questione fin dalle origini sa bene che i problemi sono due.
Il primo inerisce a una questione che potremmo definire “ordinaria”: la gestione delle scorie prevalentemente a bassa radioattività derivanti dalle produzioni industriali e da quelle connesse al materiale d’impiego sanitario o utilizzato per attività di ricerca.
Il secondo riguarda le scorie derivanti dall’utilizzo energetico di materiale fissile. Quelle italiane, risultanti dalla dismissione delle quattro centrali chiuse per effetto del referendum popolare del 1986, sono state trasportate per il 95 per cento nell’impianto di riprocessamento di Sellafield, in UK. In realtà non ci sarebbe un vero e proprio obbligo di riportarcele indietro. Pagando, se le tengono o le rivendono riprocessate.
Personalmente ritengo (mi conforta che ieri Lega Ambiente nazionale abbia assunto la stessa posizione) che la questione delle scorie delle centrali sia da affrontare coinvolgendo i Paesi europei che hanno mantenuto in piedi grandi parchi di produzione energetica atomica.
Sia che ancora intendano mantenerli in esercizio, nonostante l’obsolescenza economica della tecnologia e della strategia, come la Francia, sia che intendano dismetterli, come intende fare la Germania, a me pare più conveniente e razionale che si ricorra alle loro strutture anche per lo stoccaggio e il confinamento definitivo della relativamente modesta quota delle scorie italiane.
Il rischio che hanno fatto correre e che tuttora fanno correre a tutta l’Europa dovrebbe comportare anche una disponibilità, magari (trattiamo pure laicamente in sede UE la questione) non gratuita, a concorrere alla sua riduzione in vista della sua auspicabilmente definitiva eliminazione.
Azzardo anche la previsione che le resistenze che emergeranno in tutte le Regioni italiane alla fin fine porteranno, adempiuto il processo di consultazione, a percorrere questa soluzione.
Si “ridimensionerebbe” in tal modo il problema riducendolo a quello (comunque non di poco conto) delle scorie a bassa radioattività, che può essere risolto in due modi. O, appunto, pagando per esportare anche queste in quegli stessi Paesi, come già l’Italia fa per diverse tipologie di rifiuti, compresa una quota di rifiuti solidi urbani, oppure inevitabilmente trovando un sito idoneo sul territorio nazionale.
Ragioni oggettive, anche pratiche (il mare, le condizioni dei trasporti interni, la logistica generale) sconsigliano qualsiasi soluzione in Sardegna, con ogni evidenza.
Restano poi in piedi tutte le considerazioni sui già gravosi e irrisolti problemi che la Sardegna sopporta da decenni e che giustificano il rifiuto unanime dei Sardi di farsi carico loro anche di questo problema.
Noi abbiamo già dato e stiamo dando ancora.
Siamo, ancora dopo la fine della Guerra Fredda, la Regione con la più incomparabilmente alta estensione di territori occupati da servitù militari, alcuni dei quali già gravemente compromessi dall’uso ancora in corso per esercitazioni a fuoco.
Restiamo una Regione con ampie aree tuttora inquinate e non bonificate dopo l’abbandono dell’industria di Stato.
Non si tratta quindi di una egoistica sindrome NIMBY (“Not in my backyard”), ma di un complesso di motivazioni più che giustificate.
Si può trattare, in ipotesi, qualche scambio dietro promesse?
No.
E non solo per diffidenza verso pregresse fregature. Piuttosto perché lo scambio lo diamo già per avvenuto e restiamo ancora largamente in credito.
Non in Sardegna, perciò.

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