Da Palamara ad Amara, l’ennesima tempesta sul CSM pone l’urgenza di riportare il governo della magistratura alla normalità democratica

4 Maggio 2021
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Tonino Dessì

 


 

Non c’è quasi nulla delle vicende e dei modi di funzionamento interni dei poteri dello Stato, che metta più paura di quel vero e proprio “lato oscuro della forza” della cui esistenza periodicamente apprendiamo nell’ambito della magistratura.
Se “i mostri” descritti da Luigi Pintor erano le toghe e gli ermellini di un potere giudiziario ancora compattamente reazionario negli anni ‘60-‘70, quelli di oggi sono correnti, consorterie, individui che imperversano su un potere disordinato, anarchico, arbitrario, inquinato da intrecci inqualificabili fra amministrazione della giustizia, carriere, politica e affari.
E, aggiungerei, da un rapporto patologico con un giornalismo tutt’altro che innocente: basti vedere, su questo nuovo scandalo, la funzione di canali di trasmissione di un dossieraggio illegale della quale son state destinatarie, ma si sono anche fatte interpreti, testate come La Repubblica e il Domani e la feroce rissa, una sorta di regolamento dei conti sotto le mentite spoglie della polemica fra “ipergarantisti” e “ipergiustizialisti”, che si sta pubblicamente svolgendo tra Il Riformista e Il Fatto Quotidiano.
Cavarne chiarezza informativa e persino scegliere, a titolo di cronaca, dall’una o dall’altra delle testate è difficile e imbarazzante.
Da questa storia nessuno esce bene, in questa storia di affidabile non c’è nessuno.
In termini di considerazioni generali, di sistema, quel che vien fuori è anzitutto che l’obbligatorietà e l’indipendenza dell’esercizio dell’azione penale, cardini costituzionali dell’ordinamento, non esistono più, sono polverizzati dagli scontri interni alle procure.
In secondo luogo che nomine e carriere giudiziarie e scambi su questo terreno fra magistratura inquirente e magistratura giudicante sono selvaggiamente lottizzati in una lotta senza esclusione di colpi secondo criteri tribali, feudali, solo latamente ascrivibili alla politica quale determinata dalle elezioni e dagli schieramenti parlamentari di maggioranza e di minoranza (ove si intenda che in realtà la politica dei partiti vi si intromette e vi si accoda, ma è solo una delle componenti che si agitano dentro un coacervo di soggetti e di interessi uno più inquinato e inquinante dell’altro).
Il terzo luogo che l’istituzione di autogoverno, il CSM, per come è congegnata, è solo un pessimo coperchio per una pentola il cui contenuto incandescente non ha nulla più a che fare con la giustizia.
Forse questo è davvero un campo nel quale le scelte e il compromesso fra possibili alternative congegnati dalla Costituzione andrebbero profondamente riviste.
Penso alla questione del rapporto fra funzione inquirente e funzione giudicante. L’intreccio fra le relative carriere si è rivelato quanto di più controproducente potesse darsi.
L’appartenenza dei pm e dei magistrati giudicanti allo stesso ordine avrebbe avuto un senso solo se l’esercizio di entrambe le funzioni fosse stato comunemente ispirato a due canoni: la dipendenza esclusiva dalla legge e la garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini.
Nella pratica generale invalsa il procedimento penale non risponde più a questi canoni, nè su un fronte nè sull’altro.
Talchè oramai il tema della separazione delle carriere torna a porsi come soluzione, anche se molti di noi, ancora in un recente passato, non lo avrebbero auspicato.
Se l’azione penale risponde a un indirizzo anche “culturale” diverso (perseguire e basta), allora la funzione giudicante deve caricarsi maggiormente e strutturalmente del controllo di legittimità e di legalità sull’azione penale.
Ma allora fra le due funzioni e fra le due carriere deve esserci una formale separazione e l’eventuale “cambio” dall’una all’altra dev’essere disciplinato con criteri rigorosi e severi, non può essere una permeabilità burocratica, amministrativa, normale.
Quanto all’autogoverno, in Costituente se ne discusse molto. In ambiente comunista (Terracini in particolare ne era convinto) era originariamente forte la convinzione che il potere giudiziario dovesse essere controllato e vigilato direttamente ed esclusivamente dal Parlamento.
In ossequio alla visione liberale prevalse l’applicazione rigida del principio della separazione dei poteri, che si ritenne avrebbe garantito più coerentemente l’indipendenza della magistratura.
Non pare che il sistema abbia funzionato e c’è da chiedersi se non occorra fare un passo indietro.
Lo esprimo in forma assai radicale: il governo della giustizia ai fini della rispondenza alla legge, della garanzia dei diritti fondamentali e dell’indipendenza della magistratura non può essere affidato a un organo corporativo.
Perciò come minimo andrebbe rivista la composizione di quel collegio riducendovi la presenza di magistrati in servizio e perfezionando i criteri di scelta delle componenti “laiche”, che dovrebbero rispondere, per professionalità e per meriti e titoli anche in materie extragiuridiche, a esigenze di controllo democratico e di trasparenza espresse dall’intero ordinamento-comunità.
Dell’attuale sistema e dell’attuale CSM, spiace dirlo, bisognerebbe ormai fare tabula rasa.

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