Buon 25° compleanno alla comunità La Collina. Una pratica di vita comunitaria alternativa alla detenzione in carcere

12 Maggio 2021
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Federico Palomba

 

Con questo intervento inizia la collaborazione con noi Federico Palomba, magistrato, deputato e Presidente della Regione Sardegna nel periodo 1994-99 con una giunta di centro sinistra.

Questi tempi di assorbente attenzione per i rischi sanitari e per i danni economici da virus pandemico, tra i tanti inconvenienti possono però anche produrre la voglia di leggere e di approfondire temi importanti. A me è capitato di ripensare al tema delle istituzioni totali, come il carcere, cui in questo periodo è stata riservata un’attenzione pressoché limitata al pericolo di diffusione del contagio ed alle modalità per ridurlo. Poca, invece, ne è stata riservata ai problemi relazionali che esso presenta. Ancora meno si  è parlato delle esperienze alternative al carcere. Sono gli aspetti dolenti di una società che già normalmente non vuole accollarsi problemi non suoi, ma che ancor più pratica la cultura dello scarto (per dirla con papa Francesco) quando pensa che solo ripiegandosi su se stessa può affrontare problemi globali.  Ed invece nessuno si salva da solo, come ripete lo stesso papa rappresentando, ormai, una delle più lucide espressioni della coscienza critica globale.
Chi pensa che occorra non dimenticare anche i problemi di un’umanità sofferente, come quella legata al carcere ed alla rieducazione, e quindi volesse capire meglio quel complesso fenomeno, potrebbe leggere (per me rileggere) anche il libro di Sergio Abis, “Chi sbaglia paga”, con prefazione di Gherardo Colombo, edizioni Chiarelettere, 2020, sottotitoli “Certezza della pena e della rieducazione” e “La voce dei detenuti e l’esperienza di un carcere alternativo”. Fra i numerosi libri sulla stessa materia, questo ha almeno due caratteristiche distintive: è scritto da un detenuto e riporta la voce di tanti detenuti; e poi riguarda l’esperienza, del tutto particolare, della comunità “La Collina”, fondata da don Ettore Cannavera.
Non a caso il libro ha visto la luce nell’anno in cui ricorreva il venticinquesimo anniversario dalla fondazione della comunità. Ma è tuttora di immutata attualità. Per questa ragione esso si è accompagnato ad una edizione particolare (perché doppia e speciale) del periodico intitolato appunto “La Collina”, edito dalla stessa associazione onlus che gestisce la comunità. Il suo nome richiama il terreno in dolce pendio di proprietà della famiglia Cannavera in agro di Serdiana, comune in provincia di Cagliari. Il paese è noto anche come luogo ove si trovano le cantine Argiolas, vanto dell’imprenditorialità sarda stimata nel mondo.
Quel nome echeggia “l’ermo colle” di leopardiana memoria. Nelle sue meditazioni dalla sommità del pendio, Ettore Cannavera (da poco insignito dell’onorificenza di commendatore dal presidente Mattarella) fu catturato dall’idea di rendere produttiva quella campagna, fino ad allora brulla. Non si trattava di farla diventare un’entità economica a fini di profitto, che sarebbe stato peraltro lecito e apprezzabile. Anche questo, sì. Ma la sua idea era quella di farla diventare economicamente autosufficiente a sostegno di persone da sempre svantaggiate e colpite dalla sanzione detentiva; per giunta, con il loro concorso: esse stesse vi avrebbero lavorato conquistandosi una retribuzione che avrebbe restituito loro la dignità del lavoro.
Per tanto tempo don Cannavera era stato cappellano del carcere minorile di Quartucciu, già da quando io presiedevo il tribunale minorile della Sardegna. A quel tempo risalgono il nostro incontro e la verifica della comune fiducia nella possibilità di recupero sociale dei giovani devianti; e comunque nella necessità di provare in tutti i modi a contendere il giovane alla sfera della criminalità, aiutandolo a ricostruire l’autostima e a dimostrare a sé e agli altri di potersi reinserire nel consorzio sociale a testa alta. La caratterizzazione di don Ettore come “prete del ‘68” (titolo di un altro libro pure edito nel 2020, ove il ‘68 era la data di nascita di una trentina di preti, ma era anche allusivo ad un’epoca che voleva guardare la società in termini diversi e non convenzionali) riguardava le sue approfondite riflessioni sulla creazione sociale della devianza, dottrina che alludeva al fatto che molti percorsi devianti prendono origine non da una inesistente originaria malvagità ma dal concorso di circostanze sociali che hanno offerto minore o nessuna possibilità di attingere un ruolo sociale positivo. “Davvero qualcuno può pensare che delinquenti si nasca, e non si diventi?”, ha scritto Cannavera.
Ecco, dunque, dall’alto del colle egli ha pensato che quello spazio doveva diventare luogo di recupero della dignità umana. E così, grazie alla rinuncia dei fratelli di don Ettore in favore di quell’impresa solidale, quella campagna è diventata luogo di produzione dei frutti della terra per mano di detenuti affidati all’associazione. Ma poi anche luogo di fecondo scambio di culture e perfino di religioni, divenendo centro di incontri e di partecipate occasioni di rilancio della coscienza critica cristiana (si pensi alle conferenze con Vito Mancuso, apprezzato teologo autore di tanti libri originali).
Ma non si pensi che la permanenza nella comunità di recupero dei detenuti comportasse permissivismo e lassismo. Niente affatto. Nessun recupero sociale può avvenire senza il concorso della volontà di chi vi aspira. Il pedagogista Cannavera sa che ogni traguardo richiede impegno, ed anche sacrificio. Quindi, l’ingresso stesso nella comunità era frutto dapprima di un rigoroso esame delle motivazioni e delle circostanze positive, poi di un vero e  proprio contratto che il detenuto sottoscriveva. Nel quale innanzi tutto l’osservanza delle regole era indefettibile: non perché volta a conseguire una disciplina formale, ma perché serviva a (ri)costruire la personalità. Si trattava, così, di rendere il soggetto ammesso consapevole delle proprie qualità positive: fattore che, come sanno gli studiosi della devianza, è il principale antidoto alla recidiva perché sottrae la persona all’anonimato.
Dunque, l’autore del libro, Sergio Abis, descrive questa realtà attraverso la testimonianza di tante persone venute in contatto con la comunità. Lo fa  da un punto di vista del tutto singolare. Laureato in fisica, si è dedicato alla ricerca applicata e allo sviluppo di nuove tecnologie, lavorando principalmente nel nord Italia. Ha scritto libri scientifici ed ha registrato numerosi brevetti. Ma, compiuti i sessant’anni, ha commesso un grave reato per il quale, reo confesso, ha espiato una lunga pena. Nella parte finale è entrato in contatto con  “la Collina”, potendo così scrivere questo dolente ma stimolante libro per conoscenza diretta. Che ripropone l’interrogativo di Gherardo Colombo contenuto nella prefazione: “Il problema non è tenere i detenuti dentro il carcere, ma tenerli fuori, e come”. Domanda cui risponde Ettore Cannavera: “Il carcere è fondamentalmente stupido. Non serve a niente e costa un enorme ammontare di denaro. Un carcere utile è logico e possibile”.
Il problema ulteriore, a questo punto, sembra essere il seguente: come è possibile convincere di ciò una società che pretende sicurezza e che per questo, malgrado la denuncia dell’ipertrofia del sistema penale, continua a creare sempre nuove fattispecie punibili con la detenzione, alla minaccia della quale affida la speranza della dissuasione? Non c’è bisogno di essere abolizionisti alla Hulsmann: forse basta tendere a garantire ad ognuno pari opportunità di accesso alla società; e, per quanti dovessero ciò malgrado deviare, sperimentare esperienze di collocamento rieducativo sulla stregua della comunità “La Collina”, lasciando la detenzione veramente come “ultima ratio”. Probabilmente anche papa Francesco sottoscriverebbe, a ben leggere la “Fratelli tutti”.

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