Caso Brusca. Pentitismo e collaboratori di giustizia? Che fare?

17 Giugno 2021
1 Commento


Federico Palomba

Federico Palomba, già presidente della Regione Sardegna e parlamentare, è stato nella vita professionale uno stimato e importante magistrato. E’ pertanto di particolare interesse la sua opinione sulla Legge sui collaboratori di giustizia, rimbalzata al centro del dibattito pubblico dopo la scarcerazione di Brusca.

La liberazione di Brusca non è tema che si possa esaurire come fatto di cronaca, che si spegne col passare del tempo dopo l’avvenimento. Esso non può essere consegnato all’oblio perché investe un tema di fondo: quello della politica criminale del nostro Paese dinanzi alla più grave criminalità organizzata. Come tale è sempre attuale; anche perché alcune forze politiche che hanno voluto strumentalizzare il fatto vanno dicendo che vogliono cambiare la legge che ha permesso la scarcerazione.
Ora, è comprensibile che il fatto abbia destato rabbia e indignazione nell’opinione pubblica, più facilmente portata a reagire per emozioni prima ancora di approfondire le ragioni degli eventi. Ed in effetti il fatto facilmente provoca sdegno. Ma non sono giustificate le reazioni delle persone investite di responsabilità politiche ed istituzionali, che hanno il dovere non di comportarsi come cittadini comuni ma di vedere tutte le implicazioni generali dei problemi. La prima delle quali è la seguente: essi non possono ignorare la politica criminale adottata dal nostro Paese e tuttora in essere, in tutti i suoi effetti.  Possono dire di volerla contestare e cambiare, assumendosene la responsabilità; ma non possono abbandonarsi a reazioni emozionali. La ricordiamo qui.
L’Italia ha dovuto fronteggiare due fenomeni criminali senza precedenti altrove: il terrorismo e la mafia. Entrambe, sia pure in modo diverso, richiedono l’organizzazione di più persone animate dal  medesimo intento criminoso: sconvolgere e neutralizzare l’assetto politico-costituzionale in essere per sostituirsi ad esso. Nella lotta senza quartiere al pericolo terroristico il nostro Paese ha individuato il pentitismo e la premialità come elementi di una forte strategia di difesa sociale che tendeva a minare la compattezza delle compagini criminose dall’interno: chi, avendone fatto parte, si dissocia e collabora con lo Stato può avere un trattamento più favorevole, anche in termini di pena e di protezione. Questa strategia, unita alla corale ribellione dell’Italia democratica, favorì la disgregazione e la morte delle organizzazioni terroristiche. Di quella strategia fa parte anche l’esclusione dai benefici carcerari, prevista dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, dei condannati per gravi fatti connessi con terrorismo o mafia, salvo che non collaborino con lo Stato (cd ergastolo ostativo). Cioè, il ravvedimento, con conseguente ammissione ai benefici penitenziari ed alla riduzione della pena, va valutato solo alla luce di un comportamento collaborativo con lo Stato consistente nel metterlo a conoscenza dei fatti criminosi commessi e dell’organizzazione criminale. Ovviamente, le rivelazioni non sono prese per buone di per sé, ma sono soggette ad un’analisi rigorosa per accertarne la veridicità. Non si consegna ad un criminale sedicente pentito il monopolio della verità, perché le rivelazioni possono anche essere dettate da sentimenti di vendetta o di rancore al di fuori del vero.
Questa linea, applicata alle mafie anche per impulso di Giovanni Falcone, ha prodotto risultati pure importanti in termini di assicurazione alla giustizia di un rilevante numero di mafiosi che altrimenti non si sarebbe riusciti a perseguire e condannare.  E’ evidente che quella strategia può comportare situazioni umanamente stridenti, persino abominevoli, come la scarcerazione per fine pena di Brusca, che, pur essendosi macchiato di delitti orribili, in quanto collaboratore dello Stato ha avuto una pena ridotta ed ha goduto dei benefici penitenziari. Ma, purtroppo, anche a malincuore bisogna concedere qualcosa se si vogliono raggiungere risultati in profondità. Molti di questi sono stati raggiunti anche grazie alle rivelazioni di Brusca e alle successive condanne, che hanno evitato altre morti e distruzioni. Forse altre cose sa; ma quello che ha detto è già rilevante.
Oggi quei due pilastri (pentitismo ed ergastolo ostativo) sono scossi. Il primo dalla reazione dell’opinione pubblica per la liberazione di Brusca e la conseguente tentazione di talune forze politiche di strumentalizzarla: il secondo dalle pronunce a breve distanza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che si è appellata al divieto di trattamenti inumani e degradanti contenuto nella Carta EDU, e poi della nostra Corte Costituzionale, sotto il profilo della doverosa osservanza del precetto costituzionale della finalità rieducativa della pena, che verrebbe vulnerato dal “fine pena mai” anche per assenza di benefici carcerari.
La nostra comunità nazionale è a un bivio: eliminare la normativa su pentitismo ed ergastolo ostativo; ovvero mantenerle per non mandare all’aria la difesa sociale dinanzi a condotte demolitorie del nostro assetto politico-costituzionale. Perché deve essere chiaro che seguirebbe a breve scadenza l’eliminazione del 41-bis, cioè l’isolamento carcerario per i peggiori criminali per non consentire loro di continuare a dirigere anche dalla detenzione l’organizzazione mafiosa.
A questo punto esprimo idee personali. Non le esprimo a cuor leggero perché Giovanni Falcone e la giudice Francesca Morvillo, sua moglie, erano miei carissimi amici. Quando dirigevo il dipartimento minorile al Ministero della giustizia facevo parte insieme a Falcone del consiglio di Gabinetto (lui dirigeva la direzione generale degli affari penali). Tuttavia, si deve ragionare oltre i sentimenti per andare alla radice istituzionale dei problemi.
A mio giudizio il pentitismo deve essere mantenuto, insieme ad una apposita campagna informativa che ne illustri ai cittadini i risultati ed i costi. Quanto all’ergastolo ostativo, pur non essendo ovviamente contestabili i principi affermati dalle alte Autorità giurisdizionali richiamate, pare lecito continuare ad esigere che il ravvedimento si debba manifestare con una chiara dissociazione collaborativa e non consista solo in un animistico e non controllabile pentimento. Nelle pronunce giurisdizionali richiamate sembra di intravvedere spazi per questa strada. Si ha il dovere di esplorarli. Del resto, questo ha detto Maria Falcone; e lo ha ripetuto la deputata Piera Aiello, testimone di giustizia.
Il momento è cruciale. Bisogna scegliere la strada giusta, senza facili e demagogiche posizioni. Chi cavalca l’indignazione popolare eviti di lavorare, anche inconsapevolmente, per l’indebolimento della difesa sociale a solo vantaggio delle mafie.

1 commento

Lascia un commento