Pesa la difficoltà di contrapporre alla destra uno schieramento alternativo

7 Luglio 2021
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Alfiero Grandi

La crisi del sistema politico italiano (in particolare dei partiti) rischia di diventare istituzionale e di fare scivolare il nostro paese verso una modifica dei valori, degli obiettivi, costruendo nuove gerarchie sociali che sono il contrario dell’inclusione, mettendo in crisi il ruolo della Costituzione e quindi minacciando la stessa tenuta sociale del nostro paese.
Apparentemente il governo Draghi rappresenta una fase anestetizzata. In realtà non è affatto una pausa, nel paese si agitano tensioni e si sviluppano iniziative. Ci sono movimenti profondi che stanno cambiando collocazioni e orientamenti dei partiti attuali, le loro alleanze e tendono a modificare in profondità il futuro politico del paese. In altre parole i problemi non risolti di identità, di radicamento, di capacità di rappresentare dei partiti stanno portando a convulsioni sempre più profonde, a cui non corrispondono reazioni adeguate, all’altezza dei problemi da affrontare.
La stanchezza e la sfiducia hanno portato in pochi anni alla rapida crescita di partiti, o simil partiti, e al loro altrettanto rapido declino. Questa fase non è conclusa perché la ricerca di punti di riferimento, affidabili, riconoscibili, tra loro alternativi non si è conclusa e quindi le convulsioni del sistema politico continuano e i voti si spostano con rapidità, anche verso l’astensione.
La debolezza del sistema politico dei partiti ha dato spazio a tentativi di occupare le istituzioni cercando di stabilire un rapporto diretto con gli elettori. Questo è stato il tentativo di Renzi che ha cercato di ottenere sul versante istituzionale la conservazione del potere conquistato, che il Pd non era in grado di garantirgli. Solo la sconfitta nel referendum costituzionale del 2016 lo ha fermato nella rincorsa al potere, ma il Pd che avrebbe dovuto cogliere l’occasione per una riflessione di fondo, per fare i conti con il renzismo, ha glissato e il nodo non è affatto risolto, visto che – sia pure dall’esterno del Pd – le azioni corsare hanno portato prima alla crisi della maggioranza del governo Conte2 e ora continua a pesare sul quadro politico la difficoltà di contrapporre alla destra uno schieramento nettamente alternativo. Difficoltà nella quale sono particolarmente esposti sia il Movimento 5 Stelle che Italia Viva. Due situazioni molto diverse ma accomunate da percorsi a zig zag, come per le elezioni nei Comuni di ottobre, e sulla legge Zan.
Elettrici ed elettori hanno bisogno di chiarezza, di riferimenti coerenti. Il tempo del pensiero debole dovrebbe essere considerato concluso. Occorre tornare ai valori, ai riferimenti certi, alle risposte convincenti, superando un tatticismo che è diventato – largamente – diffuso opportunismo.
La formula né di destra né di sinistra è in crisi, sia pure perché la destra si è manifestata in modo chiarissimo in occasioni importanti ed emblematiche, e promette di farlo ancora di più in occasione delle prossime elezioni politiche.
Se il governo Draghi non può essere inteso come il periodo della ricreazione per i partiti e tanto meno può bastare caratterizzarsi nella competizione politica come il sostenitore più fedele (il partito di Draghi) occorre di conseguenza affrontare i problemi, cercando di spostare l’asse dell’azione di governo sul piano sociale, economico e dei diritti. Quindi la competizione con la destra deve essere aperta e forte.
Il PNRR è decisivo per il futuro dell’Italia. È un’occasione irripetibile, non va mai dimenticato. Tuttavia ci sono scelte che debbono essere fatte e l’Europa ha già richiesto di spostare risorse per miliardi di euro per affrontare obiettivi dimenticati, e per togliere quattrini a scelte non coerenti con gli obiettivi della transizione ecologica. Quindi la Commissione europea è l’unico interlocutore, per ora, del governo Draghi.
Nulla del genere è arrivato dal parlamento italiano. Certo il parlamento è ancora sotto scopa dopo il taglio dei parlamentari confermato dal referendum popolare. Eppure il parlamento non ha trovato la forza di reagire neppure in questa occasione. Non ha avuto la forza e la consapevolezza di dovere non solo approvare ma soprattutto condizionare e correggere, qualificare positivamente le scelte indicate nel PNRR, sbarrando la strada ai conservatori e agli interessi economici che difendono le scelte precedenti per fini di profitto aziendale.
Nell’ambito del PNRR ci sono scelte diverse possibili: di destra e di sinistra, innovative o conservatrici, questo dovrebbe portare ad affrontare un duro confronto con i conservatori, che si annidano anche in aziende a partecipazione pubblica. Ma tutto questo è lontano, rarefatto, sostanzialmente delegato al governo, che è oggetto di pressione e di lobbismo degli interessi economici e finanziari dominanti, che allo stato non trovano contrappesi adeguati.
Il decreto legge governance lascia seri dubbi sulle procedure indicate, non tanto sulla velocizzazione ma sulle modalità conclusive di decisione, sulla reale apertura alle opinioni degli esperti, delle associazioni, dei cittadini organizzati a livello territoriale. Al di là delle formule come sarà possibile avere voce in capitolo e come si potrà impedire che il governo vada oltre i limiti nelle decisioni conclusive? L’approvazione del PNRR è automaticamente una delega su tutti i singoli interventi? Questi problemi non riguardano il ruolo dei partiti? C’è un’unica delega in bianco su tutto?
Tra questi c’è il problema principe dello sblocco dei licenziamenti. Dopo il duro periodo della pandemia, che non è detto sia realmente finito, ci troviamo di fronte al riconoscimento che il mondo delle imprese che più ha sofferto la crisi aveva ed ha bisogno di sostegno, non altrettanto verso i lavoratori che hanno beneficiato del blocco dei licenziamenti nel periodo della pandemia. I sindacati sono rimasti fin troppo soli ad affrontare questo tormentato capitolo. Tutti sapevano che lo sblocco rischiava di creare un’alluvione di licenziamenti ma non ci sono stati interventi adeguati verso il governo. Notizie di stampa dicono che il ministro Orlando ha minacciato di andarsene ma non è bastato a modificare a sufficienza le decisioni del governo, fortemente condizionate da Confindustria. Una controprova generale si trova nella composizione della cabina di regia decisa dal decreto legge sulla governance che non prevede la presenza permanente in questa sede dei ministri che si occupano del Lavoro e del Mezzogiorno. Se il lavoro non è considerato un problema permanente, né lo è la qualificazione meridionale degli investimenti non si tratta solo di una dimenticanza o di una sottovalutazione, ma di una scelta discutibile, soprattutto se dovesse uscire confermata dall’approvazione del parlamento, senza modifiche.
La questione riguarda anzitutto il Pd e la sinistra nella maggioranza, ma non solo perché anche altre posizioni politiche sono coinvolte da una ricerca di ruolo. C’è ancora tempo per modificare, ma se non avverrà si capirà meglio perché il sindacato è stato lasciato solo nel contrastare lo sblocco dei licenziamenti.
Il buono ottenuto è merito del sindacato e i limiti dell’intesa con il governo sono figli del mancato impegno dei partiti della maggioranza.
Se questo è il modo di concepire il ruolo dei partiti che stanno nella maggioranza e nel governo non ne deriverà nulla di buono. La crisi politica continuerà. La frattura con la vita reale dei cittadini aumenterà e quindi la capacità di rappresentanza ne risentirà, ma anche in questo caso la situazione non sarà uguale per tutti. La destra ne beneficerà, altri faticheranno non poco a spiegare come mai hanno fatto le guardie svizzere delle politiche del governo Draghi senza cercare di condizionarne le scelte e di cambiarle. Meglio parlarne apertamente ora prima che le conseguenze politiche portino ad una deriva destinata a modificare in profondità la nostra democrazia e non certo in senso migliorativo.

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