Giornata del ricordo. Un altro tragico esito dell’attacco fascista alla Jugoslavia

10 Febbraio 2022
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 Antonello Murgia - Presidente del Comitato provinciale ANPI

L’Anpi, tramite il presidente provinciale di Cagliari, c’invia una nota in cui prende posizione sulla Giornata del ricordo, respingendo la narrazione che tende a porla come contraltare al 25 aprile, e al tentativo di farne la giornata dell’orgoglio fascista. In realtà, i fatti avvenuti al confine jugoslavo sono anch’essi l’esito dell’attacco fascista alla Jugoslavia, come la storiografia ha mostrato.
A seguire una recensione, tratta dall’Indice dei libri del mese, dello storico dell’Università di Torino, Bruno Maida, del libro di Eric Gobetti dal titolo “E allora le foibe”. Su questo volume abbiamo pubblicato in questo blog una riflessione di Gianna Lai in occasione della presentazione del libro il 18 gennaio.

Il 10 febbraio è il giorno del ricordo, istituito in memoria delle vicende che interessarono il confine nord-est dell’Italia sul finire della 2a Guerra Mondiale e delle vittime che ne conseguirono. E’ un ricordo che in questi anni è stato spesso strumentalizzato e usato per battaglie politiche contingenti dalla destra fascista grazie ad una narrazione decontestualizzata degli eventi: una narrazione che esclude sistematicamente i fatti storici che li hanno preceduti ed in particolare l’occupazione di vasti territori jugoslavi da parte dell’Italia in seguito all’invasione nazista dell’aprile 1941. Quale fosse l’atteggiamento del regime fascista nelle terre occupate è ben descritto nelle riservatissime lettere personali che Umberto Rosin Commissario Civile del Distretto di Longanatico indirizzò al Prefetto Emilio Grazioli Alto Commissario della Provincia di Lubiana il 30 luglio e il 31 agosto 1942: “Si procede ad arresti, ad incendi, fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere. La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi”. La guerra partigiana nella ex Jugoslavia era indirizzata contro l’occupante straniero, italiano e tedesco e contro chi collaborava con esso, ma non contro gli italiani in quanto tali. A fine guerra ci furono anche regolamenti di conti, deprecabili sicuramente, ma non si configurarono affatto né come pulizia etnica, né come genocidio. Prova ne sia che le vittime delle foibe furono, secondo la ricerca storica più accreditata (v. in particolare Raoul Pupo) e contando anche i morti stimati ma di cui non furono mai trovati i corpi, fra le 3.000 e le 5.000, mentre gli italiani deceduti come partigiani inquadrati nella Resistenza jugoslava furono circa 10.000. E’ evidente che se la guerra di liberazione jugoslava avesse avuto come bersaglio gli italiani, non avrebbe certo reclutato tra le sue fila 20-30.000 italiani, come appunto avvenne.
Come ANPI vogliamo commemorare tutte le vittime innocenti e anche i 10.000 partigiani che trovarono la morte in Slovenia e Croazia combattendo contro il fascismo e il nazismo. E contestiamo la narrazione che vuole accreditare la tesi del popolo italiano vittima della violenza jugoslava. Una narrazione che non è mossa dall’apprezzabile sentimento di pietà per i propri morti, ma dalla volontà di rivalutare il regime fascista, condannato dalla storia e messo al bando dalla nostra Costituzione. C’è il pericolo, come ha fatto notare lo storico Eric Gobetti, che “il 10 febbraio si trasformi in una vera e propria giornata dell’orgoglio fascista”. Ed è evidente il disegno neofascista di usare il giorno del ricordo per denigrare, attraverso la resistenza jugoslava, quella Resistenza partigiana italiana dalla quale presero le mosse la Repubblica e la sua Carta fondamentale che ci ha garantito, finché è stata applicata in misura accettabile, pace e progresso.

Ecco ora la recensione del Prof. Bruno Maida sull’Indice dei libri del mese

 

Chiarezza su un tema caldo

di Bruno Maida

 

E allora le foibe?: Amazon.it: Gobetti, Eric: Libri

 

Nei nove capitoli che compongono il libro di Gobetti vengono affrontati altrettanti nodi, luoghi comuni, distorsioni e falsità che popolano il dibattito pubblico intorno alle foibe e all’emigrazione più o meno forzata dai territori del confine orientale. Non è un libro per gli storici, lo scrive con chiarezza fin dall’inizio il suo autore, ma “per chi non sa nulla della storia delle foibe e dell’esodo, e per chi pensa di sapere già tutto pur non avendo mai avuto l’opportunità di studiare l’argomento”. L’obiettivo mi pare pienamente raggiunto. Allora, vale la pena elencare innanzitutto quei nodi: la presunta, naturale appartenenza dei territori del confine orientale all’Italia; il fatto che le uccisioni dell’autunno 1943, della primavera 1945 e il cosiddetto esodo siano raccontati come atti improvvisi e segnati da una volontà genocidiaria e/o di pulizia etnica da parte dei “titini”; la comparabilità tra foibe e Shoah come logica, intenzionalità, organizzazione e persino dimensione; il carattere di pulizia etnica che la vicenda delle foibe rivestirebbe, ossia l’intenzionalità di eliminare fisicamente gli italiani da quei territori; l’uso indifferenziato del termine “foibe” per definire un insieme di eventi che assai poco ha a che vedere con il luogo fisico, ma che tuttavia contribuisce a individuarne un aspetto fortemente simbolico e riconoscibile; il rapidissimo trasferimento delle centinaia di migliaia di persone in Italia in realtà avvenuto in tempi e modalità diverse; il presunto abbandono dei profughi da parte dello stato e il parallelo rifiuto od ostilità da parte di un consistente numero di italiani; i numeri sistematicamente gonfiati e infondati delle vittime; le caratteristiche del silenzio che ha parzialmente avvolto questa vicenda; le modalità memoriali e l’uso politico che le destre ne hanno fatto.

In un centinaio di pagine, scritte con grande semplicità e chiarezza, che nulla toglie al rigore delle argomentazioni, Gobetti smonta uno a uno gli stereotipi, contesta le falsità contrapponendo un solido apparato di dati e tesi storiografiche che si sono affermate in decenni di ricerca e, credo, faccia anche un ottimo servizio alle vittime, sradicandole da un eroismo e un paradigma vittimario strumentalmente politici e restituendo loro storicità e umanità. Lo fa, prima di tutto, con un approccio che ogni storico dovrebbe mettere al centro, indipendentemente dalle sue convinzioni politiche, dal suo sistema valoriale, dal suo modello interpretativo: contestualizzando.

Certo, per chi non ha un vero interesse storico e conoscitivo, bensì guarda agli eventi come clave da usare per le proprie tesi politiche e propagandistiche, questo approccio è come il fumo negli occhi, perché la sua conseguenza è sempre, necessariamente, quella di complessificare il quadro, articolare i giudizi, uscire da tutte le polarizzazioni banali. Sia chiaro: ciò non diminuisce assolutamente la possibilità di giungere a conclusioni contrapposte, contestare le tesi avverse, sostenere un’interpretazione conflittuale con le altre precedenti. Ma non si può mentire sui dati, non si possono occultare i documenti che non ci piacciono o non ci convincono, non si può venire meno a una seria e rigorosa critica delle fonti. Insomma, quello di Gobetti non dovrebbe essere considerato il risultato dell’analisi storica ma la sua operazione propedeutica.

Tuttavia, il volume può essere affrontato nel modo migliore inscrivendolo nell’operazione editoriale voluta da Laterza con la collana “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti” curata da Carlo Greppi. Con libri di cui si dà conto in queste pagine, e con un altro annunciato di Francesco Filippi (Prima gli italiani), la collana ha un obiettivo esplicito, espresso dal titolo, ma anche uno implicito, ossia reimmettere nel dibattito pubblico il binomio fascismo-antifascismo come fondamento critico e problematico dell’identità democratica (e antifascista) della storia repubblicana. Non è un richiamo alla storiografia, perché gli studiosi che hanno continuato a studiare le vicende novecentesche del nostro paese quel binomio lo hanno sempre avuto ben presente, ribadendolo, discutendolo, sottoponendolo a critica per il ruolo e il peso, a volte eccessivo, che ha rivestito nella costruzione della memoria e dell’identità degli italiani. Quello della collana laterziana è invece un segnale di allarme rispetto al percorso che il binomio fascismo-antifascismo ha conosciuto nell’ultimo trentennio all’interno dell’uso pubblico della storia.

Il tentativo sistematico di espungerlo come effetto di una sorta di superamento delle categorie novecentesche o di una non meglio definita fine delle ideologie ha prodotto conseguenze assai negative sul piano della consapevolezza storica e politica, contribuendo a fornire legittimità a temi, protagonisti e idee che fino a quel momento erano state collocati al di fuori del perimetro del sistema di valori riconosciuti e rivendicati perlomeno dagli eredi dell’antifascismo storico. La vicenda delle foibe, dell’esodo e del confine orientale – per usare tre termini su cui Gobetti ci invita in tutto il libro a riflettere non per eliminarli ma per coglierne gli usi e gli abusi – fa emergere in modo paradigmatico i cortocircuiti che nascono da questo processo. Ne sottolineo due.

Il primo è l’appiattimento, la cancellazione oppure il ribaltamento di alcuni concetti semplici e fondanti. Per esempio, che i vincitori erano portatori di valori positivi che costituiscono le radici costituzionali e identitarie dell’Italia democratica e repubblicana, mentre gli sconfitti erano portatori di valori negativi, intolleranti e razzisti, che non devono avere cittadinanza nelle relazioni e nei fondamenti di una comunità politica. Oppure, che il negazionismo non è la contestazione di una tesi, qualunque essa sia, ma è un’argomentazione che, al di là delle ragioni che ne sono alla base, non si fonda su un metodo scientifico e perciò coloro che si fanno sostenitori di un tale approccio non sono in alcun modo interlocutori per uno studioso, e non dovrebbero esserlo per alcuna persona che fondi le sue convinzioni sulla scienza e sulle sue regole. Se il risultato finale di settant’anni di studi storici sul confine orientale – ovviamente nella loro traiettoria irregolare – è che nel discorso pubblico le vittime diventano i fascisti, allora il libro di Gobetti è necessario perché a dominare rischiano di essere l’ignoranza e la malafede.

Il secondo è il crescente squilibrio tra storia e memoria. Anziché caratterizzarsi come un dialogo ininterrotto, ad affermarsi è stata sempre più la pervasività della seconda, fino a diventare in sé, per il suo essere fonte umanissima e coinvolgente, la “prova” indiscutibile e incontrovertibile. Non memoria, quindi, come strumento per la conoscenza ed elemento di giustizia, bensì come sostituto della storia, specie nella dimensione pubblica e nel suo uso politico. In questo squilibrio, dove il dovere pubblico sembra essere quello di ricordare tutto e costruire un calendario civile nel quale solo la memoria – e non il rapporto tra memoria e oblio – si trasforma nell’unico risarcimento possibile e nel luogo di riconoscimento collettivo, rischia di non esserci più posto per la storia, per la riflessione, per la complessità. In un mondo normale, il libro di Gobetti non dovrebbe esistere. È talmente densa, ricca e concorde la storiografia sui nodi fondamentali che il suo libro mette in luce, che basterebbe leggerla, anziché essere costretti a ribadire ciò che è noto e manifesto, sia nei fatti sia nel metodo. Ma alle condizioni date, è un bene che sia stato scritto. Da un lato, il libro ci ricorda che l’interpretazione storica non è l’affermazione della soggettività bensì il risultato di un approccio scientifico al passato e alle sue tracce. Dall’altro, il suo autore rivendica e difende, con mite furore, l’idea che lo storico ha una funzione civile e che l’essere antifascista – per Gobetti così come per chi scrive – non è una virtù ma un dovere.

bruno.maida@unito.it

B. Maida insegna storia contemporanea all’Università di Torino

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