Carbonia. Nei 72 giorni c’è anche un importante movimento di giovani. Sfruttamento in miniera, separatezza nella città, sinistre e sindacato ad accogliere i nuovi arrivati, per combatterne isolamento ed emarginazione

13 Novembre 2022
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Gianna Lai

“Il bacino di Carbonia è grandissimo c’erano tanti pozzi sparpagliati per la valle fino al mare l’impressione più grande il primo giorno che sono arrivato lì era che della miniera non si vedeva niente si vedeva solo quell’affare la grande torre di ferro non si vedeva altro poi tutto sotto c’è la miniera ci sono i pozzi quando uno va sotto si trova di colpo in mezzo a questo grandissimo formicaio che è come una città sottoterra e io mi chiedevo ma dove va tutta questa gente che scende giù vedevo i minatori a centinaia scendere giù dentro le gabbie che poi a un certo punto sparivano giù tutti nei fornelli negli avanzamenti ognuno nella sua squadra sparivano giù tutti”. Lo stupore del giovane minatore di fronte al Sulcis, nell’immedesimazione di Nanni Balestrini, che indossa i panni dell’operaio al primo giorno di discesa in galleria, su “Carbonia Eravamo tutti comunisti”. Così, senza punteggiatura, il tono reso ancor più incalzante a descrivere luoghi, lavoro, e poi modi di adesione al sindacato e al partito: brevi i paragrafi che cadenzano il racconto, ma ampio il quadro degli uomini e dei sentimenti.
I giovani di Carbonia sono innazitutto giovani minatori, non può essere diversamente, basato il sistema di lavoro più sulla forza fisica del singolo che sulla modernizzazione tecnologica. E manca a Carbonia una scuola per minatori, del tutto approssimativa la formazione professionale prima dell’ingresso in galleria: in galleria gli anziani insegnano ai giovani prima di tutto la sicurezza, che si fonda su solidarietà e rispetto delle regole definite in ciascuna squadra, rispetto dei compagni di lavoro. E ascoltare bene il caposquadra e seguire scrupolosamente l’opera del minatore, cali brare i movimenti a seconda del ritmo dell’intero gruppo, prontezza negli spostamenti, anche improvvisi, e nell’azione immediata dello sgombero, mai intralciare il passo altrui, essere di aiuto e di appoggio e di sostegno in ogni momento.
Ed occorre molto tempo, come dice l’antropologa Paola Atzeni “per diventare un bravo minatore, una vita di lavoro [che] presuppone doppia verifica, di ordine tecnico e di ordine etico,… egli deve…. rispettare le norme etiche e solidaristiche che riguardano la sicurezza”. Quel lavoro in miniera a mettere in evidenza il senso dell’uguaglianza fra gli uomini, che fonda la relazione nella squadra, secondo i turni e le mansioni: crescere culturalmente nell’apprendimento del mestiere, nell’affidarsi, i giovani, ai più maturi, alla loro capacità di trasmettere nozioni e comportamenti, una vera costruzione di responsabilità che attraversa le diverse generazioni pronte, a loro volta, a istruire i nuovi arrivati. Così si diventa buoni minatori, “il lavoratore capace… godeva della stima dei compagni di lavoro, di un prestigio sociale riconosciuto”, secondo la filosofia del minatore anziano, “impàri, impàri a diventare uomo, impàri a far lavorare il cervello, la testa oltre che le mani, ed hai un certo diritto di fronte all’azienda: tu sei una persona che sa fare”. E il legame prosegue all’esterno, come raccontano i testimoni: da tener d’occhio, in particolare, i più giovani, spesso giovanissimi dato che, eludendo i controlli, molti entrano in miniera prima di aver compiuto i 18 anni, onde raggiungere un salario pieno. Costantemente seguiti dagli anziani, poi, fuori dalla miniera perché si tengano lontani dalla violenza e dal degrado della periferia e sostenuti, quando iniziano i licenziamenti di massa, dando valore “alla concreta e storica socialità di rapporti in cui i minatori hanno vissuto, e vivono, nel lavoro e nel tempo libero”.
La trasformazione investe la gioventù sulcitana nel passaggio dalla campagna al cantiere e alla città, fino a modificarne totalmente, insieme alle condizioni di lavoro, anche i punti di vista. Mentre sembra voglia quasi cancellarne direttamente il passato, ormai privo il paese d’origine della presenza di ragazzi e ragazze, la miniera stessa ad aggravare la povertà delle campagne e la crisi dei furriadroxius, col richiamo continuo di masse sempre ingenti di manodopera giovanile verso la città. Come dice ancora la prof. Paola Atzeni, parlando degli insediamenti minerari in Sardegna già prima di Carbonia, si tratta di un processo legato a “un complesso di mutamenti che concernono non solo le tecniche e i modi di produzione, la mobilità territoriale e professionale, … ma anche la formazione di nuovi rapporti sociali e istituzionali”. Perché “il processo di industrializzazione è un momento di cambiamento globalmente inteso,… comprensivo sia degli aspetti tecnico produttivi, sia degli interessi pratico-politici, sia degli orientamenti ideali e culturali,… un processo di costruzione di modalità e contenuti culturali connessi alla formazione di una coscienza di classe e all’estrinsecarsi di una prassi politica correlata a un progetto di cambiamento, che nel vivo della storia del lavoro dei minatori trovava origine e riferimento”. Dall’opera della professoressa Atzeni, l’efficacia del discorso sull’Inchiesta parlamentare del 1906 nelle miniere sarde, a comprendere il senso di una ideologia ancora imperante, intatta, nel Sulcis dell’Italia repubblicana, “la rappresentazione del lavoro e dei lavoratori sembra collocarsi, senza grandi cambiamenti, nell’universo dei valori tradizionali, compresi i rapporti di dipendenza e di dominio, di subalternità e di egemonia… per devalorizzare i subalterni e per legittimarne la subalternità”. Onde “confermare la dominazione economica, sociale e culturale” sull’intera massa, in ogni momento della sua esistenza.
Così, contro la durezza del distacco tra dirigenti e operai in miniera e nella vita in città, del tutto spaesante per i nuovi arrivati, gli anziani denunciano di fronte ai giovani il carattere tutto ideologico della divisione degli spazi, dirigenti, impiegati, operai: “quelli che erano sposati avevano una casa per sè oppure insieme a un’altra famiglia oppure gli scapoli come ero io vivevano in albergo io vivevo all’albergo Tre e dopo un pò ero riuscito ad avere la cameretta da solo perchè altrimenti si era in tre o in quattro per camera c’era gente che veniva da tutte le parti d’Italia e c’erano che venivano lì da tutti i paesi”, ancora dalla voce di Nanni Balestrini.
Impedita ogni sia pur minima, involontaria promiscuità, a segnare chissà quali privilegi di casta forse le paghe, che si chiamano salario per gli operai e stipendi per gli impiegati, mentre i direttori generali e i consiglieri di amministrazione risiedono a Roma, separati, divisi dal quotidiano della miniera, persino in occasione di trattative sindacali importanti, cui resta delegata l’Associazione Industriali di Cagliari, ugualmente classista e ostile alle maestranze. Per non dire della inquietante continua presenza, di polizia e forza pubblica: questa la civiltà dell’azienda di Stato, se non fosse per la forza delle lotte sindacali fondate sulla dignità del lavoro, fino alla significativa rivendicazione del controllo operaio direttamente sulla attività produttiva della miniera, nella prospettiva di cogestione delle imprese, come definita dalla nostra Carta. Una prospettiva politica a dare in città concretezza di futuro, mentre già sembrava preannunciarsi, in quella rivendicazione di più potere in fabbrica, il porsi degli operai come classe dirigente a preparare il vero “rimescolamento” sociale, almeno tra i giovani, determinato dalla frequenza in massa della scuola, in particolare negli anni successivi, a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta. Che, né l’alterigia di dirigenti e tecnici in miniera, né la rigida divisione degli abitanti in settori e in quartieri distinti, avrebbe potuto impedire. La cultura dell’istruzione nasce dalla cultura della miniera durante le lotte popolari di quegli anni, preparandosi a riempire in città le aule scolastiche di bambini e di bambine, di ragazzi e di ragazze, già prima ancora del concreto affermarsi di un diritto allo studio per tutti: a Carbonia, “il maggior centro industriale dell’isola”, c’è già la scuola di massa quando nei paesi e nelle campagne della Sardegna l’istruzione resta ancora un lusso per pochi. Flusso migratorio ed elevata natalità, “una città giovane con una popolazione giovane”, come la definiscono su Rinascita Sarda Pietro Cocco e Pietro Doneddu, qualche anno più tardi, dando il quadro del cambiamento e della trasformazione.
E su Carbonia città operaia, a far riemergere la vitalità di una massa consapevole, a dar testimonianza di giovani, persone e ambienti, per come si articola il processo di costruzione della classe operaia nel territorio e la sua crescita culturale e politica, una bella galleria di immagini resta il già citato Carbonia in chiaro scuro: ragazze e ragazzi durante l’uscita in piazza, il ballo nei dopolavoro con gli abiti più eleganti, giovane donna sulla vespa e di fronte al cinema e di fronte all’edicola de L’Unità. E poi le ragazze e i ragazzi nel vagone aperto del treno merci, con le gambe penzoloni, verso il mare di Sant’Antioco, Cussorgia e Calasetta. E, a imitazione degli adulti e dei minatori più maturi, l’uso del basco per tutti in città, come facevano gli uomini della sinistra dopo la Guerra di Spagna.

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