Paolo Borsellino: onestà al servizio delle istituzioni democratiche

21 Luglio 2009
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Gianluca Scroccu

Il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio morì Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Fu un’esplosione violenta. Da via D’Amelio a Palermo si alzò una nube di fumo, polvere, calore tossico e aria irrespirabile. Quel fatto tremendo era il risultato di qualcosa di oscuro e misterioso che in tanti hanno denunciato negli anni senza alcun risultato sicuro. Dentro quella nube oscura si nascondono la menzogna e il mistero di Stato, un mistero che ha segnato le manifestazioni dello stragismo che costella, senza soluzione di continuità, la storia della nostra Repubblica.
Col magistrato morirono gli agenti addetti alla sua sicurezza Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed  Emanuela Loi, giovanissima ragazza di Sestu, nell’hinterland cagliaritano.
 
Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista Micromega, Borsellino parlò della sua condizione di “condannato a morte”. Sapeva di essere nel mirino di cosa nostra e sapeva che difficilmente la mafia risparmia le sue vittime designate. Ma continuò la sua opera con scrupolo al servizio delle istituzioni democratiche.
Su Paolo Borsellino ecco un bel ricordo di Gianluca Scroccu

Lo Stato, quello con la S maiuscola. È la prima associazione che viene in mente quando si pensa a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta. La stessa che si richiama spontaneamente ricordando il nome di Giovanni Falcone. Il 23 maggio del 1992 l’uomo che aveva raccolto le confessioni di Buscetta non sapeva che sarebbe andato incontro ad una morte crudele e violenta su un tratto come tanti di un’autostrada siciliana. E non sapeva, Falcone, che con lui sarebbero morti sua moglie e tre agenti della sua scorta. Paolo Borsellino, invece, dopo la tragica fine del suo grande amico, era consapevole di essere nel mirino e che presto sarebbe toccato a lui. “Mi resta poco tempo”, diceva a familiari e amici. Sopravvisse al suo collega solo 57 giorni.
Nella sua storia della mafia pubblicata da Laterza, lo storico inglese John Dickie ha scritto che tutti gli italiani si ricordano, più meno, cosa facevano quel 23 maggio o quel 19 luglio. È vero. Quel 19 luglio del 1992 me lo rammento bene. Avevo 15 anni e con mia sorella sonnecchiavo di fronte alla tv di mia nonna. Improvvisamente venne annunciata un’edizione straordinaria. Una frase secca del telegiornale: “Strage in via d’Amelio, trucidati il giudice Borsellino e gli agenti della scorta”. C’era anche una giovane poliziotta di Sestu dal luminoso sorriso in quel tragico pomeriggio: si chiamava Emanuela Loi. Anche lei fu travolta insieme al giudice e ai suoi colleghi dalla tremenda carica di esplosivo preparata da Cosa Nostra.
Riina e Provenzano sottovalutarono però il fatto che quell’attentato avrebbe risvegliato la coscienza di molti cittadini e ne avrebbe segnato l’esistenza come mai era successo prima. Del resto gli italiani cosa sapevano della mafia prima di Falcone, Borsellino e del lavoro del Pool di Palermo? Poco, o meglio ne avevano una rappresentazione caricaturale e da romanzo. Avevano visto Il Padrino , sapevano di Lucky Luciano o di Al Capone, ma difficilmente si aveva una profonda consapevolezza di quello che la mafia aveva rappresentato nella storia d’Italia sin dai tempi dell’Unità. Falcone e Borsellino furono capaci, insieme al gruppo di magistrati guidato e messo in piedi con la supervisione prima di Rocco Chinnici e poi di Nino Caponnetto, di analizzare scientificamente il fenomeno mafioso: lo vuotarono dei suoi contenuti caricaturali e ne studiarono, anche grazie alle rivelazioni dei pentiti, forme, strutture interne, strategie, rapporti internazionali, oltre ai legami perversi con la politica e le istituzioni che invece di combatterla si servivano di Cosa Nostra all’interno di logiche affaristiche e mero potere. Intelligenza, memoria e capacità di lavoro: queste erano le grandi qualità professionali dei due giudici nei ricordi dei colleghi. È così li ricordava Antonino Caponnetto, il mite magistrato fiorentino che, prossimo alla pensione, subito dopo il vile assassinio di Chinnici nel 1983 fece domanda per trasferirsi a Palermo dove, con un lavoro metodico e intelligente, conducendo una vita semplicissima in una stanza della caserma della Guardia di Finanza, guidò il lavoro di quei giudici che conseguirono i più importanti risultati nella storia della lotta alla mafia.
Viene allora da chiedersi se Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Chinnici, Cassarà, Giuliano, Impastato, Livatino, Libero Grassi, Don Puglisi, La Torre, Mattarella e tutte le altre vittime della violenza mafiosa siano morte invano. No, non lo sono. Certo, oggi Cosa Nostra non è più presente con i suoi delitti clamorosi ed efferati sui grandi mezzi d’informazione; continua però ad agire e a condizionare pesantemente la vita quotidiana di moltissimi italiani. È allora più che mai necessario parlare del fenomeno mafioso, studiarne le radici storiche e i mutamenti, discuterne nelle scuole. È il più grande lascito di uomini come Falcone e Borsellino e dei loro agenti di scorta che mai smisero di incarnare i valori di onestà e servizio per la Patria.

Ecco ora un ricordo di Emanuela Loi e degli agenti della scorta, deceduti con Borsellino

Emanuela Loi aveva 24 anni quando morì in via D’Amelio. Era nata e cresciuta a Sestu, paese a pochi chilometri da Cagliari. Era diplomata all’Istituto magistrale, ma preferì fare la poliziotta.
Quando arrivò a Palermo disse: “Se ho scelto di fare la poliziotta non posso tirarmi indietro. So benissimo che fare l’agente di polizia in questa città è più difficile che nelle altre, ma a me piace”. E’ stata la prima donna ad entrare a far parte di una scorta  a personaggi ad alto rischio di attentati. Ed è inutile negare che si trattò di una decisione a dir poco discutibile. Un elementare regola di prudenza avrebbe dovuto consiliare di scegliere fra agenti ben più esperti e adeguati allo scopo, anche se una scelta diversa non avrebbe certo cambiato il corso degli avvenimenti.
La sua storia ha ispirato il film di Rocco Cesareo “Gli angeli di Borsellino”. Una pellicola che parla della scorta QS e racconta tutti i 57 giorni che vanno dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio. Il regista e gli sceneggiatori Ugo Barbara, Mirco Da Lio, Massimo Di Martino e Paolo Zucca sono partiti dal libro “La ragazza poliziotto” scritto dal giornalista palermitano Francesco Massaro pochi mesi dopo la strage di Via D’Amelio, in cui veniva delineato il personaggio di Emanuela Loi.
La morte di questa giovane ragazza suscitò un generale sentimento di solidarietà con la famiglia. L’on. Luciano Violante, che in quei giorni fu npreposto (non senza contrasti) alla  presidenza della Commissione antimafia, come primo atto del suo nuovo incarico, si recò nella casa dei genitori di Emanuela Loi a Sestu, rinnovando i sentimenti di cordoglio e la viva commozione di tutti gli italiani.
Quel giorno con Emanuela Loi e il magistrato morirono anche:
Agostino Catalano, capo scorta, 43 anni. Sposato, aveva perso la moglie ed era rimasto solo con le sue due figlie.

Walter Eddie Cosina, 30 anni. Era nato in Australia. Morto durante il trasporto in ospedale. Lasciava la moglie Monica.

Vincenzo Li Muli, 22 anni. Il più giovane della pattuglia. Da tre anni nella Polizia di Stato, aveva ottenuto pochi mesi prima la nomina ad agente effettivo.

Claudio Traina 26 anni. Arruolato in Polizia giovanissimo, dopo essere stato a Milano e Alessandria, aveva ottenuto da poco il trasferimento nella sua città: Palermo.

Invece, Antonio Vullo, 32 anni, agente, sposato e padre di un figlio è l’unico riuscito a sopravvivere alla strage. Mentre i suoi colleghi si stringevano attorno al magistrato, Vullo parcheggiava la macchina poco distante.

Emanuela era procinto di matrimonio. In Sardegna molte scuole portano il suo nome e Sestu ogni anno la ricorda.

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