La nuova questione meridionale e il berlusconismo

16 Settembre 2009
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Andrea Raggio

“Quando usciremo davvero dalla recessione – ha scritto recentemente l’economista Tito Boeri – il reddito pro capite degli italiani sarà tornato al livello del 1998. E’ impossibile recuperare tutto questo terreno perso senza il contributo del Mezzogiorno”. La questione meridionale torna, dunque, all’attenzione come la questione nazionale. Senza il contributo del Mezzogiorno l’uscita dalla crisi sarà più lenta e avverrà a costi sociali più alti, al Sud come al Nord. Nella fase di confusione ideale e politica che viviamo, inoltre, il rilancio della questione meridionale consente di spostare il dibattito dalle provocazioni leghiste al problema vero, quello dell’unità e del rinnovamento dell’Italia come Stato e come Nazione.
L’idea che le forzature dell’autonomismo in chiave secessionistica, al Nord come al Sud (e, purtroppo, anche in Sardegna), servano a fronteggiare meglio la crisi è una pericolosa illusione. La Lega usa le minacce secessionistiche come arma di ricatto politico e insiste su un’interpretazione in chiave antimeridionalista della crisi italiana per accreditare l’esistenza di una questione del Nord, convergente con la parte più sviluppata dell’Europa centrale, contrapposta a quella del Mezzogiorno, destinato alla perifericità e alla marginalità in un mondo globalizzato. In sintesi, per “destoricizzare” la questione meridionale. Purtroppo la minaccia di un leghismo meridionale volto a controbilanciare il ricatto di quello nordista concorre a offuscare il carattere nazionale della questione meridionale, a ridurla a problema locale.
Al tentativo di derubricare la questione ha certamente contribuito il fatto che negli ultimi vent’anni “c’è stata come un’eclisse di quella cultura meridionalista che per più di cento anni ha rappresentato un tratto costante della cultura nazionale”. Biagio De Giovanni, in un saggio sul “La Nuova questione meridionale”, osservava che “il meridionalismo ha contribuito a “pensare” l’Italia e a dare all’Italia il senso del suo essere nazione … a tenere concretamente insieme l’Italia proprio nel momento in cui “pensava” le ragioni e i limiti della sua unificazione.” Il meridionalismo, quindi, non è mai stato una cultura parziale e locale e i suoi maggiori rappresentanti - da Pasquale Villari a Giustino Fortunato ad Antonio Gramsci sino a Pasquale Saraceno - hanno parlato del Mezzogiorno guardando all’Italia.
Quali sono, allora, le ragioni del suo progressivo affievolimento proprio negli anni dell’aggravamento del divario? Il dibattito su quest’argomento ha come principale punto di riferimento i cambiamenti epocali intervenuti in quel periodo, a partire dal 1989 quando con la caduta del muro di Berlino sono venuti meno anche gli ultimi argini all’irrompere della globalizzazione, quelli costituiti dalle strutture politico-militari della guerra fredda, e quando dalla piccola Europa si è passati alla grande Europa e si è fatto sempre più stringente il rapporto tra sovranità nazionale e sovranazionalità. Con la fine dell’equilibrio bipolare, inoltre, sono andate riemergendo questioni nazionali sino ad allora nascoste, che con la globalizzazione sembravano destinate alla marginalità. Ecco perché l’interpretazione leghista del dualismo italiano non è destinata a reggere e rischia di produrre solo lacerazioni.
La questione meridionale ritorna, dunque, per via sia della recessione economica e della crisi ideale e politica del Paese sia dell’accelerazione della globalizzazione. E ritorna, ecco il punto, con connotati nuovi. E’ cambiato il rapporto tra le Regioni meridionali e lo Stato nel senso che i finanziamenti e le politiche europee hanno sostituito l’intervento straordinario nazionale. E’ cambiato il rapporto Nord – Sud nel senso che il Mezzogiorno come puro mercato di consumo è sempre meno funzionale all’interesse del Nord, il quale guarda, invece, sempre più al mercato europeo e mondiale. Ed è cambiato, infine, il Mezzogiorno, sempre più svuotato dal punto di vista produttivo, soprattutto in campo industriale, impoverito dalla disgregazione sociale, mortificato dal crescere delle illegalità e della corruzione, indebolito dalla caduta di ruolo dell’intellettualità e dalla degenerazione della vita pubblica. Questi cambiamenti hanno fortemente interessato anche la Sardegna che, non dimentichiamolo, fa parte anch’essa della questione meridionale, con le distinzioni e le peculiarità che sappiamo.
Il Governo e la sua maggioranza ignorano totalmente la nuova questione meridionale. Le loro proposte puntano a un puro e semplice ritorno al passato con iniziative, come la Cassa per il Mezzogiorno sotto altro nome e il ripristino delle gabbie salariali, già sperimentate con esiti infelici e oramai archiviate. Occorre, invece e innanzi tutto, liberare la società meridionale dai cappi che la stanno strangolando (illegalità, corruzione, clientelismo, inefficienza delle Istituzioni e della pubblica amministrazione) per dare respiro e forza all’iniziativa democratica locale e all’innovazione in tutti i campi, a partire da quelli culturale e imprenditoriale.
Risponde a queste esigenze il federalismo? Così come va concretamente delineandosi, a mio parere no. Questo federalismo appare sempre più come una risposta frettolosa e pasticciata, strumentale, alla domanda di maggiore autonomia regionale e minaccia di aggravare il divario Nord – Sud. Occorre, inoltre, avere l’onestà di ammettere che nelle attuali condizioni d’inefficienza e degenerazione delle regioni meridionali le nuove competenze rimarrebbero ancora una volta sulla carta e le maggiori risorse finanziarie che il Governo promette, ammesso che mantenga la promessa, andrebbero in gran parte ad alimentare il clientelismo e la corruzione.
Il decentramento di poteri e risorse è indispensabile, ma può funzionare senza una radicale riforma del potere politico centrale? Questo è il punto. Le forze democratiche meridionali, che nel passato sono state protagoniste di un grande movimento culturale sociale e politico, oggi sono in difficoltà perché l’ideologia e la pratica di governo berlusconiane hanno alimentato e alimentano le antiche cause delle difficoltà. Per avere regioni forti occorre un potere politico centrale (non centralistico) forte, che abbia cioè la volontà e la capacità di recidere le antiche e nuove radici della degenerazione della vita pubblica. Il potere berlusconiano, autoritario eversivo e corruttore è sotto quest’aspetto un potere debole e complice.
Il problema, in conclusione, è il berlusconismo, il quale consiste, lo sappiamo, in una pratica di governo antidemocratica alimentata dalla predicazione ed esaltazione di un modello di vita amorale, egoistico e intollerante. Per sradicarlo è indispensabile mandare a casa quanto prima il suo traballante padre padrone avviando nello stesso tempo un profondo rinnovamento politico e un’opera di bonifica culturale e morale di lunga lena. E’ questa l’intenzione dei promotori del cosiddetto “Grande centro” oppure puntano solo a rimuovere Berlusconi per salvare il berlusconismo? E il Partito democratico riuscirà ad accreditarsi come forza capace di promuovere un’alternativa politica e ideale al berlusconismo? La risposta a questi interrogativi è anche nelle mani di ciascuno di noi.

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