Le vuvuzelas dei debiti sovrani

25 Agosto 2010
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Marcello De Cecco - Repubblica — 12 luglio 2010

Da quando, circa un anno fa, Stati Uniti e Cina vararono i loro grandi programmi di stimolo dell’ economia e Stati Uniti ed Europa intervennero massicciamente a salvataggio dei rispettivi settori finanziari, parecchi osservatori hanno fatto la facile previsione che l’ ora della verità sarebbe scoccata attorno al giugno di quest’ anno, con l’ affievolirsi dell’ effetto dei programmi di stimolo e in pervicace assenza di uno sviluppo autosostenuto. Dall’ inizio dell’ anno, inoltre, sulla stampa mondiale si è cominciato a dare rilievo al fatto che tra stimoli reali e salvataggi finanziari, i conti pubblici di molti paesi sviluppati, già messi in seria difficoltà dalla diminuzione delle entrate causata dalla grande recessione del 20082009, stavano entrando in grave sofferenza e che ciò avrebbe appesantito i mercati finanziari, che sarebbero stati inondati di nuovo debito emesso dagli stati in cerca di rifinanziamento di debito scaduto e di nuovi fondi per far fronte alle finanze pubbliche aggravate dalle conseguenze della crisi. w segue a pagina 6 Questo leit motiv, suggerito dalla stampa finanziaria inglese, è stato ripreso da tutti e ci ha assordato peggio di una vuvuzuela nei mesi successivi. Non è difficile vedere tra le motivazioni della sua persistenza una genuina preoccupazione per le finanze pubbliche dei maggiori paesi, ma anche un tentativo, riuscito, di far abbassare le quotazioni del debito pubblico dei paesi europei deboli e rialzare, quindi, i tassi di interesse sui medesimi. Le grandi banche e gli altri maggiori investitori mondiali si trovano infatti di fronte a una situazione finanziaria assai peculiare. Le banche centrali, con a capo la Fed, hanno capito di non potere smettere di fornire enormi dosi di liquidità ai mercati, fin quando dura la pessima situazione occupazionale che la crisi ha determinato. Quindi, persistere di tassi di interesse molto bassi, con guadagni ridotti al minimo per le banche. Queste ultime devono assolutamente accumulare fondi per ricostituire il capitale e restituire i soldi presi in prestito dallo stato nel momento più cupo della crisi. Devono quindi fare profitti e prevedono di poterli fare solo con arbitraggi su titoli, se persistono tassi di interesse bassi. Dall’ inizio del 2010 e fino al giugno scorso, le banche avevano creduto di poter impostare una strategia basata sulla previsione di una uscita dalla crisi più veloce per gli Stati Uniti rispetto all’ Europa, con una situazione di tassi maggiori negli Usa, che ha suggerito loro di vendere titoli europei. Ma la strategia è fallita, malgrado il reprensibile comportamento della dirigenza politica tedesca, che ha aizzato il proprio popolo contro i paesi spreconi dell’ Europa meridionale. La ripresa americana perde colpi e l’ occupazione diminuisce invece di aumentare. Nel mese di giugno negli Usa le vendite di case sono diminuite, la fiducia dei consumatori è arretrata, la produzione manifatturiera ha perso l’ abbrivio. Paul Krugman, che ha da tempo iniziato insieme a Joe Stiglitz una campagna a favore della continuazione del deficit spending, prevede per i prossimi sei mesi una crescita del pil di solo l’ uno per cento, con un 2011 dello stesso tono. E anche dai BRIC, specie dalla Cina, vengono notizie di un tentativo delle autorità di ridurre la corsa dell’ economia, senza metterla tuttavia in pericolo per il futuro. La strategia condotta dalle banche americane, imitata da quelle del resto del mondo, di scommettere contro l’ Euro e a favore del dollaro con arbitraggi tra titoli di stato americani e di altri paesi sviluppati, ha dovuto per forza essere abbandonata, con perdite nel caso di coloro che sono saltati sul carro per ultimi. Si pone dunque, di nuovo, il problema: come fare a stimolare l’ apertura di occasioni di arbitraggio, visto che le altre fonti di guadagno languono per le banche con il languire della produzione, dei prestiti al consumo e dei mutui immobiliari? Le famiglie, negli Stati Uniti e negli altri paesi “cicala”, sono penosamente impegnate a ricostituire i risparmi per servire i debiti pregressi. Quelle americane, ad esempio, stanno accumulando risparmi per circa il 7 per cento del pil, dopo essere scese a valore inferiori allo zero. Le imprese hanno altro da fare, con lo slump nei consumi e negli investimenti pubblici e privati, che pensare ad ardite operazioni di fusione e acquisizione. Quelle imbastite negli ultimi mesi, con qualche eccezione, sono più indotte da necessità di salvataggio e di recupero crediti che da occasioni di profitto. Bisogna dunque capirle, le banche, come bisogna capire i gestori dei fondi di tutti i tipi. Questi ultimi hanno bisogno di volatilità per guadagnare. Le banche hanno bisogno di profitti per ricapitalizzarsi, e ciò vuol dire capitali freschi da prendere sui mercati o sacrifici per gli azionisti, privati dei dividendi. Come faranno le banche a mostrarsi appetibili agli investitori con simili previsioni, è una domanda che sorge spontanea. Le banche americane pensano di stare meglio di quelle europee. Hanno ricevuto circa duemila miliardi di dollari dallo stato, ne hanno restituiti 400 miliardi, sono tornate alla redditività e pare che non abbiano in carico titoli di stato dei paesi deboli dell’ Euro. Quindi gridano alto il loro stato di riguadagnata salute, sperando che si traduca in aumenti delle quotazioni di borsa. In Europa, paesi come la Germania affermano di essere in ottime condizioni rispetto ai paesi del Mediterraneo e propongono in sedi come il G20 programmi di grande austerità. Ma sanno benissimo che una buona parte delle loro banche è in condizioni per nulla buone. In Germania, ad esempio, tutto il settore delle Landebanken è in pessime condizioni e, consce di questo fatto, le autorità spagnole hanno proposto che si conducano stress tests su tutte le banche europee maggiori. In tal modo cercando di far spostare i guai dal proprio capo. La proposta spagnola è stata accettata, ma ora le autorità tedesche cercano di diminuirne la pericolosità per le Landebanken (ma a stare a qualche autorevole consulente finanziario londinese, anche le azioni della Deutsche Bank sarebbero da vendere). I risultati degli stress test su un centinaio di banche europee dovrebbero apparire tra qualche settimana. E’ chiaro dunque che, in assenza di opportunità di guadagno più tradizionali, le maggiori banche del mondo, incluse quelle europee, dovranno cercare occasioni di profitto in una continuazione e se possibile accentuazione delle attività di arbitraggio su titoli privati ma specialmente pubblici. I destini delle banche e quelli delle finanze pubbliche sono quindi legati da relazioni complesse. Le banche guadagnano dall’ aprirsi e dal persistere di spread tra i titoli di paesi diversi, visto che col costo ridicolo della provvista e con la scarsità di altre occasioni di guadagno, non si vedono altre possibilità di ricostituire il capitale. L’ aumento degli spread, tuttavia, fa crescere l’ incertezza e spinge gli investitori finali verso titoli a basso rischio. Che sono, inevitabilmente, i titoli di stato dei paesi fiscalmente più virtuosi. Questi sviluppi, se continueranno nei prossimi trimestri, porteranno a crescenti difficoltà per le banche, anche per quelle americane, di raccogliere capitale sui mercati. Sarà così ancora necessario ricorrere alla doppia intermediazione: gli investitori finali compreranno titoli di stato dei paesi percepiti come virtuosi, oltre che a quelli degli Stati Uniti, per il persistere del privilegio esorbitante del dollaro, che non è affatto finito ma è destinato, per l’ inane comportamento della signora Merkel e dei suoi accoliti, a durare almeno fino a quando tra parecchi anni, il renmimbi non diverrà veramente convertibile. Coi proventi delle vendite dei titoli di stato le autorità compreranno titoli delle banche, col risultato che sempre meno banche resteranno nel settore privato. D’ altronde, se si impone alle banche di continuare a dismettere poste del proprio attivo o di ricapitalizzarsi sul mercato, e allo stesso tempo gli stati si impegnano a far quadrare i propri bilanci in tempi abbastanza stretti, dando una bella strizzata alle prospettive di crescita dell’ economia mondiale, si rischia di far proprio il programma del Tea Party repubblicano. Al fondo del quale brilla la splendida prospettiva di un ritorno degli anni trenta. –

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