Il giorno più lungo

14 Dicembre 2010
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Amsicora

La politica ora si fa in ristorante. Ieri a cena e sarà il pranzo di oggi a decidere le sorti del Paese. Il Cavaliere ieri ha invitato a cena i suoi deputati. Chissà se li ha convinti, chissà come è andata la campagna acquisti. Di solito i buoni affari si fano all’ultimo momento quando il mercato chiude.
Ma ormai il dado è tratto. Inizia il giorno più lungo. Si va alla conta e, tra polemiche e mercato dei voti, l’esito alla Camera resta incerto. Le ‘colombe’ hanno fallito. Nessuna mediazione tra Berlusconi e Fini, di nuovo vicini nell’Aula di Montecitorio ma mai così distanti al termine di una convulsa giornata di trattative. La prima offerta è del Cavaliere, che nel suo discorso al Senato gioca la carta dell’allargamento della maggioranza ai centristi. E offre ai finiani il ‘calumet della pace’, perché “tutto si può fare - sostiene - tranne che progettare un’alleanza con la sinistra per questa legislatura camuffandola con il governo di transizione”.
Il Cavaliere gioca sulla debolezza dei finiani. Non hanno costruito un’alternativa. Fa così un appello a quel “senso di responsabilità verso il Paese” che per il premier dovrebbe imporre ai finiani di “rinnovare la fiducia al governo” così da evitare la “follia” di una crisi al buio “priva di soluzioni” e, con la crisi economica ancora all’orizzonte, pericolosa per il Paese. Il leader dei futuristi ascolta l’intervento dell’ormai avversario dal suo ufficio di presidente della Camera. Trentuno minuti chiuso al primo piano di Montecitorio, al termine dei quali si precipita nello studio di Silvano Moffa, finiano moderato che minaccia l’astensione dopo la bocciatura della mediazione che aveva promosso con altri cinque deputati di Fli e dieci del Pdl. Per la terza carica dello Stato è l’inizio di una girandola di incontri. Uno dopo l’altro entrano nel suo studio Francesco Rutelli, Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa, i leader insieme a lui di quel Terzo Polo che chiede a Berlusconi di fare un passo indietro. Poi è la volta di Andrea Ronchi, Adolfo Urso e Giuseppe Consolo, suoi fedelissimi, che iniziano una estenuante trattativa con Moffa & C.. Pensa all’astensione anche Maria Grazia Siliquini, delusa per la scarsa consultazione all’interno del nuovo movimento, e la certezza di avere i numeri per ribaltare Berlusconi alla Camera si fanno di ora in ora meno granitiche, mentre i deputati di tutti gli schieramenti iniziano ad affollare il Transatlantico.
E, quando alla Camera inizia il dibattito, ecco un estremo tentativo di mediazione. La proposta, recapitata di persona a Berlusconi da Urso e Moffa, prevede che i finiani si astengano al Senato, così da permettere al premier di incassare la fiducia a Palazzo Madama. Subito dopo, però, il Cavaliere si deve dimettere, presentandosi al Colle per un reincarico che a quel punto avrebbe la benedizione dei finiani. Prendere o lasciare, perché in caso contrario i futuristi voterebbero compatti la sfiducia. Berlusconi si mette in tasca il documento e, al suo ingresso nell’Aula di Montecitorio, concede ai giornalisti soltanto un generico “tutto bene”. Non bisogna però attendere molto per capire che anche questa trattativa è destinata a fallire sul nascere. “Le dimissioni? Più che una mediazione sembra una presa in giro”, taglia corto il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli, mentre il capogruppo Fabrizio Cicchitto parla senza mezzi termini di un “atto puramente distruttivo”. Poco dopo arriva la conferma che a pensarla così è lo stesso Berlusconi. “Io non mi dimetto, basta diktat”, è la risposta del premier, che va avanti per la sua strada. Perché, come dice concludendo il suo intervento a Montecitorio, “il popolo italiano, quando verrà il momento, saprà valutare con buon senso meriti e responsabilità di ognuno”.
Fiducia ampia o elezioni, governo di continuità o urne anticipate, è invece la richiesta di Umberto Bossi. Le trattative, intanto, proseguono. C’é tempo fino a domani mattina e Berlusconi si augura che “la notte porti consiglio” ai finiani. Che intanto si riuniscono a cena, assente l’incerta Siliquini. “Attendiamo risposte”, dicono mentre si riuniscono anche i deputati del Pdl. Ma l’ultima parola è quella di Bossi, che li gela. “I finiani - sostiene - arrivano tardi…”.
E l’opposizione? “Da domani in ogni caso questo governo finisce. Non garantisce e non può garantire più stabilità al paese. Non abbiamo paura delle elezioni perché dopo 16 anni questo paese non ne più”. Così ierisera il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, nel corso - manco a dirlo! - di una cena organizzata dal Pd del Lazio con gli imprenditori (sic! non sarebbe stato meglio incontrare i lavoratori…)).. “Prima o poi - ha soggiunto Bersani - dovremo prendere in mano il governo di questo paese e porre rimedio ai danni prodotti: evasione, poca crescita, aumento della spesa corrente, meno lavoro e meno attività per le nostre imprese”. Bersani ha ribadito che “é chiaro che se il governo avesse domani una maggioranza striminzita avremo un governo precario. Siamo al tramonto di Berlusconi”. Tutto vero, ma non siamo all’alba del PD. Ora attendiamo buone notizie, dopo pranzo.

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