La “Perfida Albione” e l’Unione europea

25 Settembre 2012
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Gianfranco Sabattini

Il Regno Unito è membro dell’Unione Europea. Di conseguenza, i suoi cittadini eleggono i loro rappresentanti al Parlamento europeo, partecipando alle decisioni che concernono, entro dati limiti, il governo dell’Europa. Si tratta, tuttavia, di una membership anomala, perché nessun altro Paese del restanti membri comunitari recita una pantomima come quella del Regno Unito. Questo dichiara, apertis verbis, che non farà mai parte di un’Europa federale e programma di uscire dall’UE al momento che sarà ritenuto più opportuno dal punto di vista degli interessi nazionali; ma nessuno prende l’iniziativa per estrometterlo anticipatamente. Perché accade tutto questo? Per capirne le ragioni, bisogna ripercorrere sommariamente la storia del come si è atteggiato il Regno Unito nei confronti di tutta l’attività che ha potato alla costituzione della UE.
Sebbene l’idea dell’unificazione europea abbia preso corpo per iniziativa, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, di gruppi federalisti dei quali era esponente di prestigio Winston Churchill, quando i Paesi dell’Europa occidentale, impegnati a ricostruire il loro apparato economico sconvolto dal conflitto, avevano capito che l’unica condizione di ripresa, di difesa e di sopravvivenza era la collaborazione, gli obiettivi di quei gruppi hanno lasciato il campo ad altre iniziative. In particolare, a quella dei laburisti in tema di politica estera, riguardante i rapporti con il Commonwealth. Per i laburisti inglesi, infatti, per salvaguardare i rapporti con le ex colonie, il Regno Unito doveva espandersi soltanto dal punto di vista economico e non da quello politico-istituzionale. In tal modo, prima ancora che fosse firmato il Trattato istitutivo della CEE, il Regno Unito ha percepito il disegno europeo come una minaccia agli interessi nazionali; da qui la sua strategia di un “approccio minimalista all’integrazione europea”, volta ad impedire la formazione di un super-Stato che l’avesse inglobata. Da allora, comunque, la questione se il Regno Unito dovesse stringere ulteriormente i suoi legami con l’Europa, oppure fosse opportuno lasciare le cose come stavano ha dato origine ad un dibattito politico interno che ha creato divisioni profonde, anche nei vari partiti, tra gli euroscettici ed i pro-european.
Tuttavia, malgrado l’euroscetticismo inglese, il progetto europeo è andato avanti per iniziativa di Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo; questi Paesi, dopo avere avviato una collaborazione per la gestione delle risorse strategiche (carbone, acciaio ed energia atomica), hanno costituito la CEE, il cui trattato è stato firmato a Roma nel 1957. I progressi realizzati, hanno spinto nel 1973 alcuni Stati, che si erano precedentemente estraniati dall’aderire, quali il Regno Unito (scontata l’opposizione non sempre infondata, anche se mal posta, da parte di de Gaulle, espressione di una ormai obsoleta “archeologia storica”), l’Irlanda e la Danimarca sono stati ammessi alla comunità in seguito al trattato di Bruxelles. Le forze politiche euroscettiche inglesi, tuttavia, non si sono date per vinte, riuscendo ad ottenere che il popolo del Regno Unito fosse chiamato alle urne nel 1975 per decidere se il Paese dovesse rimanere nella CEE o uscirne. Il popolo ha optato, con una maggioranza elevatissima, a favore della permanenza. In gioco, nel referendum, però, non era tanto la partecipazione o meno alla CEE, ma la scelta del ruolo che il Regno Unito avrebbe dovuto svolgere a livello mondiale. In ultima analisi, il popolo inglese doveva scegliere fra la prospettiva di continuare a conservare la piena sovranità nazionale e accettare di svolgere il ruolo di «alleato privilegiato» degli Stati Uniti, rinunciando a influire sull’evoluzione sociale, economica e politica dell’Europa; e la prospettiva, invece, di rinunciare a una quota della propria sovranità e legare il proprio destino a quello delle altre nazioni europee, formando un nuovo soggetto politico in grado di svolgere una funzione progressiva nel miglioramento delle condizioni esistenziali dei cittadini europei.
Nel 1981, la Grecia è entrata a fare parte della comunità come decimo membro; a questo nuovo ingresso ha fatto seguito nel 1986 quello della Spagna e del Portogallo; si è arrivati così all’Europa dei Dodici. Nel 1986, dopo quella del 1957, si è avuta la seconda svolta nel processo di realizzazione del disegno europeo. L’Europa ha approvato l’Atto unico, col quale i Dodici hanno avviato il processo di integrazione dei mercati, trasformando l’insieme delle relazioni tra i loro Stati in un’Unione Europea, fissando l’obiettivo di creare un mercato comune europeo, sino ad arrivare nel 1989 ad elaborare, per iniziativa della Commissione Delors, i progetti per costruire l’Unione Economica Monetaria, formalizzati nell’ormai noto trattato di Maastricht per sostituire le procedure del “vecchio” SME con l’adozione di una moneta unica, il fatidico euro.
Il Regno Unito, sempre con un piede dentro ed uno fuori dall’Unione, ha approfittato delle realizzazione del mercato unico per trarre vantaggio dall’espansione dei rapporti tra il suo sistema finanziario e quello dell’UE; il governo di Margaret Thatcher, ad ogni buon conto, ha opposto il suo no alla rinuncia alla sovranità monetaria convinta che l’Unione prefigurata da Delors avrebbe aumentato la forza egemonica tedesca sull’Europa attraverso una blitzkrieg resa possibile dalla “nuova arma” espressa dall’euro. Si è giunti così alla crisi attuale,a fronte della quale l’esclusivismo del Regno Unito attraverso il suo nuovo leader governativo, David Cameron, ha rifiutato il “fiscal compact”, cioè il processo di unificazione delle politiche fiscali e di bilancio ed ha anche rifiutato una regolamentazione europea dei mercati finanziari.
I fatti hanno dimostrato che chi diffidava dell’inclusione del Regno Unito nell’Europa aveva ragione. Perché l’Europa ha accettato questo atteggiamento sprezzante di un suo “mezzo partner”, rinunciando a metterlo fuori dal gioco? A chi è convenuto? Non c’è che una risposta. E’ convenuto a tutti quegli Stati che hanno avuto interesse all’”Europa mercato” e non all’”Europa soggetto politico”. Chi sono questi Stati? Sono quelli, Germania in testa, che hanno trovato conveniente conservarsi una “sponda forte” per il mantenimento dello status quo, del tutto indisponibili persino a realizzare quella che l’ex Cancelliere Helmut Schmidt, ha definito un’”unione dinamica da sviluppare” per porre rimedio agli squilibri dovuti ai perduranti avanzi della bilancia commerciale dei Paesi forti nei confronti degli altri Paesi dell’UE. E poiché lo status quo è destinato a durare nel tempo, il manifesto-appello per l’Europa di Beck ed altri è destinato a rimanere inascoltato, così come rimarrà probabilmente inascoltato il consiglio di Schmidt.
 

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