I limiti del “federalismo realizzato”

23 Febbraio 2013
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Gianfranco Sabattini

Allo stato attuale, a livello sia italiano che europeo, il federalismo, come forma organizzativa statuale, da ideale politico quale è stato nel passato viene ridotto a materia di “bassa cucina” politico-elettorale. Ciò è accaduto nel nostro Paese, dopo anni di soluzioni normative “abborracciate”, assunte sotto l’influenza del progressivo deterioramento dell’economia e del dilagare dei fenomeni corruttivi a livello locale; una situazione, questa, che segnala la perdita della memoria storica del fatto che il problema del federalismo è stato oggetto di discussione sin dall’inizio dell’Unità nazionale; stupisce perciò lo smarrimento degli originari contenuti culturali, che avrebbero invece dovuto costituire il supporto di ogni attività riformatrice dell’organizzazione unitaria del nostro Stato. In particolare, le azioni riformatrici della struttura istituzionale esistente non avrebbero mai dovuto trascurare la connessione strettissima, sempre esistita nell’immaginario collettivo nazionale, tra “forma di Stato intesa come dislocazione territoriale del potere” e “forma di Stato intesa come rapporto tra potere e libertà”; in altri termini, l’attività politica riformatrice non avrebbe dovuto trascurare il fatto che il federalismo non è un modello organizzativo perseguibile solo per aumentare la produttività della spesa pubblica, in quanto è anche, e soprattutto, il modo di concepire la democrazia secondo il costituzionalismo moderno.
Le modalità con cui si è pervenuti all’attuale organizzazione del sistema autonomistico italiano ha avuto un impatto non del tutto positivo sul concetto di sovranità dello Stato all’interno del contesto della Costituzione repubblicana vigente; ciò ha prodotto non poche lacerazioni sul piano dei rapporti tra Stato e sistema delle autonomie locali. L’attuazione del sistema autonomistico esistente è stata realizzata in funzione della realizzazione di un “pluralismo istituzionale paritario”, supposto incentrato sull’esistenza di comunità territoriali originarie, non derivate dalla sovranità statale. In tal modo, quest’ultima è stata dislocata dallo Stato al popolo, per cui la Repubblica italiana ha potuto essere definita come un insieme di Enti, espressi da Stato, Regioni, Province e Comuni, fuori da ogni ordine gerarchico. Ma se la Repubblica, nella quale si identifica unitariamente lo Stato, è costituita da Enti dei quali si postula l’autonomia e la posizione paritaria, allora la forma in cui tutti gli Enti possono esercitare la sovranità non può che essere quella che la Costituzione prevede per lo Stato.
La riforma del Titolo V della Costituzione, per l’attuazione del cosiddetto federalismo fiscale, ha riflesso la “dispersione” della sovranità a tutti i livelli territoriali, originando una sostanziale indeterminazione nella definizione dei campi di competenza dei singoli Enti e nella ridistribuzione delle funzioni amministrative. Per la rimozione della inevitabile confusione istituzionale e politica seguita alla riforma attuata, ha provveduto la Corte Costituzionale, la quale, coerentemente, a fronte dei continui conflitti di competenza tra i diversi Enti coinvolti che ha dovuto affrontare, è pervenuta alla conclusione che in Italia con il riformismo costituzionale ed ordinario occorso negli ultimi lustri non sia stato realizzata alcuna forma di federalismo e che una qualsiasi forma organizzativa dello Stato in senso federale non potrà essere adottata finché perdurerà l’attuale quadro costituzionale. Di conseguenza, la revisione del Titolo V è servita solo a realizzare un “inutile federalismo”.
Nonostante la presa di posizione della Corte Costituzionale, presso le forze politiche che più sono state impegnate nella la realizzazione del federalismo fiscale è rimasto il convincimento, soprattutto dopo l’approvazione della legge n. 42/2009, che l’Italia sia il Paese del federalismo realizzato. Questa legge, con cui è stata data attuazione all’articolo 119 della Costituzione, assicura autonomia di entrata e di spesa di Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, garantendo la salvaguardia dei princìpi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da consentire la sostituzione graduale, a tutti i livelli di governo, del criterio della spesa storica per assicurare la loro massima responsabilizzazione politica nei confronti degli elettori.
Il governo Monti, con il Decreto legge del 6 dicembre 2011 (cosiddetto Decreto Salva-Italia), ha parzialmente rivisto le modalità attuative della legge n. 42/2009, in funzione soprattutto dell’esigenza di fare fronte alla crisi finanziaria del Paese. Tuttavia il futuro Governo, nel riprendere la realizzazione del processo federale dovrà tener conto delle sentenze della Corte Costituzionale, considerando che la riorganizzazione dello Stato, il risanamento dei conti pubblici e la promozione della crescita economica dovranno avvenire parallelamente all’adozione di misure utili alla rimozione degli squilibri territoriali che affliggono il Paese. Poiché uno dei maggiori problemi dell’Italia, se non il maggiore, è ancora quello della divisione fra Nord e Sud, per la sua soluzione sarà insufficiente una “politica di rigore” non accompagnata da adeguati investimenti, anche di natura infrastrutturale, che tendano a riequilibrare le differenze esistenti. A tal fine, sarà necessario il ricupero di uno Stato istituzionalmente forte, per realizzare il quale non basterà riproporre la vecchia struttura centralistica; ma occorrerà una struttura articolata in senso federale alla quale possano collaborare, da posizioni autonome, anche i livelli di governo locali, in una prospettiva di solidarietà nazionale.

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