Come “aprire” il mercato del lavoro ai disoccupati?

15 Luglio 2013
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Gianfranco Sabattini


Di fronte al fallimento delle politiche attive del lavoro in tutti i Paesi della UE, dove i disoccupati sono ormai 26,5 milioni (l’11% della popolazione attiva), 5,6 milioni dei quali giovani che non superano i 24 anni di età, si assiste ad un “revival” del dibattito intorno alle possibili procedure economiche, politiche ed istituzionali in grado di combattere il “cancro” della disoccupazione. Il dibattito è riproposto all’interno dell’area della “sinistra radicale” che, attraverso “Il Manifesto”, ha coinvolto altre testate intorno all’interrogativo se la soluzione del problema della creazione di nuovi posti di lavoro possa essere affrontata “fuori dalla dimensione capitalistica della società” (G. Lunghini, 15.6.2013), oppure dentro, attraverso la ridistribuzione del reddito, anziché del lavoro (P. Bevilacqua, 21.6.2013). Mentre la proposta di Bevilacqua offre una prospettiva immediata per fuoriuscire dalle “secche” dell’incertezza sul cosa fare oggi, quella di Lunghini, e di molti altri, affida le sorti dei disoccupati a un progetto la cui probabilità di successo rimanda a quando saremo tutti morti, oppure, restando dentro la dimensione capitalistica della società, alla ridistribuzione del lavoro anziché del reddito, come fa ad esempio Pierre Carniti.
Il dibattito sul problema della disoccupazione, approfonditosi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, ha messo in evidenza, verso la fine della seconda metà del secolo scorso, che la dinamica tecnologica del mondo della produzione origina una disoccupazione strutturale irreversibile, per contrastare la quale si è continuato a fare ricorso a politiche di sostegno della domanda aggregata di derivazione keynesiana. Tali politiche, però, sono fondate sull’assunto che i sistemi economici dispongano ancora di ampi margini per un’ulteriore accumulazione, senza la necessità di profonde e radicali innovazioni sul piano economico e su quello istituzionale. Oggi, il superamento di questa condizione nelle economie avanzate del mondo globalizzato ha reso quelle politiche obsolete rispetto alla soluzione del problema del “riassorbimento” della disoccupazione e della creazione di nuovi posti di lavoro.
In presenza di una disoccupazione strutturale irreversibile, non è più sufficiente incentivare l’aumento della domanda aggregata secondo modelli di consumo già sperimentati; occorre fare ricorso a forme di consumo autodiretto ed autoregolato, come quelli che possono essere resi possibili dall’attuazione di politiche ridistributive realizzate con l’introduzione di un reddito di cittadinanza, del quale da anni in Italia si parla, spesso banalizzandolo sulla base di miti (qual è, ad esempio, il convincimento che l’autonomia economica e politica della forza lavoro presupponga sempre un reddito da lavoro) e a volte sulla base di considerazioni che riducono il reddito di cittadinanza a un semplice ammortizzatore sociale, a una compensazione di quanto non offre più il mercato del lavoro sotto forma di salario.
Se il reddito di cittadinanza viene correlato a “modelli di consumo innovativi”, sorretti dalla fruizione di un reddito al quale non sia connesso alcun obbligo sul piano delle prestazioni lavorative, il lavoro viene sottratto all’”etica della necessità”, propria del capitalismo, per subordinarlo a un’”etica della libertà”, nel senso di offrire ai percettori del reddito di cittadinanza la possibilità di agire fuori dal mercato del lavoro tradizionale, senza dover sottostare al vincolo che i loro comportamenti economici siano sempre di una qualche “utilità” per il funzionamento del sistema economico.
L’introduzione del reddito di cittadinanza (coniugato secondo parametri diversi e stabiliti in funzione del livello storico di sviluppo del sistema sociale) suggerisce a volte la facile critica che in questo modo, non solo sarebbe stimolata la formazione di sacche di parassitismo, ma anche l’allargamento ingiustificato dello spreco di risorse. Però, sia il parassitismo che lo spreco, più che dall’introduzione di un reddito sociale garantito, derivano dalla contraddizione esistente tra gli esiti del progresso tecnico, imposto dalla competitività crescente tra i sistemi economici globalizzati, e la crescente disoccupazione strutturale irreversibile che quegli esiti originano e che i modelli di sicurezza sociale tradizionali non sono più in grado di rimuovere.
Tra l’altro, l’introduzione del reddito di cittadinanza può consentire anche un migliore funzionamento del mercato del lavoro; il reddito garantito, infatti, può essere “governato” (è questo forse l’aspetto più problematico da risolvere) fissandolo al di sotto del livello medio dei salari correnti, per indurre chi lo percepisce a valutare conveniente aumentare sul mercato del lavoro l’offerta dei propri servizi lavorativi; ma può essere anche fissato al di sopra del livello medio dei salari correnti, per consentire alle attività produttive di “espellere” senza traumi quote di forza lavoro, a seguito di ristrutturazioni innovative imposte dalle esigenze competitive.
L’ipotesi avanzata da Bevilacqua è forse l’unica che, allo stato attuale, offra alla “fantasia” degli “addetti ai lavori” l’opportunità di formulare progetti per la soluzione in tempi brevi del problema della disoccupazione che la società capitalistica mostra di non essere in grado di risolvere. Essa consente di fuoriuscire dalle difficoltà connesse con la condivisione del “vincolo ideologico” che il reddito deve essere sempre “reddito da lavoro”, perché il lavoro è “vita”, è “dignità”, è “autonomia”. Ma che vita, che dignità, che autonomia sono quelle che si vorrebbero nell’immediato garantire al lavoro, con sistemi economici post-fordisti, la cui logica di funzionamento non è in grado, obiettivamente, di aumentare le opportunità occupazionali per più che compensare quelle che vengono distrutte?

1 commento

  • 1 Pier Paolo
    21 Luglio 2013 - 15:55

    Trovo alcune sue considerazioni certamente condivisibili, ma non mi è chiaro come potrebbe essere finanaziato il reddito di cittadinanaza.

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