La Grande guerra secondo Amadeo Bordiga

24 Agosto 2014
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Amadeo Bordiga a domanda sulla Grande guerra risponde

In Italia una posizione sulla Grande guerra simile a quella di Lenin fu sviluppata nel corso del conflitto da Amadeo Bordiga, fermamente critico della formula fatta propria dalla maggioranza dei socialisti italiani, “Né aderire né sabotare”, inventata da Costantino Lazzari. Ecco come Bordiga rievoca la lotta politica e ideologica di quegli anni in seno al socialismo italiano in una intervista del giugno del 1970, raccolta da Edek Osser, e oggi integralmente riportata nel sito della Fondazione Amadeo Bordiga http://www.fondazionebordiga.org/intervista.htm

Domanda: Nel novembre 1917 lei partecipò, a Firenze, ad un convegno clandestino della corrente “intransigente rivoluzionaria” del partito socialista. In quela occasione lei incitò i socialisti ad approfittare della crisi militare per prendere le armi e portare l’attacco decisivo alla borghesia. Che esito ebbe la sua proposta? Era matura fin da allora, secondo lei, la situazione rivoluzionaria in Italia?

Risposta: Sì, ero presente, nel novembre 1917, alla riunione clandestina di Firenze della frazione “intransigente rivoluzionaria” che dirigeva quale maggioranza il partito socialista italiano fin dal 1914. La direzione era informata della convocazione di Firenze: non la sconfessò, ed era anche rappresentata.
Fu in tale riunione che mi incontrai per la prima volta con Antonio Gramsci, che mostrò il più grande interesse alla mia esposizione. Conservo ancora l’impressione che egli, con la sua non comune intelligenza, da un lato approvasse e condividesse pienamente le mie tesi marxiste radicali, che sembrava ascoltare per la prima volta; dall’altro ne accennasse una sottile, precisa e polemica critica, come già risultava dai sostanziali dissensi tra il settimanale Il Soviet di Napoli, da me diretto, e la sua rivista di Torino, L’Ordine Nuovo. Questi dissensi ci erano chiari fin da quando, con un breve articolo, manifestammo il nostro saluto all’annuncio della nascita della rivista di Torino, pur avendo constatato che il suo dichiarato concretismo dimostrava una tendenza gradualista che sarebbe certamente sfociata in concessioni ad un nuovo riformismo, ed anche opportunismo di destra.
La mia ricostruzione del gioco delle forze si riferiva, fin d’allora, non alla sola Italia, ma a quello internazionale di tutta l’Europa. E’ chiaro che io svolsi a fondo la condanna della politica dei partiti socialisti francese, tedesco, ecc. che avevano apertamente tradito l’insegnamento marxista della lotta di classe passando alla perniciosa politica della concordia nazionale, dell’unione sacra e dell’appoggio alla guerra condotta dai loro governi borghesi. Questa condanna si basava, dottrinalmente, sulla denunzia spietata della falsa chiave con cui si voleva giustificare ideologicamente l’adesione alla guerra dell’Intesa contro gli imperi centrali, in cui era confluito il nostro nemico giurato: l’interventismo militare italiano. Base essenziale di questa posizione, era il rifiuto della fallace preferenza, che volevano dare i guerrafondai di tutti i paesi, ai tipi democratico-parlamentari dei regimi borghesi, rispetto a quelli scioccamente definiti feudali, autocratici e reazionari di Berlino e di Vienna, in un silenzio compiacente su quello di Mosca. Svolsi, coerentemente a quanto andavo facendo nel movimento già da vari decenni, la critica propria di Marx e di Engels, che mostrava come fosse una prospettiva stupida quella che attendeva dalla vittoria militare dell’Intesa una futura Europa democratica.
Confermo senz’altro che la mia posizione di allora coincideva con ciò che Lenin definì: disfattismo e negazione della difesa della Patria. Proposi la grandiosa prospettiva che ivi la rivoluzione proletaria avrebbe potuto trionfare, ove le armate del corrispondente stato borghese fossero state sopraffatte bellicamente da quelle degli stati nemici, vaticinio che la storia ha confermato nella Russia del 1917. Confermo quindi che, a Firenze, proposi che si approfittasse delle sventure militari dell’Italia monarchica e borghese per dare slancio alla rivoluzione di classe.
Tale proposta non corrispondeva alla politica di allora della direzione del Partito, ferma sulla disgraziata formula di Lazzari “né aderire né sabotare”, sebbene i presenti alla riunione, che fin d’allora configuravano una sinistra del Partito Socialista, mostrassero apertamente di accettarla. Non era sufficiente, per noi, il merito del Partito italiano di non aver aderito alla politica di guerra del governo, e quindi di non aver votato mai la fiducia in esso, né i richiesti crediti militari. Tale linea non poteva estendersi alla negazione anche del sabotaggio, ossia di quello che Lenin chiamò poi “trasformazione della guerra degli stati in guerra civile tra proletari e borghesia”. La prospettiva da me caldeggiata non era dunque esattamente quella che in Italia fossero già mature le condizioni per attaccare a mano armata il potere delle classi possidenti, ma l’altra, molto più ampia e poi giustificata dal corso degli avvenimenti storici, che nel quadro della guerra in Europa si potesse e dovesse sul fronte opportuno (ciò che Lenin chiamerà “l’anello più debole della catena) fare esplodere lo scontro rivoluzionario, che non avrebbe mancato di estendersi a tutti gli altri paesi. L’accennato, falso merito del partito italiano nel restare equidistante sia dal plauso alla guerra che dal suo sabotaggio rivoluzionario sarà, al momento della fondazione di una nuova Internazionale, che riscattasse la fine vergognosa della seconda (cosa che io a nome dei socialisti di sinistra nel convegno di partito tenuto a Roma, nel febbraio del 1916 avevo già espressamente prospettato), ancora pretestuosamente invocato da Serrati e dai suoi seguaci che si opponevano alla espulsione della destra riformista (e in realtà socialdemocratica e anche socialpatriottica). Ciò è ben dimostrato dal fatto che il PSI considerò come un crimine da non commettere l’imbocco dell’unica via strategica che (fin da quando Lenin, appena rientrato in Russia, enunciò le sue classiche tesi dell’aprile 1917) risponde alle previsioni dottrinali e alle finalità storiche proprie del marxismo rivoluzionario. Quindi è assodato in linea storica che, se i convenuti di Firenze avessero dovuto deliberare, sarebbe stata senz’altro abbracciata la virile tesi del siluramento con tutti i mezzi dell’azione e della politica di guerra dello stato capitalista. Poiché le conclusioni di una consultazione avente carattere di base avrebbero dovuto impegnare gli organi centrali del Partito, alla mia proposta avrebbero dovuto seguire, in un sano movimento, le necessarie misure di attuazione. Ma non si poteva sperare che ciò facesse la Direzione, già compromessa sia dal rifiuto del maggio 1915 a proclamare lo sciopero generale nazionale contro la mobilitazione, da noi allora richiesto; sia dalla già qui deplorata formula del “non aderire né sabotare”; sia, ancora, dal fatto di avere tollerato, proprio in quello svolto della guerra, che il gruppo parlamentare socialista seguisse il suo capo Turati nel lancio della parola d’ordine difensivista: “La Patria è sul Grappa”, che era comportamento ben poco diverso da quello dei socialtraditori francesi e teutonici.

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