L’abolizione del valore legale del titolo è peggio del male

24 Novembre 2008
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Massimo Marini

Quanto afferma Pietro Manzini nel suo “Il tabù del valore legale della Laurea”, pubblicato su lavoce.info il 14/11, è a mio giudizio totalmente sbagliato: nell’individuazione del problema, nelle soluzioni proposte, nel fine che si vuole raggiungere, fino ad arrivare alla filosofia stessa che sta alla base dell’intero pezzo.
Il primo madornale errore è quello di ipotizzare la distribuzione dei finanziamenti in funzione di una fantomatica classifica (ranking, come dicono i sassoni, fa più tendenza) che si arriva ad auspicare addirittura stilata da qualche nonmegliodefinito organismo internazionale o trasnazionale che dir si voglia, comunque fortemente infiltrato dal privato. La conseguenza di ciò sarebbe semplicemente devastante, in quanto non farebbe altro che allargare a dismisura la già ampia forbice tra atenei di serie A e atenei di serie B, di fatto permettendo una formalizzazione di questa aberrante distinzione. Aberrante per uno Stato dove il diritto allo studio è sancito in modo uguale e per tutti dalla Costituzione. Questo apparente stimolo alla concorrenza fra atenei per l’ingaggio dei migliori docenti/ricercatori e dei migliori sponsor (aspetto del quale Manzini non parla ma che alla luce della 133 è uno dei punti fondamentali), determinerebbe probabilmente la demolizione delle attuali caste accademiche a vantaggio però di un nuovo perverso sistema fatto di compensi stellari per le firme più note, con conseguente aumento dei costi per il personale, aumento della retta (o come la si vorrà chiamare), e dunque con una pre-selezione del corpo studentesco per il quale oggettivamente le cose non cambierebbero: più disponibilità economiche, migliori università, oggi private - domani pubbliche (o giù di lì).
Certo mi si potrebbe obiettare che questa sarebbe solo una distorsione nel breve periodo in quanto poi con l’andar del tempo e l’emergere di nuovi docenti/ricercatori giovani e capaci, magari allevati dalle Università di serie B, la cosa tenderebbe ad equilibrarsi in favore comunque del merito. E’ solo una pia illusione. Il circolo è vizioso: pochi soldi, poco prestigio, minori possibilità di investire in apparecchiature, corsi all’avanguardia, ricerche etc., e conseguente quasi nulle possibilità di avanzare nel “ranking” e di ottenere così più soldi da investire in docenze, corsi, apparecchiature, ricerche, e così via. Andremmo incontro insomma ad una nuova casta, magari più colta e preparata e produttiva di quella attuale, ma pur sempre una casta impermeabile a chi non ha possibilità in partenza, tutto l’opposto del principio stesso di istruzione pubblica.
Auspicare poi che le Pubbliche Amministrazioni, ai fini delle graduatorie, diano un punteggio più alto a chi ha una Laurea presa in A piuttosto che in B, è un abominio impressionante, dal momento che avrebbe più peso un 90 preso in A che un 110 preso in B. E se magari in Sardegna ci fossero solo Università di serie B? Significa che si prospetterebbe addirittura un razzismo istituzionalizzato di tipo socio-economico-geografico, con tanto di bollo ministeriale.
Pertanto, il problema non è creare classifiche, campagne acquisti, meritocrazie di plastica inquinate dal settore privato – che, per inciso, arriverebbe a scrivere i programmi, altra cosa inaudita e inaccettabile - ma al contrario investire in tutti gli atenei, con particolare attenzione anzi alle zone disagiate che oggi più che mai hanno bisogno di valorizzare i propri giovani per promuovere, in sito, la cultura e l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo. Lo Stato deve rafforzare il proprio ruolo di controllore e valutatore, non demandarlo alla Siemens o alla Novartis. Deve controllare con più incisività i modi in cui vengono spesi i soldi, magari vincolandoli in capitoli di spesa come per le amministrazioni comunali. E’ lo Stato che deve demolire la casta universitaria, non il mercato. E’ lo Stato che deve proibire che personaggi come Mistretta imperino incontrastati come dei monarchi assoluti che arrivano a cambiarsi statuti e regole pur di mantenere la poltrona e il potere.
Se è vero come è vero che in realtà esistono già atenei pubblici di serie A preferiti dai privati, non dovrebbe forse lo Stato cercare di aiutare chi è indietro ad allinearsi, studiandone le problematiche e promuovendo o imponendo anche soluzioni (ad esempio nel diffusissimo caso di sperpero di denaro) piuttosto che continuare ad affossarlo? Mi pare che questa assurda e qualunquista battaglia contro il pubblico stia cominciando a puzzare di particolarissimi interessi. Attenzione ai falsi miti privatistici. In questo modo si sta semplicemente sostituendo al valore legale del titolo di studio sempre e comunque, un valore legale (di fatto) di un titolo partorito dal mercato. Non mi pare sia sano. A meno che, nel 2008, non si creda ancora nella favoletta della mano invisibile…

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