La memoria non di un giorno solo

27 Gennaio 2016
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Gianna Lai

Un caso importante di cultura della memoria. Il Comandante partigiano Geppe incontra gli studenti del Liceo Alberti di Cagliari.

 

Si svolge quest’anno presso il Liceo Scientifico Alberti il Percorso su Storia e Memoria, organizzato dall’ANPI e dallo SPI-CGIL nelle scuole di Cagliari. Una sintesi del  primo incontro, nelle scorse settimane presso l’Aula Magna, con Nino Garau, il Comandante partigiano Geppe. 
Dice Nino Garau che con gli studenti si dialoga, si deve instaurare uno scambio, per raccontare la Resistenza e la vita del partigiano, sopratutto attraverso le sollecitazioni stesse dei giovani, le loro domande, i loro interessi. Gli studenti dell’Alberti hanno già visto il CD, messo a disposizione da Nino, e su quella base si inizia la conversazione.
Il 25 luglio, dice Nino, con lo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, la popolazione si illude della fine della guerra. Ma la guerra continua, continuano i bombardamenti, e sento ancora la rabbia per i bombardamenti destinati a demoralizzare le popolazioni, come a Cagliari, che provocarono stragi terribili fra gli abitanti e distruzione di intere città.
L’8 settembre noi ci svegliammo in Accademia aereonautica, io allora avevo già ottenuto il brevetto, dov’è l’ufficiale di picchetto, ci chiedemmo?  tutti fuggiti, eravamo soli, abbandonati. A Forlì, dopo lo sbarco americano, giungevano in aereoporto gli  aerei Usa, e pensammo subito che sarebbero arrivati presto anche lì. Abbandonammo la caserma, e con l’aiuto dei ferrovieri riuscimmo ad allontanarci, perchè i militari in fuga venivano mandati in campo di concentramento dai tedeschi, ormai padroni dell’intero territorio intorno a noi. Le scelte, le famose scelte, per noi erano tre: aderire a Salò come intendenti dei tedeschi, dove un generale italiano comandava meno di un caporale tedesco; nascondersi, correndo il grave rischio della fucilazione o della deportazione, oppure partecipare alla costituzione delle formazioni partigiane. Nella zona di Modena, dove trovai ospitalità presso i parenti di mia madre, feci proprio questa scelta, contribuendo a dare origine, attraverso il Consiglio degli anziani, per la maggior parte vecchi antifascisti, alle formazioni partigiane, e coordinando tutti i combattenti, di qualsiasi idea fossero. Si contavano in zona, oltre a migliaia di contadini, all’incirca 2mila operai, e poi facevano parte della mia Brigata di pianura preti e comunisti, e persone di ogni provenienza,  in un terrritorio controllato punto per punto dai tedeschi, dove innanzitutto bisognava  costruire le basi logistiche e militari. Le prime davano ospitalità ai partigiani, nelle seconde si nascondevano le armi, in bidoni stagno che coprivamo con terra mischiata a pepe grattugiato, come ci avevano insegnato i contadini del posto, per  tenere lontani i cani dei tedeschi. Tra la popolazione tutta coinvolta costituimmo, io il responsabile, eletto Comandante, la 13^Brigata d’assalto Aldo Casalgrandi, composta da  4 battaglioni e 3 distaccamenti per ogni battaglione. Nel territorio di Vignola, Spilamberto, Castelvetro, Lizzano, prima le Sap, poi i Gap, e poi la Brigata, sempre contribuendo a creare una fitta rete di informatori e di staffette. Ciascuno di noi aveva un suo nome di battaglia, perchè fosse più difficile l’identificazione, trattandosi di lotta clandestina, 270 partigiani armati e 480 patrioti nella nostra formazione. Un Missione  ci teneva in contatto con la 5^ Armata a Pescia, le staffette ci mantenevano in contatto con la Linea Gotica. Il 12 dicembre del 1944 compii 21 anni, ero poco più grande di voi.
Inizia la discussione, partendo dal CD di Nino Garau. Mattia Massa, 5B,  chiede al Comandante Geppe come si arriva alla sua cattura, da parte dei nazisti. Come ha potuto resistere ai maltrattamenti e come poi ha potuto riprendere a combattere per la Resistenza?
 Dopo che la Brigata era stata costituita ed era operativa nel territorio, la notte del 30 dicembre giunse  una staffetta mandata da Levizzano, il cui commissario ci sollecitava ad accorrere per risolvere una importante questione. 30 dicembre 1944, insistetti con la staffetta perché restassimo tranquilli a Capodanno. Un appuntamento a Levizzano, frazione di Castelvetro, avevo il Comando unico della Brigata, capo di Stato maggiore dell’intera Modena-pianura. Da San Vito, con un altro compagno, in bicicletta  fino a Levizzano, seguendo le indicazioni delle staffette che ci bloccavano quando c’era il rischio di finire in mezzo ai tedeschi. A Levizzano si decide di rimandare l’incontro al giorno dopo, perchè potesse parteciparvi anche il Comandante di quel distaccamento. Il quale aveva preso contatto con il segretario del fascio di Spilamberto, Rosignoli, dopo il comunicato di Alexander, che invitava i partigiani a sciogliersi  per tutta la stagione invernale, e che fu puntualmente respinto. Mentre dormivamo nel casolare che faceva parte di una delle nostre basi, trambusto e grida, un soldato tedesco mi punta il mitra, le nostre armi nascoste sotto terra: i tedeschi ci catturano, noi quattro del distaccamento di Castelvetro, e ci portano giù,  legati l’uno all’altro con una corda al collo, le mani immobilizzate col fil di ferro. Se uno cadeveva, si portava appresso tutti gli altri, i tedeschi dietro di noi, impegnati nel rastrellamento alla ricerca di altri partigiani. Tutta la giornata del 31dicembre per arrivare da Castelvetro a Levizzano, la notte a Ciano d’Enza, senza mangiare, rinchiusi in uno scantinato, mentre fuori imperversavano gli scontri fra altoaltesini e partigiani. Il 2 gennaio iniziarono gli interrogatori, uno alla volta perchè ci contraddicessimo fra noi. Il 3 gennaio si aggiunsero le botte, volevano sapere chi fossi, nei miei documenti falsi ero Giovanni Ligas, perito chimico in uno stabilimento per l’estrazione dell’ olio, che lavora per i tedeschi. Mi fratturarono una spalla, e poi ustioni da ferro da stiro nei piedi, mi costrinsero con un imbuto a bere dell’acqua salmastra, che mi scombussolò lo stomaco per tutta la vita, le mani fracassate e il pus nelle ferite. Come ho potuto resistere, non lo so, forse qualcuno dall’alto mi aiutava. Cadevo in atarassia, in un mondo diverso, sentivo le botte ma non, diciamo così, in modo cerebrale, da indurmi ad arrendermi. Crollavo ma non dicevo niente. Al decimo giorno, in una Lancia vecchio tipo, mentre i tre compagni restavano lì, mi portarono all’Ufficio investigativo di Reggio Emilia, dove il maresciallo guardia di Salò, mosso a pietà, mi diede la bistecca del suo pranzo. Dopo  due giorni, verso  Gonzaga e, sempre sotto scorta tedesca, verso il carcere di Verona, dopo aver attraversato il Po. Ci portavano da mangiare dei secondini disarmati, uno, sardo, disse di chiamarsi Spartaco Demuro (io ero sempre Giovanni Ligas) e mi aiutò a fuggire, per poter, insieme, tornare in Sardegna: un operaio della squadra che faceva la manutenzione del carcere, restò al mio posto in cella, ben sapendo poi come  allontanarsi attraverso le fogne, ed io uscii, vestito della sua tuta e preso a braccetto, non potendo camminare per le gravi ferite, mentre gli altri intonavano canzoni fasciste e di guerra. Mi dissero poi quando tornai a Verona alla fine della guerra che quegli operai erano stati tutti fucilati. Con Demuro, in abiti civili, verso la mia zona, da Villafranca a Gonzaga. Sul traghetto la gendarmeria tedesca  non ci chiese i documenti, molto strano, pensai. E poi col camion verso Parma e Vignola, verso il mio Comando, sotto il grave pericolo dei voli radenti degli aerei americani, che sventagliavano raffiche di morte nelle strade, contro i mezzi di trasporto.
 Chiesi di scendere a 5 km dal mio Comando, perchè Demuro, che avrebbe potuto essere un infiltrato, non lo individuasse e, attraversato un sentiero di campagna in mezzo alla neve, dove  tolsi finalmente le scarpe per dare sollievo ai piedi martoriati dalle torture di Reggio, giunsi poco dopo a S.Vito.  Demuro fu immediatamente allontanato dalle staffette del luogo, che  lo portarono verso la linea gotica, consegnandolo agli americani, mentre  nella  base logistica di S. Vito io venni riportato a nuova vita dalla famiglia presso la quale trovai ospitalità: due medici mi sistemarono la spalla, una donna di 85 anni si prese cura dei miei piedi, gli ospedali essendo presidiati dai tedeschi.
Cosa fece dopo la Liberazione? Che comportamento oggi dovremmo assumere di fronte alle nuove forme di fascismo? chiede il secondo studente.
 Dopo la laurea e l’inizio del mio lavoro da funzionario nel Consiglio Regionale della Sardegna, non ho mai espresso la mia posizione politica, ma son sempre rimasto in contatto con Modena e Spilamberto, da cui  ho ricevuto la cittadinanza onoraria e le chiavi della città.
 E’ vergognoso che avvengano ancora oggi manifestazioni fasciste, gente che ineggia al fascismo, senza che ci sia un intervento serio da parte delle autorità. Bisogna opporsi e tornare all’idea che avevamo noi al tempo della Liberazione, ricostruzione della giustizia sociale, libertà di parola e democrazia. In questo momento dico che l’Italia di adesso non è quella che immaginavamo durante la Liberazione, l’Italia non corrisponde oggi ai nostri ideali del tempo della Liberazione, la Resistenza è stata tradita.

Partigiani di montagna e partigiani di pianura, come si viveva nei diversi luoghi? chiede Emma Giua
I primi partigiani andavano in montagna, dove era più facile nascondersi. La Divisione Modena Montagna  si trovava nell’Apennino tosco emiliano, mentre noi, Divisione Modena Pianura, operavamo nel territorio presidiato dai tedeschi.    Ci cammuffavamo da contadini, operai e preti, e attaccavamo i posti di blocco, di notte le grosse azioni, di giorno le piccole, sulla base delle  informazioni ottenute dalle staffette e dalla popolazione del luogo.  Le nostre basi strategiche si raggiungevano facilmente in bicicletta, le donne facevano gli acquisti al mercato e attraversavano i posti di blocco, portando subito la comunicazione alla base strategica, le armi da smontare a quella militare. La staffetta poteva essere una donna, un bambino, un anziano: aggiravano i posti di blocco, avvisavano la squadra che doveva attaccare, appunto, il posto di blocco e sparivano. Anche le azioni erano organizzate in maniera che si potesse subito dopo fuggire lontano, per non essere presi. Questa è la divisione pianura. In montagna invece, sempre tutti uniti in gran numero a respingere i reparti tedeschi e ad attaccarne le  colonne.
Tra le Nostre grandi operazioni di pianura, ci furono attacchi alle colonne tedesche scortate dalle autoblindo e dai carri armati. Una volta organizzammo  il dislocamento del gruppo, esaminata la zona col comandante che doveva attaccare con me, in tutto dalle sedici alle diciotto persone. Come un vero capocaccia disposi i fucili perchè non ci fosse il rischio di spararci addosso tra noi, e dopo tre, quattro ore la colonna attraversò la pianura proprio nel punto in cui doveva convergere il fuoco delle nostre armi. La fuga di ciascuno, dopo dieci minuti di fuoco intenso, avvenne secondo un  itinerario già predisposto con cura prima dell’azione.
Come vede la politica attuale e quali suggerimenti può darci per il futuro?
Mi sento sardo prima che italiano, e credo che nel nostro Paese i danni più gravi li producano la disonestà e il rifiuto di pagare le tasse. Ecco perchè vorrei suggerirvi di essere sempre  voi stessi,  di mettere in movimento insieme alle  forze fisiche anche quelle intellettuali, non siate gregge, ma governate il gregge. Solo così potrete, costruire una classe politica forte, pulita e preparata, che non rubi ai poveri. E cambiare questa società, perchè non ci siano più poveri, e la cosa pubblica resti pubblica e non sparisca nelle banche compiacenti. Badate a voi stessi, senza egoismi, verso la giustizia sociale.
Quale è stato il ruolo delle donne durante la Resistenza? chiede in chiusura Valentina Caroli.
Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza. Gli alloggiamenti erano assicurati dalla presenza delle donne, che si prendevano cura di noi, e poi erano staffette, e  portavano il cibo e le armi e le munizioni, sottratte ai tedeschi uccisi, o lanciate dagli americani. E ci informavano sui posti di blocco tedeschi e  tenevano i collegamenti. Ricordo una volta,  bisognava portare le armi alla squadra pronta per l’azione, incaricata una ragazza bellissima, la figlia di un mio compagno: mentre attraversa il posto di blocco in bicicletta, le si sollevano improvvisamente le sottane, senza che lei  lo impedisca, neppure quando i tedeschi, applaudendo tanta bellezza, lasciano passare le armi, che sarebbero poi servite a ucciderli tutti.

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