Germania, ordoliberismo e disgregazione dell’UE

3 Maggio 2016
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Gianfranco Sabattini

Carlo Galli, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna, in “La Germania unita divide l’Europa” (“Limes”, n. 3/2016) compie un’analisi dello stato attuale in cui versa l’Unione Europea; l’analisi, oltre a rendere evidente la crisi “che investe direttamente la storia e l’identità della vecchia Europa degli Stati e della recente Europa dell’euro”, denuncia anche il grave pericolo che le manifestazioni di guerra globale, che Galli definisce la condizione in cui “tutto può capitare ovunque in qualsiasi momento”, espongano l’intera Unione al venir meno dei residui rapporti che ancora tengono insieme gli Stati che la compongono e, all’interno di questi, all’affievolimento progressivo della coesione sociale.
Dopo il 1945, osserva Galli, l’Europa, ridotta a “un nulla politico” con i trattati comunitari ha risalito la china diventando “parte di un ordine mondiale politicamente plurale ma economicamente omogeneo, ovvero capitalistico, ma non per questo stabile e ordinato, tantomeno giusto”. Ciò che resta oggi dell’Unione Europea è egemonizzato dalla Germania unificata, che con la creazione dell’euro si voleva restasse “ancorata all’Europa”, al fine di evitare una sua deriva verso posizioni neutraliste. L’euro, però, modellato secondo le direttive tedesche, ha finito col riservare ai restanti Paesi dell’Unione le sorti dell’apprendista stregone, in quanto il rapporto fra la Germania e il resto del continente ha disegnato numerose “linee di frattura”, non solo dal punto di vista sociale ed economico, ma anche da quello geopolitico.
Dal punto di vista sociale, tutte le comunità dei Paesi europei sono afflitte da diffuse disuguaglianze (di sapere, di potere, di reddito e di proprietà), emerse come conseguenza della “vittoria epocale del neoliberismo sul keynesismo nel corso degli anni Settanta del XX secolo. Una vittoria che ha assegnato alla politica un nuovo ruolo: dalla redistribuzione delle ricchezza prodotta dall’alleanza tra capitale e lavoro al supporto dell’egemonia incontrastata del capitale”.
La vittoria del neoliberismo ha comportato anche un nuovo modo di funzionare del capitalismo; questo ha cessato di accumulare capitale attraverso la massimizzazione della produzione, esposta alle ricorrenti crisi di sovrapproduzione, perseguendo ora l’accumulazione capitalistica attraverso un uso mai sperimentato prima della finanza, col rischio di ricorrenti scoppi di bolle speculative. La finanziarizzazione dell’economia ha provocato “gravi lesioni” della struttura sociale dei Paesi europei, le cui società, private della stabilità assicurata dalla creazione di una vasta classe media che lo Stato sociale aveva concorso a formare dopo il secondo conflitto mondiale, si trovano ora in una situazione fortemente instabile, vittime delle oligarchie economiche e, sul piano politico, delle spinte neopopuliste di destra e di sinistra.
Nel caso specifico dell’Unione Europea, alla vittoria del neoliberismo non è estraneo l’ordoliberismo, affermatosi alla fine degli anni Trenta: una variante del liberismo originario, proprio dell’ideolgia economico-politica della Germania. L’ordoliberismo, per quanto originariamente orientato contro gli effetti del “laissez-faire”, ritenuto responsabile della Grande Depressione del 1929, è stato successivamente rivolto contro le politiche economiche d’ispirazione keynesiana e socialista. Esso ha infatti ispirato nel dopoguerra la ricostruzione della Germania distrutta e dimezzata; inoltre, ha guidato la classe politica tedesca post-bellica per dare ordine e benessere al Paese, attraverso uno Stato impegnato a stabilizzare “per via giuridica e amministrative il capitalismo”, a regolare e controllare “la massa monetaria” e a garantire “la concorrenza, mettendo così in grado il mercato di produrre benessere secondo giustizia”. Tutto ciò in una società il cui obiettivo fondamentale era quello di non lacerarsi in contrapposizioni tra gruppi sociali: per l’ordolibersimo, a differenza del liberismo e del neoliberismo, il conflitto sociale non è fisiologico, ma patologico, per cui compito aggiuntivo dello stato vi doveva essere anche quello di promuovere la “collaborazione, non il conflitto, che inceppa, blocca, sregola”.
Secondo Galli, l’ordolibersimo, è un’ideologia “escludente”, per la sua rigidità, riconducibile al fatto di implicare che, tra le decisioni politiche ed economiche possibili, ve ne siano alcune escludibili a priori, solo perché non conformi ai suoi obiettivi; ma è anche “invadente”, in quanto esso, oltre a definire l’”agire regolativo” della politica sull’economia, prescrive anche un “agire direttivo” sull’intera vita sociale, trasformandosi così in un “governo della vita”. Nella prospettiva di un progresso senza avventure, qual è quella intrinseca all’ordoliberismo, vi è pure il panico – osserva Galli – “che nasce dall’aver fatto esperienza delle cattive risposte (il nazismo) alle crisi del cattivo capitalismo, del liberalismo sregolato. E ci sono infine il terrore del rischio – di ogni rischio: dell’inflazione, del debito, dell’impoverimento, del conflitto – e la totale incapacità d’immaginare che sia possibile un altro modello politico-economico. Al di fuori di esso c’è solo il caos”. Così la pensa l’attuale classe politica tedesca, la quale, prescindendo dalle posizioni a volte comprensive di alcuni suoi membri nei confronti dei Paesi europei dai conti pubblici non in regola, è fermamente convinta che, per l’intera Unione Europea, l’ordoliberismo sia una via da seguire “senza alternative né flessibilità”; in altre parole, senza se e senza ma.
Giustamente Galli sottolinea il fatto che l’ordoliberismo abbia dato il meglio di sé quando esso costituiva una peculiarità locale, cioè quando esprimeva un particolare modello di regolazione del capitalismo (modello renano), “all’interno di un’economia occidentale a trazione statunitense” che, sollevando la Germania da ogni obbligo riguardo alla conservazione degli equilibri di potere internazionali, ha consentito alla stessa Germania di divenire la “locomotiva di Europa” e di realizzare al proprio interno un esteso Stato sociale.
Dopo gli anni Settanta del secolo scorso, e ancora di più a partire dal 2008, l’ordoliberismo ha mostrato i segni del tempo, dando luogo ad una riduzione delle prestazioni welfariste, al punto che secondo molti critici esso è divenuto una facciata di comodo che nasconde la sua sostituzione con una forma di neoliberismo, cui si deve il danno di una disunione dell’intera Europa. In tal modo l’euro è diventato il marco sotto falso nome, con la cui forza la Germania ha potuto obbligare i Paesi dell’Eurozona ad agire, in fatto di politica monetaria e fiscale, “secondo modelli che sono tipicamente tedeschi e che le realtà politiche non tedesche devono riprodurre, almeno a grandi linee, attraverso le ‘riforme’ e la spendine review”.
L’egemonia sulla politica monetaria europea e la propensione della Germania a svolgere il ruolo di “egemone riluttante” a livello di obblighi internazionali sono all’origine, secondo Galli, di numerose fratture geopolitiche, la principale delle quali è data dal fatto che l’Eurozona, nonostante la primazia economica tedesca, da un lato, manca di costituire propriamente “uno spazio politico tedesco” e, dall’altro lato, causa all’interno del più vasto spazio europeo una contrapposizione tra Paesi creditori e Paesi debitori.
Dal primo punto di vista, il non essere la Germania-Eurozona uno spazio politico integrato ha fatto sì che i Paesi dell’Est europeo, dopo il crollo dell’URSS e dopo la loro entrata nell’Unione, per quanto integrati nello spazio economico tedesco, non condividano le direttive generali del potente vicino, il quale sconta, per ragioni storiche, da parte dei Paesi dell’Est europeo, la stessa diffidenza che questi nutrono nei confronti della Russia erede dell’URSS. Questa situazione fa sì che i Paesi dell’Europa orientale, diffidenti della Russia, lo siano anche nei confronti della Germania, per cui, anche a causa della mancanza di una politica estera e di difesa reale europea, preferiscano ripararsi sotto l’”ombrello protettivo” degli Stati Uniti; fatto, questo, che è all’origine di rapporti non del tutto distesi tra le due sponde dell’Atlantico, sul piano delle iniziative da intraprendere per il rilancio dell’economia globale in condizione di pace e di stabilità.
Della contrapposizione tra Paesi creditori e Paesi debitori, originata dalla politica monetaria e fiscale ordoliberista della Germania, va sottolineato, secondo Galli, il fatto che essa “permette agli Stati Uniti di godere attraverso la Nato […] di un enorme peso sull’Europa”, rispetto alla quale, come si è già detto, la Germania, in quanto “egemone riluttante”, non vuole assumere nessuna leadership di natura politico-militare, sebbene la eserciti sul piano economico; anche per questa sua contraddizione, perciò, la Germania ha cessato d’essere motivo di unione, divenendo invece motivo di contraddizione e di disunione.
Tuttavia, conclude Galli, i mali attuali dell’Unione non nascono solo a Berlino, ma sono anche riconducibili al fatto che l’insieme che tutti i Paesi europei sono gli eredi di un progetto comunitario pensato ai tempi della guerra fredda, quando di fatto tutti erano sollevati da responsabilità strategiche, in quanto ricadenti pressoché tutte sugli Stati Uniti; ovvero, quando l’Europa poteva “pensare a se stessa come mercato comune e poi come potenza civile, un’ipotesi possibile solo in una situazione mondiale di pace relativa, oggi ben lungi dall’essere realtà”.
L’Europa di Schengen ormai è a pezzi, invasa da migranti che fuggono dai Paesi in crisi del Medio Oriente e da altre “zone calde” del mondo, che hanno indebolito le strutture istituzionali dei Paesi dello spazio dell’Unione e frantumato le loro società, affievolendo la solidarietà di tutti coloro che le compongono, trasformandoli in soggetti “economicamente concorrenti, impoveriti e subalterni a potere invincibili e politicamente preda della paura e della xenofobia”.
Con questa sua conclusione, Galli sembra alleggerire le colpe della Germania; in realtà, tali colpe sono ingigantite dalla rinuncia a svolgere sul piano politico internazionale il ruolo che l’egemonia economica le assegna, considerato che la somma degli effetti connessi con il permanere della Grande Recessione e dell’insicurezza esistenziale sono la conseguenza inevitabile dell’aver affidato in modo irreversibile la locomotiva d’Europa all’ordoliberismo, il quale, in fin dei conti, altro non è che il neoliberismo con la faccia ammantata di perbenismo.

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