Dove va la sanità in Italia? Parte III

10 Gennaio 2009
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Antonello Murgia

La riforma della riforma sanitaria

La legge 833/78 ebbe un rodaggio lento e faticoso a causa di intoppi manifestatisi a livello governativo e periferico. Per quanto riguarda il Governo accadde che fra il 1979 ed il 1993 il dicastero della Sanità fu per buona parte del tempo retto da ministri (prima Altissimo e successivamente De Lorenzo) di quel partito Liberale che votò contro l’approvazione della L. 833 (che fu invece votata dall’opposizione di sinistra); e non è un caso se il primo Piano Sanitario Nazionale vide la luce solo nel gennaio 1994. A livello periferico, invece, si andò da Regioni più virtuose, che assunsero il ruolo di apripista e si diedero un Piano Sanitario Regionale già negli anni 1981 (l’Emilia Romagna) e 1982 (il Piemonte) ad altre che lo hanno prodotto solo negli ultimi anni (Puglia, Sicilia). La Sardegna, come è noto, si dotò abbastanza rapidamente del primo Piano Sanitario (1982), ma poi ha lasciato passare oltre 20 anni prima di produrne un secondo.
La L. 833 era più o meno arrivata a regime, quando, nei primi anni 90, una sfavorevole congiuntura economica internazionale comportò la necessità di ridurre le spese e venne sfruttata da alcune forze (ad es. Confindustria) che, lamentando una spesa sanitaria fuori controllo (mai dimostrata), invocarono una privatizzazione presentata (in presenza di prove lampanti del contrario) come economicamente più vantaggiosa per il Paese. Il 1992 fu poi un anno terribile per le nostre istituzioni, scosse dall’avvio di Tangentopoli e dagli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino. In tale clima politico ed economico nacque quella che è stata chiamata da alcuni la riforma-bis e da altri la controriforma sanitaria: gli strumenti furono la legge delega 421/92 ed i successivi decreti legislativi 502/92 e 517/93. I giudizi contrastanti derivano dal fatto che tali decreti contemplavano, accanto ad elementi riconosciuti come migliorativi (l’individuazione del Piano Sanitario Nazionale come principale strumento di programmazione, la regionalizzazione del servizio sanitario, la partecipazione dei cittadini organizzati sia alle fasi di programmazione che a quelle di controllo), altri che andavano in direzione diversa rispetto a quella indicata dalla L. 833. Tra questi ultimi possiamo indicare:
- i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) i quali (v. D. Lgs. 517 art. 2) “…sono stabiliti con il Piano sanitario nazionale, nel rispetto degli obiettivi della programmazione socio-economica nazionale e di tutela della salute individuati a livello internazionale ed in coerenza con l’entita’ del finanziamento assicurato al Servizio sanitario nazionale”. In questa dicitura c’è un cedimento alle compatibilità economiche che verrà maggiormente esplicitato in questi ultimi anni dagli avversari di un servizio universale, equo e solidale;
- l’introduzione (v. D.Lgs. 502 art. 9) della possibilità di istituire “fondi integrativi finalizzati a potenziare l’erogazione di trattamenti e prestazioni non comprese nei livelli uniformi ed essenziali di assistenza”. Delle due l’una: o le prestazioni da coprire tramite i fondi integrativi sono importanti per la difesa della salute e dovrebbero quindi essere garantite (ai sensi dell’art. 32 della Costituzione) dal SSN, oppure non sono importanti (perché non c’è evidenza scientifica della loro utilità, etc.) ed allora (ovviamente lasciando ai cittadini la libertà di spendere individualmente per le prestazioni più disparate) non ha senso istituire i fondi integrativi. E’, in realtà, un approccio che tende a ridurre progressivamente le prestazioni garantite per cedere al libero mercato il compito di dare una risposta. In un bell’articolo di Carlo Clericetti dal titolo di “Un fallimento liberista” apparso su La Repubblica del 12 dicembre scorso, il sottotitolo afferma: “A portare alla bancarotta i giganti dell’auto Usa sono stati anche, e in modo determinante, i deficit dei Fondi aziendali pensionistici e sanitari. La società ha chiesto ai privati i servizi di welfare che lo Stato non fornisce, e questo è il risultato”. Il paradosso è che oggi c’è chi (il ministro Sacconi, per es.) propone la stessa ricetta;
- individuazione dell’accreditamento come strumento di garanzia della qualità delle prestazioni, con libertà per il cittadino di scegliere la struttura dalla quale farsi curare. E’ un implicito riconoscimento di pari dignità tra pubblico e privato che in sanità non ha mai dato buoni risultati, perché il privato tende ad incentivare la domanda ed il cittadino ha mediamente pochi strumenti per orientarsi in modo accettabile. Un percorso virtuoso comporta invece: analisi dei bisogni di salute; programmazione degli interventi; individuazione dei settori strategici, che devono rimanere di competenza pubblica anche come gestione; eventuale affidamento ai privati delle altre attività;
- l’introduzione della possibilità di conferire incarichi senza concorsi né selezioni (art. 15-septies della L. 502). Concepito, in teoria, per potersi avvalere di particolari professionalità senza lungaggini burocratiche, ha in realtà favorito una pesante pratica clientelare e da più parti se ne chiede oggi la revisione.

Nel 1998 emergevano nel dibattito politico le richieste di maggiore federalismo e migliore qualità del Servizio Sanitario e venne promulgata la legge n. 419 “Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502″ dalla quale scaturì il D. lgs. 19 giugno 1999 n. 229 (Decreto Bindi o riforma sanitaria-ter). Non sempre la richiesta di qualità fu corretta: un esempio emblematico fu quello della “terapia Di Bella”, sedicente anticancro, proposta da un oscuro fisiologo bolognese e sostenuta in modo più o meno evidente da un mondo dell’informazione il cui controllo in quegli anni andava concentrandosi, grazie anche alla vittoria elettorale, nella stessa persona. Caso mai verificatosi fino ad allora, il Ministero della sanità fu costretto, stravolgendo le regole della comunità scientifica, a sostenere le spese di una costosa sperimentazione clinica multicentrica nell’assoluta assenza di indicazioni valide.
Il decreto Bindi, dall’impianto non completamente coerente con l’impegno di difendere la sanità pubblica, introdusse comunque diversi elementi importanti. Fra essi:
- lo spostamento verso il territorio del baricentro del sistema sanitario. Quando l’alimentazione e le condizioni igieniche dei luoghi di vita e di lavoro erano vistosamente carenti per una fetta importante della popolazione, il ricovero in ospedale assolveva anche il compito di ovviare, almeno (ma non solo) per la fase acuta, tali carenze. A fine XX secolo questa necessità era ormai grandemente diminuita ed era maturo il tempo per avvicinare la sanità ai cittadini (e non viceversa, come era avvenuto fino ad allora) con vantaggi sociali (minore sradicamento dei malati dal loro contesto sociale) ed economici (costi inferiori);
- la monitorizzazione dello stato di salute della nazione (relazione annuale del Ministro della Sanità);
- la centralità dei Piani Sanitari Regionali (PSR), redatti con l’apporto anche delle autonomie locali e delle forze sociali;
- il vincolo del sistema di autorizzazioni/accreditamento alla verifica delle reali necessità (la Regione, se dopo un anno dal varo del PSN non ha prodotto il PSR, non potrà accreditare nuove strutture);
- un importante incentivo all’esclusività del rapporto di lavoro dei medici del servizio pubblico (il lavoro anche in strutture private favoriva pratiche contrarie all’interesse della collettività);
- l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali;
- il riconoscimento formale della necessità della formazione continua per gli operatori e del relativo sistema premiante/penalizzante.

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