La democrazia ha bisogno di Dio?

30 Dicembre 2016
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Gianfranco Sabattini

Nel libro “La democrazia ha bisogno di Dio, Falso!” (edito da Laterza nella collana “Idola”), Paolo Flores D’Arcais torna su un tema a lui caro, ponendosi la domanda: “Dio è incompatibile con la democrazia?”. La risposta, secondo il filosofo e direttore di “MicroMega”, “dovrebbe essere un perentorio NO” o, in termini più problematici e meno tranchant, “difficilmente”, solo però sotto la condizione che il Dio che il credente si è creato lo lasci “libero di scindersi tra credente e cittadino, di prescindere da Lui nella sfera pubblica. Di obbedire a Dio nella condotta personale ma di rifiutarsi che alla legge di Dio debba obbedire la comunità dei liberi ed uguali che si dà da sé la propria legge”. Ciò perché - afferma D’Arcais – due sovranità non possono convivere nello stesso spazio pubblico di una democrazia: o “la sovranità di Dio, o la sovranità dei cittadini”; perciò, “una delle due deve essere proscritta”.
Oggi, sembra prevalere l’idea che l’accettazione della sovranità di Dio costituisca per i cittadini l’irrinunciabile opzione per la salvezza delle democrazie in crisi. Si tratta di un’idea, a parere di D’Arcais, che ha preso corpo ormai da trent’anni; ne è prova il fatto che una “strana alleanza” sta dando la caccia al pensiero laico. Si tratta di una “santa alleanza”, nella quale si ritrovano, non tanto tutte le religioni impegnate a combattere la secolarizzazione delle società moderne, quanto, “in sconcertante consonanza di amorosi sensi”, gli ultimi Papi della “crociata contro i Lumi”, ma anche il pensatore del fondamentalismo islamico mascherato da liberal, Tariq Ramadan, il “filosofo dell’intransigenza” repubblicana e democratica, Jürgen Habermas, e infine una folta schiera di laici-devoti di sinistra, che si professano laici nei giorni feriali e devoti nei dì di festa.
L’alleanza, che oggi invoca la presenza di Dio nello spazio pubblico, per salvare la democrazia, ponendola sotto le sue ali protettrici, “riconoscendo un ruolo pubblico a chiese e religioni”, è dunque variegata ed eterogenea, ed il discorso degli “alleati” non può non originare un senso di inquietudine in chi crede laidamente nella democrazia; senso di inquietudine che origina, sol che si rifletta sulle “parole dei suoi maîtres à penser”, che D’arcais non manca di riportarne il pensiero.
Tra gli ultimi papi, Karol Wojtyla è stato uno dei più espliciti critici militanti ad intraprendere la “crociata contro i Lumi”, con parole che, a parere di D’Arcais, “sembrano sedurre la laicità in voluttà di autocritica”. Nell’enciclica “Veritatis Splendor”, del 1993, il Papa polacco ha avuto modo di affermare sul relativismo etico che “dopo la caduta in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo”, non meno grave è ora “il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento”; contro il relativismo etico, Papa Wojtyla ribadirà, nel 1995, il suo anatema nell’enciclica “Evangelium Vitae”, facendone – afferma D’Arcais - “uno dei fili conduttori del suo intero magistero”.
Nel 2005, in “Memoria e identità”, uno scritto sui fondamenti etici della democrazia e dei diritti umani, sull’identità dell’Europa, potentemente plasmata dal cristianesimo fino alla frattura provocata dall’illuminismo, Wojtyla rincarerà la dose bollando l’illuminismo della responsabilità d’aver indicato l’uomo come “creatore della propria storia e della propria civiltà” e come colui che “decide di ciò che buono e di ciò che è cattivo”, riconoscendolo ed esaltandolo come colui “che esiterebbe ed opererebbe etsi Deus non daretur (come se Dio non ci fosse)”
Nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, il Cardinale Joseph Ratzinger, a Subiaco, nel ritirare il Premio San Benedetto, ha tenuto una conferenza dal titolo “L’Europa nella crisi delle due culture”, una sorta di manifesto – afferma D’Arcais – col quale il Cardinale si è candidato alla successione del Papa polacco; durante lo svolgimento della sua conferenza, Ratzinger, a sostegno del ruolo di Dio a supporto della democrazia in crisi, ha affermato che, nell’interesse della democrazia, si dovrebbe “capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse”. Lo stesso Ratzinger, due settimane dopo la morte di Giovanni Paolo II, nella basilica di San Pietro, nell’omelia della messa “pro eligendo Romano Pontefice”, ha ribadito l’anatema contro la “dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
Nel 2013, dopo che Ratzinger, divenuto Papa col nome di Benedetto XVI, ha annunciato la sua rinuncia al ministero di vescovo di Roma e di successore di San Pietro, restando tuttavia pontefice emerito e conservando la qualifica di “Sua Santità”, il suo successore, Papa Francesco, al secolo Mario José Bergoglio, pur annunciando sostanziali mutamenti in tema di laicità, nella sua prima enciclica “Lunen Fidei” del 2013, anche se in termini meno tranchant rispetto ai sui predecessori, ha ribadito che la fede quando “viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno […]. Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra di noi, ci terremmo uniti soltanto per la paura, e la stabilità sarebbe minacciata”.
Agli anatemi di alcuni Papi contro lo spirito laico e ai consigli paterni e preoccupati elargiti dall’ultimo papa per fugare i pericoli cui sarebbe esposta la vita sociale, se venisse meno la fede in Dio, fanno da sponda le dichiarazioni dell’islamico Tariq Ramadan e del presunto laico Habermas. Il primo ha condannato il fatto che la libertà di scelta da parte dei singoli individui sarebbe “diventata talmente preponderante che, nel suo eccesso, ha finito per negare ogni punto di riferimento, trasformandosi in permissività morale”; ragione questa che ha spinto un suo sostenitore, professore di storia americano, R. Scott Appleby, a riassumerne la posizione secondo la quale il cristianesimo avrebbe “molto da imparare dall’esperienza moderna dell’Islam e dalla sua resistenza feroce a certe forme di compromesso con la filosofia dei Lumi, come la riduzione della religione alla sfera privata e l’erezione di un muro a tenuta stagna tra la religione e lo Stato”.
Ma più sorprendenti sono le valutazioni, sul ruolo della religione nelle società moderne, dell’erede della “Scuola di Francoforte”, Jürgen Habermas, il quale, come riportato da D’Arcais, in “La società post-secolare” (“Reset”, n. 108/2008), ha rimproverato agli “intellettuali laicisti di stampo francese” lo “zelo militante a difesa della tradizione universalistica dell’illuminismo”, che avrebbe avuto il torto di assumere, sulla base di un “postulato assai discutibile, che la religione avrebbe dovuto ritirarsi dalla sfera pubblica politica”, e quindi limitare il suo impatto unicamente sulla sfera privata dell’individuo. A tal fine, lo stesso Habermas, ha affermato, in “Tra scienza e fede”, la necessità che ciascun individuo sociale operasse “il superamento autoriflessivo di una nozione di sé laicisticamente sclerotizzata della modernità”.
Dopo queste esternazioni da parte di personaggi, estranei al mondo della Chiesa cattolica, in pro del ruolo di Dio nella salvaguardia della democrazia nelle società moderne, nessuna meraviglia – afferma D’Arcais – “se la cattedra di Pietro si impalca a maestra di razionalità”, impostando tutto il suo discorso “come un sillogismo”, che ha come premessa maggiore, l’assunto secondo il quale l’”illuministica sovranità della ragione che prelude alla sovranità politica, e la hybris del ‘darsi da sé la propria legge’ e la loro congiunzione con cui l’Homo sapiens entra nella modernità democratica, piombano in realtà l’umanità nell’anomia morale e scatenano nuove spaventose piaghe d’Egitto”; a seguire, come premessa minore, l’assunto che “senza una legge morale assolutamente vincolante la catastrofe del genere umano è solo questione di tempo”.
Date le due premesse, la conclusione non può che essere l’ammissione di Dio come fondamento per la regolazione dei rapporti umani, costituente l’unica opzione che credenti e non credenti hanno a disposizione “perché il mondo non cada totalmente preda dell’autodistruttiva legge ‘del più forte’”; ma anche perché possano sottrarsi allo sconvolgimento della loro coscienza morale e accomunarsi, come ha affermato Ratzinger, nel loro “essere immagine di Dio” che è ciò che conferirebbe loro dignità e inviolabilità. Proprio la ricerca del come garantire la loro dignità e inviolabilità, credenti e non credenti dovrebbero perciò aprire la democrazia a Dio, finendola con l’etica relativistica dell’Illuminismo, al fine di “rovesciare il verdetto della modernità come disincanto”. Solo in questo modo, a parere di Ratzingher (“L’Europa nella crisi delle culture”), nessuno sarà più limitato nella sua libertà, in quanto tutti potranno trovare un sostegno in un criterio del quale hanno un urgente bisogno.
Eppure - afferma D’Arcais – attraverso il relativismo etico, tutti possono salvaguardare la loro dignità nella libertà con la democrazia; il fondamento etico relativistico della democrazia esige infatti “da ogni cittadino la con-divisione di un ethos repubblicano minimo, l’eguale dignità di tutti e di ciascuno […]. Questo ethos non può essere messo sullo stesso piano di altre opzioni di valore quali le fedi religiose” o altre presunte etiche universalistiche; ciò perché, a differenza di queste, l’”ethos repubblicano minimo non brandisce nessuna pretesa di universalità”, in quanto fondato sull’assunto che “qualsiasi opzione di valore è nel suo fondamento ultimo indimostrabile”, essendo questo fondamento una decisione di tutti, presa nella libertà. Con ciò – continua D’Arcais – “viene in chiaro, intanto, che al relativismo non è imputabile alcuna indifferenza etica, visto che non solo costringe a scegliere, ma smaschera come preferenza/decisione anche ogni presunta mera obbedienza”.
L’uguale dignità di tutti a fondamento della democrazia è, quindi, “decisione esistenziale irriducibile” e una volta che si opti per la democrazia non è possibile esimersi “dal volere anche l’ethos che la sorregge”; cioè la con-divisione di un ethos repubblicano minimo che, essendo fondato su una concezione relativistica dei valori, è garanzia della dignità nella libertà per tutti. Il relativismo è il contrario del dogmatismo; è spirito critico che vale ad educare l’uomo a scegliere nella libertà e autonomia di giudizio, ma esige anche che egli sia intollerante nei confronti dei nemici della democrazia, sino al limite della soppressione della libertà di coloro che osano tentare di rovesciare la democrazia. La conservazione della democrazia, perciò, conclude D’Arcais, implica che i cittadini siano costantemente animati dall’ethos repubblicano e che questo non soccomba mai ad altri valori identitari premoderni, siano essi di fede, di sangue o di suolo.
L’ethos repubblicano deve risultare irriducibile anche quando le promesse della pari dignità siano per qualsiasi ragione momentaneamente frustrate, inducendo i cittadini a percepirle come illusorie ed esponendoli al rischio di non resistere alla “seduzione di qualche soddisfazione vicaria”; ciò implicherebbe una delega, a Dio o ad altro Capo mondano, della tutela della uguale dignità di tutti, nell’illusione che, per questa via, tutti possano essere salvati da un Altro, anziché dal loro impegno a conservare la democrazia, mossi unicamente dalla “passione di essere cittadini”.
Per uscire dalla contrapposizione di sempre tra laici e fedeli, sarebbe necessario, come suggerisce Ronald Dworkin, uno dei massimi pensatori liberali, distinguere due modelli contrapposti di organizzazione sociale: un modello religioso, che “tollera” i non credenti, e un modello alternativo laico, che “tollera” i credenti. Nel sistema religioso e tollerante nessuna religione è di Stato, mentre nel sistema sociale laico e tollerante, lo Stato è permissivo nei confronti di tutte le religioni. Entrambi i sistemi alternativi considerati sarebbero, dunque, “tolleranti” nei confronti di qualsiasi pratica religiosa, per cui si potrebbe anche pensare che essi possano concordare sull’impatto della pratica religiosa sulla vita pubblica. Non è però così, poiché, in virtù dei valori non negoziabili propri di ciascuno dei modelli, essi di fatto differiscono per quanto concerne ciò che la tolleranza presuppone. Infatti, in un sistema sociale religioso e tollerante, la libertà religiosa non presuppone la libertà di ogni singolo soggetto nel decidere autonomamente sulle questioni etiche “sensibili”; mentre un sistema sociale laico tollerante non potrebbe ammettere una simile restrizione all’esercizio della libertà personale.
Tutto ciò comporta che in un sistema sociale democratico, tollerante per definizione, la libertà religiosa sia derivata da un diritto più generale rispetto a quello che garantisce l’esercizio della libertà, un diritto che trascenda la stessa libertà religiosa. E’ questo il punto centrale del dibattito pubblico tra devoti e laici in seno alla società civile, nel senso che il “diritto più generale” dovrebbe anche rendere possibile scegliere tra il modello religioso e il modello laico, entrambi tolleranti; sulla base delle argomentazioni svolte, parrebbe che al modello religioso, che presuppone una concezione più ristretta della libertà religiosa rispetto al modello laico, sia da preferirsi quest’ultimo. E’ possibile, come afferma Dworkin, che le argomentazioni a sostegno del modello laico non facciano cambiare idea ai devoti; è tuttavia sperabile che li induca, anziché a demonizzare i laici, a formulare argomentazioni più convincenti di quelle da loro normalmente sostenute.

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