L’autonomia sarda secondo Umberto Cardia

27 Agosto 2017
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Gian Giacomo Ortu
Ecco una recensione, apparsa sulla Nuova Sardegna, sull’opera che Umberto Cardia, intellettuale e dirigente politico, ha dedicato alla cultura in Sardegna. Il filo rosso dell’idea autonomista. Le assonanze con il pensiero spesso trascurato di Bellieni.

Oggi che l’autonomismo sardo, stretto nella morsa del federalismo europeo da un lato e del separatismo nazionalitario dall’altro, soffre di un nuovo depotenziamento culturale ed ideale, diventa più urgente lo sforzo di riattraversarne l’intero spettro problematico e teorico. Giunge perciò ben opportuna la comparsa in libreria dell’attesa opera di Umberto Cardia sull’Autonomia sarda («Autonomia sarda», Cuec, lire 50.000), frutto di una elaborazione più che ventennale. L’idea che Cardia ha dell’autonomia sarda, quale avvenimento che si realizza nella lunga durata della coscienza e del sentimento di un popolo, ha tratti di forte originalità, ma non manca di premesse importanti nella cultura regionale e nazionale. Si deve anzitutto richiamare l’opera del troppo misconosciuto Camillo Bellieni, attraversata dalla concezione di un popolo sardo che, pur maturando a fatica una identità e consapevolezza di sè, non riesce tuttavia ad attingere quel livello più alto e più «vero» di coscienza che è la nazione-stato. La «nazione abortiva» di Bellieni resta però un’unità morale e culturale, tende a qualificarsi sul versante dell’«ethos» e della storia, e non in quello dell’«ethnos» e della razza. Anzi, il «contrasto tra “ethnos” ed “ethos” _ scrive Bellieni _ è la nostra tragedia», quasi che la difficoltà e la fatica per i sardi fosse quella di emanciparsi dall’impasto opaco del «costume». Cardia, rispetto a Bellieni, depura il concetto di «ethnos» da ogni implicazione razziale, saldando nuovamente in esso i caratteri sia originari che storici di un popolo, ma come lui dà come scontata per la Sardegna l’insussistenza di una prospettiva nazionale e statuale. Come molti altri intellettuali, e come in parte lo stesso Bellieni, Cardia è anche tributario dell’idealismo crociano. La rivendicazione d’autonomia è infatti da lui intesa, essenzialmente, quale affermazione di coscienza e di libertà di un soggetto, il popolo sardo, dalle connotazioni sociali e classiste molto sfumate. L’intera storia della Sardegna, scrive Cardia, «si illumina e assume razionalità solo se vista nella luce di una faticosa ricerca di autonomia, di unità e di autogoverno che, avviata nell’epoca di quella prima formazione autoctona [i Giudicati], continua incessantemente, anche se con ritmi alterni e assai irregolari, a svilupparsi nel corso dei secoli e scontrandosi con i successivi ostacoli, con le diverse condizioni storiche, con le irruzioni esterne, fino a divenire, come diviene, ma solo nel nostro tempo, un diffuso, consapevole movimento politico di massa, che unisce e fonde la rivendicazione autonomistica con quella del progresso sociale e civile, con la rinascita dell’isola». Che in Cardia si manifesti costante l’impronta forte di una cultura umanistica ed idealistica non è certo uno scandalo. Tale è bensì la formazione di gran parte del gruppo dirigente comunista nel secondo dopoguerra, non escluso quello sardo, da Renzo Laconi ad Umberto Giganti, da Sebastiano Dessanay a Luigi Pirastru, da Giovanni Maria Cherchi ad Armando Congiu, da Girolamo Sotgiu allo stesso Cardia. Una formazione che ha dotato questo personale politico di un più di rigore intellettuale e di affidabilità morale, oltre che della capacità di leggere in modo non schematico i processi sociali e storici. Una certa vocazione alla riflessione storiografica sembra anzi costituirne un tratto caratteristico, come dimostra il caso più eclatante di Girolamo Sotgiu che ha concluso la sua carriera e la sua vicenda umana da studioso accademico e da notevole organizzatore della ricerca storica, e come conferma il caso di Renzo Laconi che ha lasciato la buona eredità di molte intelligenti intuizioni e sondaggi di storia della cultura e degli intellettuali in Sardegna. Ma non si può neppure dimenticare il caso di Sebastiano Dessanay, che dopo il «tradimento» dell’ortodossia di partito, in seguito agli avvenimenti ungheresi del 1956, riattingeva al suo primo interesse universitario per il folklore sardo e alla sua breve, ma intensa, esperienza di leader contadino le motivazioni per lo sviluppo di una concezione dell’identità sarda radicata nelle culture locali e comunitarie e per la maturazione di un’idea della «sovranità» non monocentrica, ma «pluralizzata». Sul tronco dell’idealismo italiano e di un marxismo rinsanguato da Gramsci, le ramificazioni di pensiero possono essere del resto molto divergenti. Il popolo-ethnos di Cardia ha poco in comune con quel precipitato delle «tradizioni» che è l’identità sarda di Dessanay; la sua prospettiva etno-culturale della storia sarda confligge fortemente con il più risentito materialismo storico di Sotgiu. Persino nei confronti di Laconi _ che pure gli è molto affine _ Cardia marca una notevole distanza in un punto centrale: e cioé proprio nella costruzione di una identità sarda a base etno-storica ed etno-culturale che si sforza di cancellare quella distanza tra alto e basso della produzione culturale, tra cultura e folklore, tra intellettuali e masse popolari, che in Laconi resta clamorosa. La lezione gramsciana conta molto, è ovvio, in questa visione della storia che cerca di correggere la veduta dall’alto, dalla corte o dalla loggia del principe, con una più attenta considerazione del ruolo non passivo delle masse subalterne. Ma non è sufficiente spiegare la tenacia e la passione con le quali Cardia ha seguito il «filo rosso» dell’autonomismo sardo. Grande affabulatore dell’idea e del sentimento ha in verità disegnato un grande affresco della vicenda di un popolo che s’affranca dall’umiliazione e dalla sofferenza per guadagnare peso e luce nel teatro della storia. Sotto questo profilo, e cioé del tentativo di conferire un unitario significato morale e ideale all’intera vicenda storica dell’isola, l’opera di Cardia è perfettamente simmetrica a quella di Giovanni Lilliu. Simmetrica, e tuttavia singolarmente distante nelle premesse teoriche. Lilliu è infatti il massimo esponente di una concezione dell’autonomia e d’identità sarda sul terreno della «civiltà» piuttosto che della cultura, della durata epocale piuttosto che della storia (medioevale, moderna e contemporanea), che sono posizioni che Cardia denuncia in questo stesso libro come romantiche e come espressione di un modo passivo e subalterno di guardare alla propria storia. Ma è in verità «altra» la prospettiva di Lilliu, portato per il suo mestiere d’archeologo a vedere soprattutto il rapporto esterno tra «civiltà», piuttosto che il rapporto interno di svolgimento delle culture. Ad entrambi la cultura dell’identità deve moltissimo, benché in molte dello loro tesi o posizioni (ad esempio nella valutazione tutta negativa da parte di Cardia del riformismo sabaudo in Sardegna) si manifesti l’effetto di quella tendenziosità e di quell’anacronismo emotivo ed ideologico in cui deve comunque incorrere chi _ come ha notato una volta Norbert Elias _ si sforza di rendere imperitura nella coscienza e nella storia questa o quella nazione (o popolo o etnia).

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  • 1 Oggi domenica 27 agosto 2017 | Aladin Pensiero
    27 Agosto 2017 - 15:34

    […] L’autonomia sarda secondo Umberto Cardia 27 Agosto 2017 Gian Giacomo Ortu, ripreso da Democraziaoggi. Ecco una recensione, apparsa sulla Nuova Sardegna, sull’opera che Umberto Cardia, intellettuale […]

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