Mieli: Cosa c’entra il fascismo? Le evocazioni pericolose

29 Ottobre 2018
2 Commenti


Paolo Mieli  - Il Corriere della sera

Paolo Mieli, sul Corriere della sera, ha scritto un commento in cui contesta l’uso fuori luogo dell’accusa di fascismo agli avversari politici, specie verso quelli di destra. Su questo blog ho sempre contestato, ad esempio, che il M5S sia meritevole di quell’epiteto e, anzi, pensavo e penso che sia una forza democratica, come ha dimostrato nella difesa appassionata della Costituzione contro il tentativo di sfascio renzi-boschiano. D’altronde i pentastellati, prima che a Salvini, hanno chiesto l’alleanza per formare il governo al PD, che con Renzi l’ha declinata, nella speranza di un ennesimo governo presidenziale suol modello di Monti e seguenti.
Personalmente, sono convinto che neanche la Lega sia fascista, come dimostra del resto la molto accorta amministrazione delle regioni del Nord. Ci sono nella Lega pulsioni razziste, antimigranti, che Salvini certamente alimenta, ma da qui al fascismo ne passa. Per esempio i leghisti sono contro le missioni militari all’estero, che non sono proprio in linea con le mire espansionistiche solitamente proprie dei fascismi e partecipano alla politica nazionale secondo la Costituzione senza formare corpi o organizzazioni di tipo militare o gerachizzate. Ciò non toglie che bisogna opporsi fermamente a tali pulsioni e a molte delle misure di governo di parte leghista, al pari delle alleanze internazionali di quel partito. Ma questo chiama i democratici ad una mobilitazione sul merito delle questioni e ribattere colpo su colpo sui problemi sul tappeto.
Il grido “al fascismo, al fascismo” di una parte dell’opposizione, in primis del PD, nasconde la mancanza di argomenti e comunque è votata sicuramente all’insuccesso, se non si passa ad una forte opposizione di merito. Occorre poi delineare una possibile alternativa di maggioranza che non mi pare, al momento, ipotizzabile annoverando il M5S fra i neofascisti. In realtà, da parte del PD e alleati l’accusa di fascismo mi sembra un alibi per non affrontare una revisione seria e profonda della propria linea politica (ultraliberista) degli ultimi dieci anni. Ma così facendo si lascia che la situazione si deteriori ulteriormente. (A.P.).

Ecco ora la riflessione di Paolo Mieli.

Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. In molti, moltissimi casi sarebbe persino doveroso reagire. È altresì necessario esprimere queste critiche nei modi più espliciti ed energici. Soprattutto in momenti come questo in cui la manovra economica rischia di provocare uno sconquasso finanziario che potrebbe travolgere l’intero Paese. Ma è quasi sempre sbagliato evocare — per dar forza a discorsi del genere — il ritorno di un regime fascista.
Qualche giorno fa il Commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici — non nuovo a questa metafora — ha reagito con stizza all’atto inqualificabile di un europarlamentare leghista, Angelo Ciocca, che aveva ostentatamente calpestato i suoi appunti. Moscovici ha detto che quel gesto andava considerato «pericoloso» perché «da qui al fascismo il passo è breve». «Da qui al fascismo il passo è breve»? La guasconata di Ciocca era stata esecrabile, ma che c’entra il fascismo?
Ci guarderemmo bene dal sollevare un caso se si trattasse soltanto di una battuta qualsiasi sfuggita ad un pur importante rappresentante europeo. Ma sappiamo per esperienza che l’evocazione del fascismo è fin dalla seconda metà degli anni Quaranta un rafforzativo quasi obbligatorio della polemica da sinistra (ma non solo) contro i detentori di ogni potere.
Non soltanto politici ma anche personaggi dell’economia, agenti, magistrati, professori d’università e di scuola, preti, padri, fratelli sono stati gratificati con quell’epiteto: «fascista!». L’esercizio — anche non improprio — di ogni tipo di autorità espone quasi naturalmente a questa accusa. Talché il termine «fascista» è venuto a perdere ogni rapporto con la realtà degli anni Venti e Trenta in cui è diventato d’uso comune nell’intera Europa. Restando in Italia e limitandoci alla politica, ben cinque presidenti della Repubblica si sono trovati ad esser lambiti da quella definizione: Giovanni Gronchi ai tempi in cui favorì la nascita del governo guidato da Fernando Tambroni sostenuto dai voti del Movimento sociale italiano (1960); Antonio Segni allorché si trovò coinvolto nel caso Sifar (1964); Giuseppe Saragat accusato di aver incoraggiato la strategia della tensione (1969); Giovanni Leone portato al Quirinale dai voti del Msi (1971); Francesco Cossiga per le sue compromissioni con il caso Stay Behind (1991). Quando il più importante presidente del Consiglio del dopoguerra, Alcide De Gasperi, estromise i comunisti dal governo (1947), di lui si disse e scrisse che aveva «rotto l’unità antifascista» — cosa che in effetti fece — ma con modalità tali da spalancare la porta ad un ritorno in scena degli eredi della Repubblica di Salò. Per Amintore Fanfani che aspirava ad essere eletto presidente della Repubblica (1971) fu creata addirittura la categoria del «fanfascismo». «Fascista» fu definito Mario Scelba che resse per una decina d’anni il ministero dell’Interno con metodi sicuramente duri (anche se la legge del ’52 contro la ricostituzione del partito fascista e l’apologia del fascismo porta il suo nome). L’addebito colpì anche Giulio Andreotti: quando nel ‘72 varò un governo di centrodestra, gli fu rinfacciata la circostanza — in realtà una leggenda — secondo cui nel ‘53 aveva accettato un abboccamento ad Arcinazzo con il maresciallo della Rsi Rodolfo Graziani (cosa mai accaduta nei modi in cui fu poi raccontata). Identiche accuse ricevettero il presidente della Montedison Eugenio Cefis e persino l’avvocato Agnelli per aver tollerato che la Fondazione intitolata a suo nonno, sotto la guida di Ubaldo Scassellati, mettesse le basi di un piano di conquista e gestione del potere (il cosiddetto «cinque per cinque»). Inutile dire di Bettino Craxi costantemente effigiato su «Repubblica» con stivaloni mussoliniani. Ancor più inutile dire di Silvio Berlusconi a cui fu addirittura ostilmente «dedicata» la celebrazione della Resistenza del 25 aprile 1994.
Praticamente dal 1947 ad oggi non ci sarebbe stato anno senza che qualche esponente governativo favorisse un lieve o più deciso slittamento verso soluzioni autoritarie. Neanche uno. Ciò che forse (e sottolineiamo: forse) fu vero solo nel 1964 e in alcune fasi dei primi anni Settanta, sarebbe stata, invece, una costante della politica italiana. Con diversi livelli di intensità, certo. Ma pur sempre una costante. Possibile? Ovvio che no. A quel che gli storici seri hanno potuto accertare, la Dc e i partiti ad essa associati — eccezion fatta per qualche esponente di bassissimo rango — non hanno mai preso neppure in considerazione un’opzione autoritaria. Mai.
Di che cosa è fatto allora questo fantasma? Della stessa impalpabile non materia con la quale nel giudizio sulla politica internazionale è stata costruita l’accusa di «fascismo» nei confronti di quasi tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti e persino del capo della Resistenza francese, il generale Charles De Gaulle, per i modi con cui nel 1958 promosse il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica. Nell’operato di tutti loro è stata intravista l’apertura di uno spiraglio verso una deriva autoritaria quasi fossero assimilabili a un caudillo, un colonnello o un Putin, un Orbán o un Erdogan ante litteram.
La verità invece è che il fascismo negli ultimi settant’anni non è più stato all’orizzonte dei Paesi occidentali e ad evocarlo ossessivamente si è costantemente rischiato e si rischia ancora di fare lo stesso errore compiuto nel 1924 da Gaetano Salveminiil quale, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, si allarmava per l’eventualità di un colpo di stato militare monarchico: ciò che gli impedì di notare per tempo alcune specificità del mussolinismo. Specificità dei movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone.
C’è infine un ultimo discorso più generale da fare sull’uso del termine «fascista». Lo scrittore inglese Ian McEwan in un’allocuzione tenuta nel giugno del 2015, in occasione della cerimonia per le lauree al Dickinson College, volle tornare agli anni Sessanta quando — raccontò — la sua università “vietò a uno psicologo di promuovere la teoria secondo cui c’è una componente ereditaria nell’intelligenza”. Negli anni Settanta poi, proseguì McEwan, il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di prendere la parola per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Tutti e due «vennero definiti fascisti». E in seguito? «Le loro teorie adesso sono la norma», ha detto McEwan. Dopo quell’intervento, l’autore di Cortesie per gli ospiti ha continuato a criticare questa o quella iniziativa politica o culturale. Anche con parole molto dure. Ma non ha mai più fatto riferimento al fascismo. E sarebbe forse il caso di seguire il suo esempio.

2 commenti

  • 1 Aladinews
    30 Ottobre 2018 - 09:19

    Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=88982

  • 2 Tonino Dessì
    30 Ottobre 2018 - 12:44

    Credo che Mieli e Canfora nello stesso Olimpo ideale non possano starci, Andrea. Per il neo-moderato Mieli, anche le polemiche verso Renzi e la sua proposta di revisione costituzionale erano ingiustificate ed eccessive. Filogovernativi purchessia forse non si nasce, ma molti lo diventano. E lo sdoganamento di ogni nuova destra sembra ormai un’inclinazione cronica di molta ex sinistra. In Italia non c’è il fascismo conclamato perché la Costituzione, sia pur acciaccata, vige ancora insieme alle istituzioni di garanzia e di bilanciamento dei poteri. Un po’ anche perché esiste un’opinione pubblica democratica per ora non riducibile alla rassegnazione nonostante l’abbandono dei partiti del centrosinistra e della sinistra. Ma che razzismo, xenofobia, odio sociale e pulsioni repressive siano il nerbo ideologico della Lega ci son pochi dubbi. Così come le conclamate e pubbliche sintonie con personaggi quali Orbàn e Bolsonaro. E, per quanto si possa cercare di confondere le acque, quelli son tratti politici fascisti.

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