Le “buone pratiche esistenziali” di Latouche e la sostenibilità ambientale

27 Marzo 2019
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Gianfranco Sabattini

 

La mobilitazione degli studenti per protestare contro l’inerzia delle classi dirigenti sul degrado ambientale causato dalle modalità di funzionamento dei sistemi industriali moderni è stata l’occasione per rilanciare la “teoria della decrescita” che Serge Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI e all’Institut d’études du developpement économique et social di Parigi, va sostenendo da tempo, limitandosi però, secondo molti economisti, a proporre solo un insieme di “buone pratiche esistenziali” per salvare il pianeta-Terra, senza il supporto di un adeguato impianto teorico.
Il tema della decrescita (riproposto oggi dallo studioso francese in un pamphlet edito da Castelvecchi, intitolato “I nostri figli ci accuseranno?”) è affrontato da Latouche indicando la necessità e l’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante esplicativo e descrittivo della crescita e dell’accumulazione capitalistica. Per l’economista ecologista francese e per chi ne condivide le idee, i Paesi industrializzati devono rinvenire l’origine dell’insostenibilità ambientale dei sistemi economici industriali nell’aumento senza limiti dei beni prodotti e nel loro acritico consumo. Per essi, infatti, la decrescita richiede la disponibilità ad adottare, non solo una nuova forma di funzionamento dell’economia, ma anche un nuovo tipo di organizzazione della società.
La decrescita, secondo Latouche, mette in discussione le principali istituzioni economiche e sociali; in altre parole, essa implica una critica radicale delle modalità con cui il modo di produzione capitalistico (da non intendersi in senso ideologico, ma come sistema orientato a perseguire un’accumulazione capitalistica senza fine) funziona ed è regolato; ciò, allo scopo di rendere compatibili le nuove istituzioni economiche e sociali con una pluralità di obiettivi, che i critici latouchiani individuano nella sostenibilità ecologica, nella giustizia sociale, nell’autogoverno dei territori e nell’acquisizione di una prospettiva futura di miglioramento delle condizioni di vita di una civiltà, quella industriale, altrimenti votata all’autodistruzione.
Nata come critica alla teoria economica dominante, quella della decrescita si articola, però, in un insieme variegato di argomentazioni e riflessioni che, investendo gli aspetti economici, ecologici, sociali, politici e culturali dell’attività dell’uomo, tende a tradursi nel suggerimento di una molteplicità di “buone pratiche esistenziali”, che vanno dalle reti di economia solidale all’agricoltura biologica, dalla difesa dell’ambiente a quella dei beni comuni, dal risparmio energetico al consumo consapevole; tali pratiche sarebbero sufficienti a realizzare una circolarità tra esperienze concrete ed elaborazione teorica. Secondo molti economisti, però, il problema e la sua soluzione non sono ben formulati sul piano teorico, per cui la critica latouchiana del modo capitalistico di produzione non è univocamente condivisa.
Alla critica decrescista di Latouche, Herman Daly, uno dei maggiori economisti ecologici (che, come Latouche, al problema delle preservazione dell’ambiente ha dedicato l’intera vita professionale di studioso), contrappone, in termini meno assertivi e teoricamente più fondati, un modello esplicativo della possibile correzione del modo capitalistico di produzione, basato sull’assunto di un livello di utilizzo delle risorse (naturali ed umane) tale da non comportare la riduzione irreversibile del capitale complessivo disponibile e la diminuzione delle capacità del sistema-Terra di sostenere il “peso” del funzionamento del sistema economico che si caratterizzi in termini di aumento qualitativo del benessere. Il modello di Daly individua nel controllo demografico, nella ridistribuzione del prodotto sociale e della ricchezza e nell’aumento della produttività delle risorse non rinnovabili (reso possibile dal progresso tecnologico) i presupposti della sostenibilità ambientale del processo produttivo, senza che siano compromesse le condizioni di vita delle generazioni future.
Herman Daly riconduce, quindi, la sostenibilità del funzionamento del sistema economico al rispetto di tre condizioni generali concernenti l’uso delle risorse complessivamente disponibili: 1. il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; 2. l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve superare la capacità di carico (o di smaltimento) dell’ambiente stesso; 3. lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo. In questo modo, Daly può ricondurre la sostenibilità ambientale ad un’organizzazione del funzionamento del sistema economico idonea a rendere compatibile la soddisfazione dei bisogni delle generazioni attuali con quella delle generazioni future.
Il modello di Daly consente di prevedere due forme di sostenibilità: una debole ed una forte. La sostenibilità debole assume l’intercambiabilità del capitale naturale non riproducibile con il capitale umano (costituito dall’insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche prodotte dall’uomo); la sostenibilità forte assume, invece, che il capitale complessivo disponibile (capitale naturale - non riproducibile e rinnovabile - e capitale umano) resti costante nel tempo, a meno dell’investimento netto necessario per il perseguimento di tale obiettivo. La sostenibilità forte implica, perciò, un funzionamento del sistema economico meno “permissivo” della sostenibilità debole, in quanto esclude che il capitale naturale non riproducibile “perduto” possa essere compensato o sostituito con stock di capitale umano.
Nel quadro della ricerca sulla sostenibilità ambientale del “peso” del funzionamento del sistema economico, l’ipotesi della sostenibilità debole rappresenta un’”apertura” del modello di Daly, tale da renderlo compatibile con l’esigenza di garantire in generale un’esistenza umana più soddisfacente sul piano emozionale, morale e culturale di quanto non sia possibile alle condizioni attuali. Inoltre, l’ipotesi della sostenibilità debole rappresenta una “cesura” nella discussione sui problemi della sostenibilità del funzionamento del sistema economico, tale da prefigurare il modello di Daly come uno spartiacque tra quanti sostengono la necessità della fuoriuscita dalla logica della crescita (ad esempio, à la Latouche) e quanti affermano, invece, la possibilità di sostenere un funzionamento del sistema economico qualitativamente sostenibile, senza gli “stravolgimenti” o le “rivoluzioni” previsti e considerati irrinunciabili dai primi.
Per contro, l’ipotesi della sostenibilità forte prefigura un funzionamento del sistema economico in “stato stazionario”, cioè un sistema economico a “crescita zero”, che è l’obiettivo dei decrescisti. Ma, a differenza di Daly, lo stato stazionario del sistema economico prefigurato dai decrescisti risulta tanto restrittivo da comportare l’azzeramento dell’investimento netto; ovvero, dell’investimento necessario per consentire la reintegrazione o la conservazione della quota di capitate naturale non riproducibile e per la conservazione del capitale umano.
Secondo Daly, in un sistema economico in stato stazionario, è impossibile non prevedere l’effettuazione degli investimenti necessari, oltre che alla conservazione del capitale naturale non riproducibile, anche alla reintegrazione di quelle quote del capiate complessivo a disposizione che deve essere rinnovato (risorse naturali rinnovabili) o conservate (capitale umano). Ciò significa che in un sistema economico in stato stazionario, secondo l’ipotesi della sostenibilità forte di Daly, per conservare la costanza dei mezzi di produzione disponibili, è sempre necessario l’investimento di un mix di risorse costituenti il capitale complessivo tenuto ai livelli più bassi possibile (in ogni caso, tale da non escludere anche un utilizzo minimo di risorse naturali non rinnovabili).
Quanto sin qui detto consente di rinvenire nell’ipotesi della sostenibilità forte della prospettiva teorica di Daly una comprensione del problema della decrescita più esaustiva di quanto non sia possibile sulla base delle “buone pratiche esistenziali” assertive e a volte “immaginifiche” suggerite da Latouche. Ciò perché l’ipotesi della sostenibilità forte del modello di Daly prefigura, realisticamente, innanzitutto un’organizzazione della società aperta all’accoglimento di decisioni sociali condivise sul controllo della dinamica demografica; in secondo luogo, assume la possibilità di un aumento qualitativo del livello del benessere, in presenza di un’equa distribuzione della ricchezza tra i componenti del sistema sociale; in terzo luogo, prevede la costanza del capitale complessivo disponibile, a meno degli investimenti minimi necessari per la conservazione e reintegrazione del capitale complessivo, costituito da risorse non riproducibili, da quelle rinnovabili e dal capitale umano.
L’ipotesi della sostenibilità forte del modello di Daly, infine, non ipotizza il superamento radicale del “quadro istituzionale” proprio di un sistema economico funzionante sulla base di meccanismi decisionali decentrati (o di mercato). Questi meccanismi, nella prospettiva di Daly, sono però assunti operanti in presenza di “vincoli” condivisi, che consentano alle decisioni decentrate di indirizzare il sistema economico verso il perseguimento degli obiettivi di un sistema economico funzionante in regime di stato stazionario, espresso in termini di sostenibilità ambientale.
Le “buone pratiche esistenziali” proposte da Latouche, in alternativa alla logica di funzionamento del sistema economico in regime di stato stazionario à la Daly, assumono la possibilità di perseguire la sostenibilità dell’impatto ambientale del funzionamento del sistema economico attraverso comportamenti collettivi “virtuosi”, consistenti prevalentemente in “misure tampone”, che non è detto possano essere sufficienti a modificare le modalità di funzionamento dei sistemi capitalistici contemporanei. Inoltre, le “buone pratiche esistenziali” latouchiane non affrontano in termini certi il problema della dinamica demografica, limitandosi normalmente ad affermare solo l’opportunità di un controllo demografico ed evitando di indicare attraverso quali procedure o “meccanismi” realizzare il controllo.
Il solo rilievo che può essere fatto valere riguardo alla prospettiva della sostenibilità forte di Daly concerne il fatto che nulla o poco è detto sulla necessità che essa, perché diventi realmente operante, sia accolta a livello planetario. Certo, finché la proposta di Daly non sarà accolta da tutti gli Stati del mondo, si continuerà ad assistere alla stipulazione di accordi internazionali circa la natura dei provvedimento-tampone da adottare per limitare il degrado ambientale causato dalla continua crescita economica e demografica di tutte le economie del mondo.
Al momento presente, ciò di cui si può avere certezza è che è sempre più vicino il momento in cui, a livello internazionale, le discussioni sui provvedimenti-tampone dovranno essere necessariamente sostituite da quelle concernenti le procedure da adottare per realizzare, a livello planetario, condizioni organizzative e comportamentali realmente compatibili con il funzionamento di sistemi economici che siano sostenibili sul piano ecologico, nel rispetto dei vincoli della salvaguardia del capitale complessivamente disponibile, a meno degli investimenti netti necessari per la sua conservazione e reintegrazione.
In proposito, può essere di conforto il fatto che, malgrado la sua natura di essere fortemente plasmato dall’”auri sacra fames”, l’uomo sia anche un essere dotato di ragione, in virtù della quale saprà accantonare le sue propensioni attuali per accettare la necessità di soddisfare lo stato di bisogno, universalmente avvertito, di porre fine alla distruzione irreversibile dell’ambiente. Perché ciò avvenga, però, è necessario che il “danno ambientale” diventi ostacolo alla propensione umana a soddisfare in esclusiva la tendenza ad accumulare ricchezza senza fine.
Al riguardo, può considerarsi emblematico quanto Bertrand Russel racconta a proposito della realizzazione dell’impianto fognario nella città di Londra alla fine della prima metà del XIX secolo: i londinesi non avevano voluto sentire ragione di costruire, a valere sull’intera comunità nazionale, l’impianto fognario cittadino, sino a che la minaccia pestilenziale è giunta a sfiorare le mura del Parlamento dove sedevano in maggioranza coloro che si opponevano alla realizzazione dell’impianto di drenaggio delle “acque nere”. Per sottrarsi alla minaccia di fastidi personali incombenti, quando le “acque nere” hanno incominciato a lambire le mura del Parlamento, gli oppositori si sono affrettati precipitosamente, sulla base di un comportamento collaborativo e condiviso, pur in presenza di interessi individuali concorrenti, ad adottare la decisione relativa al finanziamento degli investimenti occorrenti. Ci si può solo augurare, che la sostenibilità del nostro modo di vivere non debba sfiorare questa “linea rossa” di non ritorno, perché si decida di cambiarlo nell’interesse di tutti gli uomini, di quelli presenti e di quelli futuri.

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