L’errore di dimenticare la storia dei fatti e delle idee riguardanti l’economia

30 Giugno 2019
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Gianfranco Sabattini

L’esperienza vissuta dall’Italia dopo la Grande Depressione è servita a “sfatare” il convincimento che, per affrontare e lenire gli esiti della crisi, lo studio della storia economica e quello dell’analisi teorica dell’economia non siano di aiuto. E’ stato un convincimento nato dalla “rivoluzione delle aspettative razionali”, compiutasi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso. La principale conseguenza di questa rivoluzione, rispetto alla teoria neoclassica prekeynesiana, è stata, secondo Francesco Saraceno, il ricupero della “vecchia idea” secondo cui gli shock di domanda sono privi di effetti sul funzionamento del sistema economico.
Saraceno, docente di Macroeconomia internazionale ed europea presso l’Istituto di studi politici di Parigi (SciencesPO) e autore di “La scienza inutile”, sostiene che, con il ritorno alla vecchia macroeconomia prekeynesiana realizzata, a seguito della rivoluzione delle aspettative razionali, le fasi del ciclo economico, o meglio le fluttuazioni del PIL “risultano dalla reazione di individui razionali e ottimizzanti agli shock dal lato dell’offerta”. Smentita sul piano empirico, nel corso degli anni Ottanta, questa rivoluzione è stata in parte corretta con l’introduzione di “elementi keynesiani”, accompagnati dall’assunto che le deviazioni del PIL dal suo punto di equilibrio naturale siano determinate dalle imperfezioni del mercato, argomentando che la loro influenza “può spiegare i profili di crescita del PIL e della disoccupazione”. Questa “messa a punto” della macroeconomia nata con la rivoluzione dell’aspettative razionali ha dato luogo, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, a un “Nuovo Consenso” basato sulla “sintesi tra un breve periodo con proprietà keynesiane e un lungo termine in cui i fattori legati all’offerta sono dominanti”.
Il Nuovo Consenso ha così arricchito il pensiero economico dominante a disposizione delle istituzioni internazionali di strumenti analitici (modelli generali di equilibrio dinamico stocastico) che hanno integrato nella struttura del ciclo economico “un certo numero di rigidità nominali e di imperfezioni”, espresse, nella maggior parte dei casi, da “rigidità di prezzi e di salari”, o dalla presenza nel mercato di “un certo numero di agenti che non possono (o non vogliono) massimizzare la loro utilità intertemporale”, perché non motivati a distribuire in modo ottimale il loro consumo tra i diversi periodi della loro vita. Si trattava di rigidità che causavano “l’apparizione d’insufficienze significative di domanda aggregata e dunque di caratteristiche tipicamente keynesiane” limitate, in ogni caso, al breve periodo. In sostanza, il Nuovo Consenso ha “fatto proprio – afferma Saraceno – il rigetto degli eccessi sostenuti e persistenti del risparmio di piena occupazione sull’investimento, che erano invece il centro della “teoria generale” di Keynes”.
L’incapacità del Nuovo Consenso di tener conto delle deficienze persistenti nella domanda aggregata (originate dagli eccessi del risparmio di piena occupazione sull’investimento) è stata, secondo Saraceno, il suo tallone d’Achille. Ciononostante, nel corso degli anni Novanta, il “nocciolo duro” del Nuovo Consenso, alla vigilia del sostenuto processo di globalizzazione delle economie nazionali, ha costituito la base del “Washington Consensus”, delineante una politica economica precedentemente definita dal Nuovo Consenso. I principi sui quali il Washington Consensus è stato, a sua volta, formulato possono essere enucleati intorno a tre grandi “pilastri”: il primo prescrive che la ricerca della stabilità macroeconomica debba essere perseguita attraverso l’equilibrio dei conti pubblici e la stabilità dei prezzi; il secondo indica che le riforme strutturali debbano essere finalizzate ad accrescere la concorrenza, la competitività e l’apertura al commercio estero; il terzo stabilisce che una cura particolare debba essere riservata “all’evoluzione ‘naturale’ a lungo termine del sistema economico”, dipendente solo da fattori collocati dal lato dell’offerta.
Conformemente ai tre “pilastri” del Washington Consensus, le regole per la gestione delle crisi finanziarie sono state formulate sulla base di programmi di “aggiustamento strutturale”, la cui applicazione condizionava l’”assistenza” accordata ai Paesi in difficoltà, costretti a subire gli esiti dell’”applicazione di vari programmi di austerità, di liberalizzazione e di deregolamentazione”. E’ difficile non riconoscere nei “pilastri” del Washington Consensus la “dottrina di Berlino”, prevalsa a livello europeo dopo lo scoppio della Grande Recessione del 2007-2008.
Le politiche economiche proposte ai Paesi maggiormente colpiti dalla Grande Recessione dai sostenitori della “dottrina di Berlino” hanno fatto costante riferimento, all’interno dell’area valutaria dell’euro, alla necessità che fossero attuati interventi conformi al quadro sopra esposto. I Paesi (fra i quali l’Italia) che avessero fatto diligentemente i “loro compiti a casa” e avessero riformato la loro struttura economica per renderla più competitiva sul piano internazionale, avrebbero potuto ridurre il debito sia pubblico che privato, inserendosi così in una prospettiva di rilancio della loro crescita. Si è trattato di una dottrina, quella di Berlino, che è stata costantemente riproposta nel dibattito ancora in corso sulla riforma della governance dell’eurozona.
A livello europeo, l’insuccesso delle politiche economiche ispirate ai “pilastri” del Washington Consensus è valso – secondo Saraceno – a “sparigliare le carte”, nel senso che gli economisti meno dogmatici hanno messo in questione la logica sottesa dai tre “pilastri”; logica implicante che “i mercati, se sufficientemente liberalizzati, sono capaci di assorbire gli shock [che allontanano il funzionamento del sistema economico dal suo punto di equilibrio naturale] in un tempo ragionevolmente breve, senza la necessità dell’intervento pubblico”.
E’ significativo che a ridimensionare la validità dei “pilastri” del Washington Consensus – osserva Saraceno - abbiano contribuito le istituzioni internazionali (quale, ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale) incaricate di fornire servizi di consulenza economica ai governi dei Paesi in crisi; tali istituzioni, che per anni erano state considerate i guardiani della logica del “Consenso”, di fronte al fallimento delle politiche di austerità, hanno cominciato a mettere in evidenza quanto fosse dannoso un “approccio dogmatico” riguardo al ruolo della politica macroeconomica e della regolamentazione nella gestione delle fasi negative del ciclo economico.
Le politiche di austerità attuate dai Paesi dell’eurozona in crisi erano fondate sulla convinzione che il moltiplicatore fiscale (o moltiplicatore keynesiano, espresso dal rapporto tra la variazione del PIL e quella della spesa pubblica che la determina) fosse di dimensioni limitate, e quindi che l’impatto del deficit dello Stato sul livello di attività del sistema economico fosse trascurabile. Le cose, però, non sono andate come previsto dai sostenitori della “dottrina di Berlino”; ciò, perché la politica restrittiva della spesa pubblica “ha rallentato – afferma Saraceno – la ripresa in tutte le maggiori economie, e ha sprofondato la zona euro in particolare in una doppia recessione da cui non si è ancora del tutto ripresa”. Ciò è valso a spingere la ricerca economica a riesaminare uno dei “pilastri” del “Consenso”, quello implicante il “rigetto della politica fiscale [o, in generale, dell’intervento pubblico dello Stato nell’economia] come strumento di stabilizzazione”.
Il rigetto della “politica fiscale” da parte del Washington Consensus ha inevitabilmente comportato che la misura del debito pubblico fosse, non solo portata sotto controllo, ma anche che la sua incidenza sul PIL fosse ridotta; ciò perché, si sosteneva, un indebitamento eccessivo da parte dello Stato determina un aumento dei tassi d’interesse, l’inefficienza dell’economia e lo piazzamento degli investimenti privati dagli impieghi più profittevoli; questo tipo di argomentazione è servito, dopo la Grande Recessione del 2007-2008, a sostenere che gli alti livelli di debito pubblico costituivano il principale problema da risolvere, per stabilizzare la ripresa dell’economia mondiale. Il perdurare della crisi è valso, però, a motivare la ricerca economica ad indagare sulla possibilità che le economie avanzate non tornassero più - afferma Saraceno – “a sperimentare livelli di crescita pari a quelli che avevano [sperimentato] nella seconda metà del Ventesimo secolo”.
Per esprimere questa possibilità, Larry Summers, economista statunitense di Harvard e studioso di macroeconomia keynesiana, ha utilizzato la vecchia espressione “stagnazione secolare”, per indicare la condizione di un economia che, dopo aver subito gli effetti devastanti di una grande crisi innescata da un caduta della domanda aggregata, stenta a “ritrovare il proprio dinamismo”. Summers, facendo propri gli esiti della ricerca  di altri studiosi (secondo i quali gli shock dal lato dell’offerta di lungo periodo avrebbero avuto un impatto sempre più debole sui ritmi di crescita dell’economia) ha focalizzato la propria attenzione sul versante della domanda, evidenziando che anche gli shock di breve periodo avrebbero contribuito a rendere irreversibile la tendenza secolare alla stagnazione.
Summers ha infatti sostenuto che la diminuita spinta dinamica sia riconducibile agli shock di lungo periodo collocati dal lato dell’offerta (dovuti, ad esempio, alla minor spinta alla crescita prodotta dal progresso tecnico, al rallentamento dell’aumento della popolazione, alla minor propensione all’indebitamento da parte delle imprese, a causa della crisi, e ad altro ancora); tali fattori sarebbero responsabili del calo strutturale dei livelli d’investimento.
In conseguenza di ciò, non sarebbe stato possibile, con un approccio macroeconomico di tipo neoclassico, realizzare il livellamento di alti livelli di risparmio e di bassi livelli d’investimento, attraverso una diminuzione del tasso d’interesse (già di per sé vicino allo zero, per l’alta disponibilità di risorse finanziarie); un processo, questo, che avrebbe depresso nel tempo e in modo persistente la domanda aggregata. Inoltre, l’economista di Harvard, sulla base di queste considerazioni, ha aggiunto che la maggior parte dei fattori che deprimono il tasso d’interesse non sono ciclici o temporanei, ma strutturali, per cui l’eccedenza del risparmio sugli investimenti sarebbe durata oltre che nel breve-medio periodo, anche in quello lungo.
La conclusione, nota Saraceno, non è particolarmente rassicurante per i sostenitori delle politiche economiche ispirate dal Washington Consensus (o, limitatamente all’Europa, dalla “dottrina di Berlino”), giacché i responsabili politici del governo dell’economia mondiale o di quella dell’Unione Europea, se non decideranno di “rivedere” le regole alle quali sinora si sono attenuti, si troveranno a dover prendere le loro decisioni conformi a due opposte opzioni: accettare – afferma Saraceno – “un eccesso di risparmio persistente, e quindi una cronica carenza di domanda e bassa crescita”, oppure contrastare “la stagnazione secolare alimentando artificialmente i consumi e la domanda […], al prezzo di un incremento dell’instabilità sistemica e del rischio di crsi finanziarie violente, come quella che abbiamo subito recentemente”.
In conclusione, a parere di Saraceno, l’ipotesi di una tendenza alla stagnazione secolare dell’economia è valsa ad aprire un fecondo dibattito sul ruolo che può svolgere lo Stato nel “garantire una crescita stabile a breve termine e sostenuta nel lungo periodo”. Si tratta di un dibattito che si sta sviluppando nell’alveo della “concezione keynesiana della politica economica”, intesa quest’ultima non come puro e semplice interventismo pubblico di breve periodo, per fronteggiare le fasi negative del ciclo economico, ma come interazione positiva tra Stato e mercati, per porre rimedio alle loro intrinseche imperfezioni e promuovere la stabilità e la crescita del sistema economico. E’ all’incrocio dell’interazione tra lo Stato e i mercati che deve fare riferimento l’attuazione di una politica economica volta a contrastare realmente la trappola della stagnazione secolare, nella quale potrebbe cadere l’economia globale; si tratta di una politica economica che presuppone, secondo Saraceno, un “attivismo della politica fiscale a lungo termine […] ancora ampiamente da scrivere”.
Quale che sia la nuova macroeconomia che uscirà dal dibattito in corso, dovrà essere evitata, auspica Saraceno, la formulazione di “teorie universali”, poiché una teoria economica che voglia contribuire al governo dell’economia deve poter ispirare politiche conformi al contesto sociale specifico all’interno del quale esse andranno calate, tenendo sempre nella massima considerazione le lezioni del passato; lezioni delle quali la rivoluzione delle aspettative razionali aveva illusoriamente indotto i governi a pensare si potesse fare a meno.

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