G8. Ma quale opportunità! Già dimenticati Carlo Giuliani e il massacro della Diaz?

29 Aprile 2009
3 Commenti


A.P.

Ma il G8 non è il summit più antidemocratico del mondo? Otto potenti che pretendono di decidere sulle sorti del mondo. Questo è il dato fondamentale, come è importante che ovunque si riuniscano vengano assediati da masse di uomini e donne che rivendicano democrazia, pace, diritti  e uguaglianza. E in Sardegna, invece, ci siamo ridotti a rimpiangere uno degli appuntamenti più intollerabili del mondo. Nel centrosinistra, anziché vedere il vizio di fondo di questi summit, ne lamentiamo lo spostamento per le improbabilissime ricadute sul piano dello sviluppo. Ma quali effetti positivi possono conseguire ad uno esproprio di beni ad opera delle gerarchie militari (l’Arsenale, l’Ospedale militare ecc.) sostituite ora da una ben più dura appropriazione per mano dei ricchi della terra. Da beni demaniali a disposizione di chi gioca alla guerra e talora la fa, a beni demaniali in concessione permanente a chi si riposa fra una guerra economica, una speculazione finanziaria e spesso le guerre guerreggiate  le fomenta nel mondo. Chi credete ospiterà la Marcegaglia? I cassintegrati del Sulcis? O i normali cittadini sardi e italiani? Nessuno di questi metterà piede nell’ex Arsenale neppure a fare il cameriere.
Certo, è intollerabile il modo in cui è maturata la decisione. Calata dall’alto, senza preavviso e unilaterale. Uno schiaffo all’autonomia. Ha ragione Raggio: per casi come questo lo Statuto all’art. 47 prevede addirittura che il Presidente partecipi al Consiglio dei ministri col rango di ministro. E su questo punto dovremmo aprire un confronto fermo con cappellacci e col governo centrale, senza dimenticare, peraltro, che anche la decisione di tenere il summit nel nostro Arcipelago, la destinazione dei beni demaniali dismessi e la realizzazione delle opere edilizie sono avvenute con procedure per nulla o poco partecipate. Anzi, in deroga anche alle procedure di tutela ambientale, come più volte ha contestato la UE nelle scorse settimane. E il Presidente pro tempore d’allora non solo assentì, ma se ne mostrò entusiasta. Vi siete dimenticati? Alla notizia del summit in terra sarda il primo pensiero che trasmise, eccitato, fu l’esistenza (presa dove? e da chi?) dei bandi internazionali per affidare in concessione a grandi gruppi finanziari e imprenditoriali i beni dismessi del demanio militare, da trasormare in alberghi di gran lusso (Arsenale e Ospedale militare). Fummo tra i pochi a rilevarlo nella stampa regionale, incompresi o addirittura dileggiati. Ma i nostri critici superficiali non sanno che nella materia istituzionale i precedenti sono dei boomerang micidiali, come si può ben verificare oggi. In fondo, il vulnus (la beffa di cui l’ex Presidente ha parlato ieri in Consiglio regionale) di queste ore non è che il continuum di una mortificazione permanente e condivisa dell’autonomia, a cui bisogna, invece, prestare massima cura e attenzione, senza badare alle convenienze contingenti e di parte. Ben venga dunque una reazione ampia e decisa.
E cosa rimpiangiamo del G8? L’uccisione di Carlo Giuliani o la macelleria di stampo argentino della Caserma Diaz? Perché nessuno ricorda questa che è una delle pagine più nere della Repubblica? Ma non è essere ormai del tutto succubi del berlusconismo vedere nel G8 solo positive ricadute mediatiche? Ma quale vantaggio ne ha avuto Genova? E per La Maddalena? Non è una grave mistificazione annettere  opportunità di sviluppo ad un summit, che dura qualche giorno  e di per sé è un atto d’arroganza? Non uno scippo di infrastrutture o di visibilità televisiva ma un gesto di ostilità verso la democratizzazione dei rapporti fra stati e popoli a livello mondiale. E perché dimentichiamo che la scelta de La Maddalena non è dovuta alle bellezze irripetibili dell’Arcipelago, ma al fatto che si tratta di un’isola, dove proteggere i grandi e pestare i piccoli è più facile?  
Ed allora? Torniamo alle questioni di fondo. 64 anni fà a S. Francisco si riunivano 51 capi di stati per approvare la Carta dell’ONU che, non a caso, inizia con la celebre frase “Noi popoli delle Nazioni Unite decisi a preservare le generazioni future dal flagello della guerra…”. Questo è lo spirito a cui bisogna tornare: delle cose del mondo si occupano i popoli attraverso loro rappresentanze democratiche  in organismi democratici, non una decina di potenti, separati dalla maggior parte dei popoli della terra e contro di essi. Rispetto a tutto questo discutere solo di qualche cantiere, della Sassari-Olbia (di cui peraltro abbiamo sacrosanto diritto, anche perché si tratta di fondi europei finalizzati) è  ben poca cosa. Berlusconi ancora una volta avrà buon gioco. Perché non riusciremo a capire e far capire che il G8, ovunque si tenga, è un gesto ostile verso i popoli. Per i terremotati d’Abruzzo è la più grande offesa fra quante se ne possono immaginare.

3 commenti

  • 1 Giulio Lobina
    29 Aprile 2009 - 19:46

    Carissimo Professore,
    ha notato che sul sito del PARTITO SARDO D’AZIONE è stato riportato esattamente il suo articolo? Ma i sardisti non hanno idee proprie? Oppure oramai per ritrovare un po’ di credibilità sono costretti a far proprio il pensiero d’altri perchè non si fidano più delle loro scelte? E’ giusto a parer suo cercare una “giustificazione” allo spostamento del G8 copiando il suo articolo? Loro sono alleati di una coalizione che non conosce neppure il senso dello Stato di diritto. Non mi piace il loro uso di un suo pensiero solo per dire: “vedete quanto siamo bravi?”.

  • 2 Cristian Ribichesu
    29 Aprile 2009 - 20:51

    “C’è un sacco di gente qui intorno. Una folla confusa che corre, si copre il viso, filma con le videocamere. Medici, fotografi. Ce n’è uno della Reuters, Dylan Martinez, proprio sul bordo dell’aiuola davanti alla chiesa. Scatta in continuazione: le due barriere di carabinieri che chiudono gli accessi alla piazza, gli scudi di plexiglas della polizia che avanza. Un operatore filma con la telecamera a spalla. I varchi alla piazza sono tutti chiusi, adesso. Entra una Land Rover, targa CC AE217, dentro due persone, forse tre. Sbanda. Accelera e sterza, rallenta, si ferma, fa marcia indietro, sembra che riparta. Intorno una ventina di manifestanti scappati dall’ultima carica e rimasti chiusi qui dentro, in questo cerchio piccolo senza vie d’uscita. Martinez scatta. Uno dei manifestanti ha uno zaino Invicta viola sulle spalle. Un altro un giubbotto salvagente arancione e un casco blu da moto. Uno ha una maglietta rossa e il viso scoperto, uno una canottiera bianca e un passamontagna nero. Quello col giubbotto di jeans e un cavallo ricamato sulla tela ha in mano un cartello stradale di metallo, quello a torso nudo con la tela di ragno tatuata sul braccio ha un’asse di legno chiaro. Colpiscono la camionetta, il carabiniere che guida va a sbattere contro il marciapiede, all’angolo. Non riesce più a fare manovra, la macchina è bloccata da un cassonetto d’immondizia. Due persone salgono sul tetto, cercano di sfondare i finestrini. I carabinieri, dentro, gridano. Dal finestrino il bagliore di metallo di una pistola. L’asse di legno rompe uno dei finestrini. Rumore di metallo, di vetri. Urla. Il ragazzo col giubbotto salvagente e la barba lunga di giorni si volta, raccoglie qualcosa da terra. Qualcosa di piccolo, che gli si chiude nella mano. Un sasso, forse. Guarda diritto dentro la macchina fotografica di quel tizio lì sull’aiuola: ha gli occhi neri, il naso lungo e sottile. Anche quello con la canottiera si china a prendere qualcosa da terra. Un estintore arancione. Non fa sforzo, la bombola dev’essere vuota, leggera. Solleva l’estintore all’altezza del viso, la camionetta è a meno di due metri. Un colpo di pistola, poi un altro. Fumo, rumore di metallo. Un corpo a terra, sangue. Fuga. La Land Rover riparte. Passa sul corpo, lo schiaccia a retromarcia, poi di nuovo, una seconda volta, per andare via. Dal passamontagna nero esce un fiotto di sangue che non finisce, sale in alto e ricade, continuo. Un ragazzo con la Kefiah bianca e rossa si avvicina, prende il polso di quel braccio pesante. Arriva un’infermiera, è giovane. Si china sul ragazzo, cerca di rianimarlo, gli tocca il collo. È morto, fa cenno con la testa. Si passa molte volte la mano sulla fronte come se dovesse togliere qualcosa, ma non ha nulla: rimane ferma lì, in ginocchio. Guarda vicino alla testa del ragazzo, sembra che cerchi. Magari la vita quando esce lascia una scia. La camionetta è ancora poco distante. Un cordone di poliziotti gli si chiude intorno. “Assassini”, urlano i manifestanti da fuori. Vogliono passare. “Bastardi, lo avete ammazzato voi con i sassi. L’hai ammazzato tu con il tuo sasso”, grida un carabiniere ad un ragazzo che sta, da solo, in piedi sui gradini della chiesa. Un giornalista raccoglie un bossolo da terra. Non erano sassate, erano colpi di pistola. Un fotografo, Eligio Paoni, cerca di passare. Gli uomini in blu coi caschi e le pistole lo colpiscono, cade a terra. “Lasciatelo stare”, urlano i genovesi dalle finestre delle case. Yannis Kontos, un altro fotografo vicino a lui, lo soccorre e lo trascina via. Arriva un medico di corsa, si chiama Massimo Costantini. Va verso la camionetta. C’è un carabiniere disteso dentro, ha gli occhi rovesciati all’indietro e sangue sul viso. Collasso, dice il medico. Al ragazzo con la canottiera bianca hanno tolto il passamontagna. Anche lui ha sangue sul viso, e le braccia aperte, e uno pterodattilo tatuato sulla spalla. Dalla tasca dei pantaloni di felpa gli sono cadute cinquecento lire e un accendino bianco. Dylan Martinez scatta l’ultima foto, cerca la strada per uscire di lì.”
    Concita De Gregorio, Non lavate questo sangue, Sperling e Kupfer Editori.

  • 3 andrea
    29 Aprile 2009 - 23:23

    Il mio bambino il mio
    il mio
    labbra grasse al sole
    di miele di miele

    Tumore dolce benigno
    di tua madre
    spremuto dall’afa umida
    dell’estate dell’estate

    e ora grumo di sangue orecchie
    e denti di latte..

    e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
    con la schiuma alla bocca
    cacciatori di agnelli
    a inseguire la gente come selvaggina
    finchè il sangue selvatico
    non gli ha spento la voglia
    e dopo il ferro in gola il ferro della prigione
    e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
    perchè di nostro dalla pianura al modo
    non possa più crescere albero nè spiga nè figlio

    ciao bambino mio l’eredità
    è nascosta
    in questa città
    che brucia che brucia
    nella sera che scende
    e in questa grande luce di fuoco
    per la tua piccola morte.

    Fabrizio De Andrè - Sidun.

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