Palamara e dintorni. Oggi chi affronta sereno il giudizio?

23 Giugno 2020
1 Commento


Andrea Pubusa

L’interlocuzione è ineliminabile da qualsiasi attività collettiva che si concretizzi in una decisione. Anzi sarebbe pericolosa, perché sicuramente antidemocratica e unilaterale, la scelta di persone per la formazione di organi senza una vasta consultazione e senza una seria ponderazione sui candidati reali o possibili. Non mi scandalizza, dunque, che anche i magistrati seguano questa prassi prima delle loro decisioni. Il problema non è questo, le criticità nascono quando viene travalicata la sfera di una corretta interlocuzione, quando c’è una deviazione dalla funzione. Anche in ambiente universitario le cattedre si vincono con procedure sostazialmente di cooptazione, e tuttavia questo sistema era accettabilmente virtuoso quando nell’accademia i Maestri riuscivano ad imporre nelle loro rispettive branche criteri di valutazione che venivano comunemente accettati e praticati. Al tempo del mio ordinariato, ad esempio, la concorsualità era nazionale e i candidati dovevano aver pubblicato almeno due monografie, giudicate positivmante dagli studiosi del settore, e dovevano avere una produzione di articoli e saggi pubblicati nelle migliori riviste. In una parola il candidato doveva avere dimostrato di essere un protagonista del dibattito culturale proprio del raggruppamento disciplinare di appartenenza. Quelle regole venivano generalmente rispettate e qualche forzatura delle grandi scuole c’era, ma era sporadica e generalmente discutibile, non scandalosa. Al solito i candidati della periferia arrivavano un po’ dopo, ma non venivano pregiudicati oltremisura.
Il salto in peggio è stato determinato dall’introduzione nella valutazione di elementi estranei, dalla preminenza assunta da interessi di gruppo, da esigenze di cordata. A quel punto l’interlocuzione assume connotati diversi, diventa trama, intrigo, artifizio per finalità estranee a quella, per così dire, di istituto. Questo travalicamento è avvenuto nell’accademia ed è avvenuto in ogni settore, anche nella magistratura. Il caso Palamara è la riprova di questo deterioramaneto. I contatti avvengono con criteri e argomenti che contraddicono l’oggetto delle scelte. Valutare fra più aspiranti quello più meritevole, più adatto ad un certo ruolo è un conto, accordarsi perché, al di là e contro le esigenze della funzione e il merito, venga nominato questo o quello, è mutuare dal metodo mafioso, che non è solo lupara o mitra, ma è prima aggiustamento delle questioni con discussioni e incontri. Il mezzo è, fino a un certo punto, l’intelocuzione, il fine è manifestamente deviato. “Il padrino” insegna. Si vuole questo personaggio in luogo di quello per favorire amici o danneggiare indagati o pilotare e aggiustare procedure.
Si invoca da tutte le parti la riforma, un intervento sull’associazionismo delle toghe e sul CSM. Certo servirà anche questo, ma ciò che occorre è una riforma intellettuale e morale, difficilissima a questo punto del degrado. Anche perché non ci può essere un settore sano in un ambiente pervasivamente infetto. E questa è la condizione del nostro paese da qualche decennio. Fu considerato un monaco d’altri tempi Enrico Berlinguer quando pose come tema centrale dell’impegno politico la “questione morale”, era il tempo dell’ascesa di Craxi e il segretario generale del PCI fu criticato anche da settori del suo partito, ma gli anni successivi e la situazione attuale si sono incaricati di provare quanto profonda fosse quella analisi e preveggente quella intuizione. In fondo anche Antonio Gramsci poneva la riforma intellettuale e morale alla base del rinnovamento della vita nazionale. I 5 Stelle oggi sono avversati da tutti sopratutto per aver risumato la questione morale.
Per ora una cosa è certa. Nelle piccole questioni la magistratura ha una accettabile terzietà, in quelle grandi, di rilievo nazionale, che il giudizio sia frutto di un esame sereno dei fatti non è altrettanto certo, anzi spesso sembra improbabile. Il malcostume, poi, produce effetti collaterali gravi: scarsa attenzione ai fatti, sbrigatività delle decisioni, mancanza di motivazione o motivazioni apparenti come forme di nascondimento dell’arroganza di chi decide.
In questo clima una cosa è certa: fermo restando che anche fra i giudici ci sono quelli di saldi principi e di rigore cristallino, nessuno oggi affronta con serenità il giudizio.

1 commento

Lascia un commento