Disuguaglianze distributive e crisi della democrazia

19 Agosto 2020
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Gianfranco Sabattini

E’ ormai un fatto accertato che nei Paesi di antica democrazia ad economia di mercato le crescenti disuguaglianze distributive del prodotto sociale procedano parallelamente con la crescente affermazione dei movimenti populisti. L’aumento del consenso a tali movimenti è stato interpretato in vario modo: a volte, come reazione alla globalizzazione; oppure come conseguenza del diffondersi di valori innovativi; oppure, ancora, come rifiuto dell’insicurezza economica causata dalla crisi del 2007/2008. Non può che sorprendere il fatto che la questione della disuguaglianza (cioè il crescente divario reddituale tra ricchi e poveri) non sia stata considerata come uno degli specifici fattori alla base del successo dei movimenti populisti.
Pier Giorgio Ardeni, docente di Economia politica e dello sviluppo presso l’Università di Bologna, col suo recente saggio “Le radici del populismo. Disuguaglianze e consenso elettorale in Italia”, intende colmare “la lacuna, andando ad esplorare le radici del populismo”. Questo fenomeno – osserva Ardeni – prende certamente piede come reazione ala globalizzazione; questa però, pur avendo concorso ad approfondire le disuguaglianze, è estranea alla loro origine, in quanto la maldistribuzione del reddito è fenomeno di più lungo periodo. La globalizzazione si è affermata tra la fine degli anni Novanta e il nuovo secolo, ma le disuguaglianze, come dimostrano numerosi studi e ricerche, ha origini più antiche.
Per convalidare la sua tesi Ardeni ha analizzato il comportamento elettorale degli italiani, andando però oltre l’analisi aggregata riferita all’intero Paese e scegliendo di scendere al livello territoriale più basso, quello comunale, per confermare, con maggior dovizia di dati, quanto il “profilo socio-demografico ed economico” dell’elettorato influisca sulle scelte di voto e permetta di cogliere il “legame profondo” che esiste tra “disuguaglianze nella distribuzione del reddito, divari territoriali e comportamenti di voto”.
Il fenomeno populista, come già le disuguaglianze distributive, non è, come si è detto, “cosa nuova”, in quanto, prescindendo dai Paesi latino-americani, nei quali dove ha avuto tratti specifici, gli ultimi cinquant’anni esso si è affermato anche in Europa, dove diversi partiti “hanno assunto connotazioni tipicamente populiste”, ottenendo un crescente consenso politico. E’ infatti accaduto che molti Paesi, in tempi diversi, abbiano assistito all’ascesa di partiti populisti che, presentandosi “come ‘anti-casta’ e ‘anti-élite’”, o sovranisti e nazionalisti, o come portatori di istanze diverse (concernenti l’ecologia, i beni comuni, la democrazia diretta, contrapposta a quella rappresentativa, gli immigrati, l’adozione della moneta unica europea e la partecipazione all’Unione Europea), hanno assunto connotati particolari sulla base di una combinazione di questioni locali e nazionali, “a volte con una flessione di sinistra, più spesso con un’inclinazione di destra”.
In ogni caso, per quanto diversi possano essere, i partiti populisti si caratterizzano per la contrapposizione irriducibile tra il “popolo” e le “élite”, che necessariamente deve essere superata per restituire al primo “voce, dignità e poteri” sottratti dalle seconde. E’ la nozione di popolo che, a parere di Ardeni, consente la caratterizzazione politica dei singoli partiti populisti; il popolo, infatti, a volte viene inteso come “demos” (ovvero come l’insieme sovrano dei cittadini che, abitando la “polis”, esprimono le istituzioni democratiche); o come “ethnos” (ovvero come popolo-nazione o insieme dei cittadini legati tra loro da vincoli di sangue, di territorio e di tradizioni); o infine come “plebe” (ovvero come moltitudine sociale ampia e maggioritaria, per lo più negativamente considerata). Queste varianti della nozione di popolo – afferma Ardeni – “apparentemente sovrapponibili e tutte caratterizzate dalla contrapposizione tra una stragrande maggioranza di persone – priva di potere e che chiede riconoscimento – e un’élite di pochi al potere, sono molto utili per distinguere i tratti politici prevalenti dei movimenti populisti che si sono affermati in questi anni”.
Nella versione di destra, il popolo è inteso come ”ethnos”, cioè come popolo-nazione, che deve essere difeso contro i flussi di immigrati, protetto dalla globalizzazione e dalle istituzioni sopranazionali (come quelle, ad esempio, dell’Unione Europea), per restituire ad esso la sovranità sottratta e per salvaguardare le sue tradizioni. A questa forma di populismo tende a contrapporsi quella secondo la quale il popolo è inteso come “demos”, qualificandosi per l’assunzione di un’opposizione radicale esistente tra il presunto carattere virtuoso del popolo e il carattere oligarchico delle élite. Caratteristica di questa forma di populismo “è la svalutazione dei meccanismi tradizionali della democrazia rappresentativa e dei suoi pilastri, i parlamenti e i partiti, a favore di una mitica democrazia ‘diretta’”. Nella versione di sinistra, invece, il popolo è inteso come “plebe”, ovvero come moltitudine, espressa dall’insieme delle classi popolari, quelle che “stanno in basso”, da mobilitare contro le classi che “stanno in alto”. Le classi popolari, un tempo “serbatoio di riferimento” dei partiti di sinistra, oggi sono divenute l’area sociale di riferimento di formazioni politiche populiste di sinistra. Tuttavia, per quanto diversi siano i partiti populisti che coprono l’”intero spettro politico”, in quanto portatori di istanze politiche differenti, essi posseggono però motivazioni comuni che ne giustificano il crescente successo elettorale. Cosa spiega – si chiede Ardeni - tale successo? Cosa spinge i populisti a mobilitarsi contro gli establishment dominanti all’interno dei Paesi democratici economicamente sviluppati?
Per rispondere al duplice interrogativo, secondo Ardeni, occorre considerare politicamente, sia l’”offerta” che la “domanda”: dal lato dell’offerta, ovvero dal punto di vista di ciò che i partiti hanno proposto per tacitare le istanze popolari, il successo dei movimenti populisti può essere colto nelle difficoltà attraversate dalla democrazia, nell’indebolimento dei partiti di sinistra, nella crisi dello Stato sociale e negli effetti delle politiche di austerità adottate per il risanamento del bilancio pubblico, soprattutto dopo la Grande Recessione del 2007/2008; mentre dal lato della domanda, il successo dei movimenti populisti può essere colto nell’insicurezza economica (originata dalla globalizzazione e dai ritmi del progresso tecnologico che hanno caratterizzato il processo di ristrutturazione delle attività produttive) e nel disagio esistenziale di larghi strati sociali al mutamento dei valori tradizionali, avvenuto con l’affermarsi del cosmopolitismo e del multiculturalimso, che hanno favorito il ricupero di valori reazionari, quali quelli identitari e nazionalisti.
Tra gli elementi determinanti il successo del populismo, sono tuttavia assenti - sostiene Ardeni – due fattori: il primo è la disuguaglianza distributiva, in crescita ormai da molto tempo; il secondo “è il vuoto di proposta conseguente al mutato orizzonte della sinistra, che aveva sempre fatto dell’uguaglianza il faro della sua azione politica”. I due fattori – continua Ardeni – sono legati tra loro; ma alla disuguaglianza economica e sociale crescente non ha corrisposto, soprattutto a sinistra, “una politica in grado di affrontarla e di dare a chi ne era più colpito una prospettiva”. Malgrado l’importanza della disuguaglianza sul piano della disaffezione della maggioranza dei cittadini verso la politica, gli studi sulle determinanti economiche del populismo l’hanno in genere trascurata o, tutt’al più, l’hanno considerata come causa del malcontento indotto dalla globalizzazione, ma non come “specifico fattore scatenante” dei movimenti populisti.
Molti studi e ricerche recenti, al contrario, mostrano come questi movimenti, in realtà, non si siano diffusi solo a causa della globalizzazione o della Grande Recessione, ma siano stati originati da “cause indipendenti, che si sono manifestate nel tempo” e con radici risalenti molto indietro nel tempo; fatto, questo, che porta a chiedersi sino a che punto il consenso populista possa essere spiegato col venir meno della proposta politica tradizionale delle sinistre. La risposta, a parere di Ardeni, ha a che fare, “tanto con la politica, quanto con l’economia (e la politica economica)”.
La mutazione politico-ideologica delle sinistre è iniziata nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, con la crisi delle economie capitalistiche avanzate, che ha determinato il rallentamento della crescita economica e l’avvio della crisi fiscale dello Stato; si è trattato di anni turbolenti (per l’abbandono degli Accordi di Bretton Woods, per la crisi petrolifera e per quella del debito dei Paesi arretrati) che hanno interrotto il “glorioso” periodo post-bellico, nel quale, grazie alle le lotte operaie sostenute dai sindacati e alle conquiste di nuovi diritti, il consenso per i partiti di sinistra era costantemente aumentato. Tutto ciò, assieme all’aumento della spesa pubblica, alla crisi economica e alla conseguente ristrutturazione dell’attività produttiva, ha creato le condizioni per la “controffensiva conservatrice”, esemplificata con le vittorie elettorali, rispettivamente, di Margareth Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti; vittorie che hanno dato inizio alla liberalizzazione dei mercati, sostenuta sul piano teorico dal monetarismo, contro le politiche keynesiane, e sul piano culturale dall’ideologia del neoliberismo.
Per i Paesi democratici ad economia di mercato, gli anni Ottanta sono stati un periodo di stagnazione, caratterizzato da aumenti della spesa corrente dello Stato e del debito pubblico, dalla perdita di consenso da parte delle organizzazioni sindacali, dalla flessione elettorale delle sinistre, nonché dalla creazione del mercato interno europeo e dalla stipula, nel 1992, del Trattato di Maastricht (che avrebbe portato, verso la fine del secolo, all’adozione dell’euro). Le forze di sinistra, incapaci di reagire alle conseguenze di tutti questi avvenimenti, hanno solo saputo ancorare la propria proposta politica “ad un insieme di principi europeisti”, fondato sulla presunzione che esso avrebbe stimolato la ripresa della crescita economica e consentito il potenziamento del welfare, con cui garantire una redistribuzione condivisa del prodotto sociale, più elevati livelli di istruzione e una maggiore offerta di sevizi sanitari.
Ma, nel caso italiano, le sinistre hanno, sia sottovalutato la globalizzazione neoliberista, sia sopravvalutato l’apporto al miglioramento delle condizioni operative del sistema economico nazionale a seguito dell’avvio, nel 2001, della moneta unica europea, ignorando del tutto che i vincoli imposti alla politica economica nazionale avrebbero reso problematiche le manovre di bilancio e devastanti gli effetti sul mercato del lavoro. Di conseguenza le disuguaglianze sono cresciute, soprattutto per le politiche di austerità seguite alla Grande Depressione e per la crisi del debito pubblico, i cui effetti sono stati “scaricati” sul corpo sociale. La risposta delle sinistre – sostiene Ardeni – è stata passiva, “supinamente schiacciata” dal credo neoliberista, che le ha indotte a confidare in una “fantomatica crescita” e a rivolgere l’attenzione unicamente alle riforme, la cui mancata attuazione ha impedito al sistema economico la necessaria flessibilità e reso impossibile affrontare i disagi sociali che si accumulavano.
Le forze di sinistra, negli anni diventate partiti a sostegno “dei diritti più che delle uguaglianze”, hanno perso il consenso dei ceti più colpiti dalla crisi; dal canto loro, i partiti populisti, anziché impegnarsi a favorire l’attuazione di politiche egualitarie, si sono erti a baluardo dei bisogni della “plebe”, “entro cornici protezionistiche, nazionaliste, identitarie”, che non hanno potuto impedire che le disuguaglianze distributive divenissero una dimensione strutturale del sistema socio-economico italiano.
Gli esiti del voto del 2018 hanno segnalato con evidenza – conclude Ardeni – un’Italia spaccata, dove allo storico divario territoriale Nord/Sud si sono aggiunte altre fratture dovute al peggioramento delle disuguaglianze, come risulta dall’analisi della distribuzione del reddito a livello micro-territoriale. Ciò dimostra che, malgrado il proliferare dei movimenti populisti, permangono le ragioni per contrastarli, in quanto portatori di proposte che non servono a risolvere alcuno dei problemi alla base del disagio sociale; un compito, questo, che dovrebbe essere svolto dalle forze di sinistra, che da sempre hanno fatto della diminuzione delle disuguglianze economiche e sociali la ragione della loro esistenza e della loro azione e il cui smarrimento concorre ad aggravare lo stato di crisi e di immobilismo in cui versa ora il Paese.

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