Carbonia. Sulla crisi descritta nella lettera del presidente ACaI. I morti di gennaio

24 Ottobre 2021
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Gianna Lai

Puntuale appuntamento domenicale con la storia di Carbonia dal 1° settembre 2019.

A quella “ricchezza, che è invece simbolo di miseria” il professor Levi aveva dato un significato ben preciso, la necessità di una svolta nella politica del settore minerario, sicché l’industrializzazione del bacino divenisse la realizzazione del “sogno notturno e diurno di chi scrive. E la crisi in atto, già messa in primo piano dallo studioso, ritroviamo ancora descritta nella denuncia del senatore Velio Spano, su Il Lavoratore del 31 gennaio 1948: di come il legname per armare le gallerie giacesse abbondante a Sant’Antioco, pronto per l’ACaI che invece non lo acquistava; di come  il carbone restasse invenduto nella banchina di Genova, essendogli stata riconosciuta una percentuale di sterile del 35%, valutata invece dalla SMCS al 17% che, su questa base, ne aveva stabilito il prezzo di vendita alle ditte continentali. A seguire Martino Giovannetti su L’Unità del 21 febbraio, “nel primo anno dalla ripresa degli scambi, son state importate 14.306.000 tonnellate di carbone [corrispondenti al fabbisogno di combustibile anteguerra in Italia, n.d.a.], contro le 860.000 prodotte in Sardegna nel 1946 e il 1.200.000 del ‘47″.
E sono anche le relazioni del prefetto ad annunciare allarmate la grave incertezza e l’instabilità del Sulcis, già  nella nota dell’Ufficio Provinciale del Commercio e dell’Industria, risalente al dicembre del 1947,  “Nel settore carboni fossili si paventa una contrazione di attività, più per i conseguenti riflessi sociali, che non per quelli economici”. Così il prefetto stesso, nella Nota di apertura sulla Situazione politica, 29 gennaio 1948: “La crisi in atto nell’industria estrattiva metallifera e nel bacino carbonifero del Sulcis incide sulla situazione  politica e sullo spirito pubblico. Ritardi nella corresponsione dei salari, parziali licenziamenti nei settori suddetti e diminuzione dell’orario di lavoro determinati, secondo i dirigenti, dalla   difficile situazione finanziaria delle imprese, per i sindacati da - una manovra capitalistica intesa a giustificare l’eventuale  cessione  delle aziende  o l’arresto della produzione -”.  Cui segue un intero paragrafo dedicato allo stesso tema: “Critica la situazione nel bacino carbonifero, difficoltà di vendita del prodotto in relazione alla disponibilità del carbone estero, preferito per ragioni tecniche, nell’impossibilità di ottenere un rendimento tale da determinare un prezzo economico, in assoluta concorrenza con quello del carbone estero”. E il questore nella relazione  del 5 gennaio, ivi contenuta, ” La crisi delle miniere del Sulcis risale all’immediato dopoguerra durante la quale lo stato  economico della miniera avrebbe potuto stabilizzarsi, creando una base finanziaria per la sua trasformazione, se le aziende avessero potuto disporre della loro produzione  e profittare della congiuntura che le rendeva uniche fornitrici di combustibile all’industria di tutta Italia”.  E poi ancora la Camera di Commercio, che pure annuncia, “Sulle 100.000 tonnellate la produzione di Sulcis, dopo la decisione del ministro che obbliga le industrie che, per il passato hanno usato il Sulcis, di continuare nell’uso di tale carbone  e di acquistare lo stesso quantitativo di Sulcis nel caso usassero carbone di importazione”. Evidentemente senza esito se, ancora a marzo,”Assillo per la crisi alimentare e degli alloggi e per la disoccupazione a Carbonia”, nella relazione del questore riferita alla situazione del mese di febbraio.
. E se la crisi  in atto è così grave, difficile che si possano introdurre forme nuove di meccanizzazione del lavoro a ridurre la fatica e garantire più sicurezza, mentre resta “altissima la percentuale di manovali e di elementi inesperti” in rapporto al numero degli operai specializzati, “l’estrazione affidata al solo martello pneumatico premuto dalla spalla dell’operaio”, come si legge ancora su L’Unione Sarda del 1 luglio 1948. Nè  le conseguenze sulla sicurezza tardano a farsi sentire, l’anno 1948 aperto dolorosamente  a gennaio con la morte di un operaio a Serbariu, travolto da una berlina, e con altri quattro morti a Seruci per lo scoppio di grisou, come denuncia L’Unità del 9 gennaio 1948. Inutile lo sciopero dei compagni di lavoro che adesso, come dopo ognuna di tali tragedie, abbandonano la miniera in segno di lutto e di protesta e si riversano nei piazzali, chiedendo commissioni di inchiesta; inutile l’intervento del sindacato e  delle commissioni interne. La fabbrica di Stato sembra immune da responsabilità, se di questi morti e gravi incidenti non si trova traccia neppure nelle relazioni del prefetto al ministro dell’Interno: Carbonia, pur così  centrale nell’informativa mensile e sempre molto dettagliate le note sulla miniera, come abbiamo appena visto.
Del resto, fin dal  2 gennaio, con l’articolo “Cupidigia di servilismo alla Carbosarda”, L’Unità aveva riferito di come fossero  gravi le responsabilità della SMCS di fronte alla crisi del bacino e alla scarsa sicurezza delle gallerie, “Consegnare le miniere allo straniero, ecco ciò che vogliono  i dirigenti della società. Poichè non è più possibile smerciare il prodotto e poiché l’importazione gratis di carbone assorbe le richieste del mercato, mentre le precedenti analisi stabilivano nel 10% la percentuale di ceneri, ora esse sono salite al 30%.  Il carbone è effettivamente peggiorato in quanto le griglie,  i crivelli della laveria sono stati allargati per ordine della direzione tecnica SMCS, così come si procede allo sfruttamento di tutti i banchi, anche di quelli fortemente interrati e comunque scarsamente commerciabili. Vergognoso sabotaggio, il carbone sosta in stock a Sant’Antioco, 77.000 tonnellate, e a  Genova, 120.000 tonnellate,  e viene  ceduto a 3.600 lire la tonnellata, senza trovare mercato, mentre i privati del Nord son costretti, per il riscaldamento, a usare legna da ardere al prezzo di lire 1.500 il quintale”. E sabato 3 gennaio, “Subito dopo la partenza degli alleati, il carbone venduto a prezzo politico ha provocato un grave deficit per l’azienda, colmato con ampie sovvenzioni statali….”.  Ora, a causa della scarsa qualità del combustibile accumulato a Sant’Antioco, “i piroscafi preferiscono attendere l’arrivo delle bigonce cariche di materiale di nuova estrazione,  che caricare lo stock giacente  commisto a pietre e detriti”, mentre “la produzione,  dalle 120.000 tonnellate di settembre 1947, è scesa  alle 107.000 di novembre e alle 100.000 circa di dicembre”.  A trarre grande vantaggio in Sardegna, da questo sfruttamento disordinato e costoso della miniera, come denuncia L’Unità del 9 gennaio 1948, ancora la SES, Società Elettrica Sarda, “cui il carbone viene ceduto a prezzi irrisori, forte dei suoi utili che superano i 300.000.000 di lire, una parte degli impianti costruiti  coi soldi dell’IMI e dell’ICIPU,  Istituto finanziario dello Stato”.
Riprende il discorso Velio Spano, in occasione del VI Congresso del Partito Comunista, L’Unità del 13 gennaio 1948 titola, con un passaggio del suo intervento: “Il sabotaggio delle miniere, connivente il governo”.

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