Umberto Cardia: l’ultimo protagonista nella linea federalista sarda fra Gramsci, Lussu e Laconi

13 Febbraio 2023
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Andrea Pubusay

E’ uscito in libreria un volume che, nel centenario dalla nascita, ricorda il pensiero e l’opera di Umberto Cardia, e offre lo spunto per una più approfondita riflessione su questo protagonista della storia sarda del secondo Novecento.
Se volessimo in estrema sintesi dire chi è Umberto Cardia, possiamo senza esitazione affermare che egli è l’ultimo e più autorevole esponente della linea federalista sarda che da Angioy si sviluppa nel pensiero di Asproni, G.B. Tuveri e poi, più vicino a noi, in Gramsci e Lussu. Come non cogliere nella sua visione del popolo sardo distinto dal resto del popolo italiano l’eco delle parole di Asproni, che si sente cittadino di due patrie, quella sarda e quella italiana. “Questa prima e massima idea, che ora stringe ora allarga il nostro cuore, e di notte ci occupa, è la causa dell’Italia universa. Ma accanto ad essa (confessiamo pure la nostra debolezza) siede la seconda che riguarda quell’Isola che si gloria di essere stata sempre unita ai destini della sua grande Madre, la Sardegna nostra patria dilettissima“. Due idee fisse nella mente dell’Asproni, tant’é che il passaggio del “pensiero dall’una all’altra è così rapido” da poterle considerare “gemelle” e “sempre unite“. E come non scorgere nel pensiero di Cardia quella incessante e appassionata critica di Tuveri al centralismo quale risultato di un’analisi spietata della condizione culturale ed economica dei sardi, incapaci di manifestare una volontà collettiva, di immettersi in modo decisivo nel moto storico. Parte realisticamante dai comuni, il filosofo di Collinas, ma pensa anche alle comunità più grandi e popolose. “Chi vuole discentrare davvero - dice in polemica col decentramento fittizio di Depretis e di Minghetti - deve partire dal principio che, generalmente parlando, nessuno provvede meglio ai propri affari, quanto chi è interessato: quindi libertà di comuni, libertà di provincie, libertà regionale finché queste libertà non siano in opposizione con diritti più rilevanti“.
Questa visione pienamente democratica, dove libertà individuali e collettive si fondono, come espressione di una sovranità condivisa, è fortemente anticipatrice e inconciliabile col contesto ordinamentale in cui vive il pensatore di Collinas. E questo consente non solo di contestare la critica di scarsa scientificità del pensiero tuveriano (Solari), ma anche il suo preteso estremismo (Orrù).
Come si è detto, i principali interlocutori di Cardia sono Gramsci, Lussu e Laconi. Da quest’ultimo prende la passione per lo studio della storia sarda, da Gramsci prende tutto, pensiero, metodo, categorie, e da Lussu la fermezza nella battaglia federalista, del resto condotta in sintonia  con Gramsci.
Secondo Cardia, l’originalità di Gramsci sta nel fatto, che egli coniuga libertà e uguaglianza; in conseguenza, egli lega indissolubilmente il classismo in senso economico-sociale all’autonomia individuale e territoriale, dei singoli e delle comunità, “nei suoi diversi livelli nazionale, seminazionale, etnico o anche in quello che […], in più di un passaggio, identifica coi problemi particolari delle regioni“. E fu questa impostazione a  suscitare “l’ammirata devozione di Piero Gobetti” (U. Cardia).
Lussu ha colto ed apprezzato l’ispirazione federalista di Gramsci, che, alla guida del PCD’I, pose nel programma la costruzione di una Federazione delle Repubbliche socialiste e soviettiste d’Italia, ma non lo convinceva la sua articolazione. La repubblica del Nord, la repubblica del Sud, la repubblica del Centro, la repubblica siciliana e la repubblica sarda, come proposto da Gramsci, gli parevano non rispondenti alla reale formazione delle comunità, quali si erano venute storicamente sviluppando dopo la caduta dell’impero romano. Non contestava ovviamente la posizione riservata alla Sicilia e alla Sardegna, già antichi regni, ma la divisione del resto d’Italia in tre entità Nord, Centro e Sud. Lui, Lussu, propendeva per un federalismo su base regionale. Le macroregioni gli parevano costruzioni artificiose e altrettanto innaturali gli sembravano le province. Solo “la regione è in Italia una entità morale, etnica, linguistica e sociale, adatta a diventare unità politica“.
Una situazione più marcata hanno, da questo punto di vista, le due isole maggiori, la Sicilia e la Sardegna, “in cui il mare risolve da sé ogni possibilità di contestazioni“. Regioni dunque a base dello Stato federale, da trasformare in tante repubbliche, perché queste sono dotate di statualità e sono titolari di sovranità, mentre le circoscrizioni territoriali per quanto estese evocano l’esistenza di un’entità superiore, lo Stato, da cui derivano le loro potestà. Una questione di sovranità, quindi per Lussu, la preferenza di un sistema federale rispetto a quello regionale. Parlando di “federazione” si ribalta la posizione Stato/Regione, si propendeva per “uno stato federale centrale a sovranità limitata, che è il risultato dell’unione di altri stati locali, sovrani anch’essi, ma in forma minore”. Del resto, questa questione era già stata trattata da Bellieni, nella relazione al secondo congresso sardista del 1922, con la rappresentazione di uno stato centrale non onnipotente, perché non creatore degli enti locali, ma semmai formato da essi; il federalismo appare così come un sistema di enti in equilibrio di poteri e attribuzioni, senza che nessuno possa prevalere sugli altri.
Si consolidava e si attualizzava la tradizione robusta e risalente, quella federalista sarda, una vera e propria linea sarda al federalismo entro quella italiana (U. Cardia), che tuttavia non riuscì a far breccia in Assemblea Costituente e nella Consulta regionale sarda.
Anche la questione meridionale può trovare soluzione in un’articolazione autonomistica, decentrata, nel principio federale, strumento quindi “non di disgregazione e di frammentazione particolaristica, ma di una superiore unità dello Stato” (U. Cardia). Anzi è proprio la questione contadina a stimolare in Gramsci sia la riflessione sul Meridione sia la soluzione federalista nella costruzione del nuovo Stato democratico. Non a caso nel Programma d’azione del IV Congresso di Colonia nell’aprile del 1931 viene ripreso, al titolo IV, l’appello di sei anni prima del Krestintern (l’Internazionale contadina) ai sardisti riuniti in Congresso a Macomer: “La rivoluzione  proletaria organizzerà lo Stato sulla base dei comitati di operai, contadini, di soldati e di marinai, sulla base della più ampia democrazia proletaria. Allo scopo di accelerare lo sviluppo economico, politico e culturale del Mezzogiorno, della Sicilia e della Sardegna e di soddisfare le aspirazioni delle masse lavoratrici, la rivoluzione proletaria promuoverà una particolare organizzazione autonoma politico-amministrativa di queste regioni, sino alla costituzione di repubbliche socialiste e soviettiste del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna, nella Federazione delle Repubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia. La rivoluzione proletaria darà alle minoranze nazionali il diritto di disporre di sé stesse sino alla separazione, realizzerà questo diritto nel modo più assoluto, e libererà tutte le popolazioni coloniali dall’oppressione dell’imperialismo italiano”. Viene smontato così quell’ordinamento intimamente autoritaro e ferocemente accentrato, che origina dalla repressione del movimento angioyano e dal suo esito, la Fusione perfetta, preso a modello delle successive annessioni dall’alto.
Gramsci nei Quaderni mette in luce la funzione del Piemonte nel Risorgimento assimilandolo ad una sorta di partito con l’aspirazione  a “dominare“,  non a “dirigere“. I piemontesi “volevano  - dice - che dominassero i loro interessi non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso o condizionamento [cioè sovrana - ndr],  divenisse l’arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte e quindi la […] monarchia. Il Piemonte ebbe pertanto una funzione che può, per certi aspetti, essere paragonata a quella del partito, cioè del personale dirigente di un gruppo sociale (e si parlò sempre infatti di “partito piemontese”); con la determinazione che si trattava di uno Stato, con un esercito, una diplomazia, ecc.“.
Anche sulla questione meridionale la saldatura con Lussu è agevole, avendo il Capitano posto a base del suo movimento i contadini i pastori e gli operai che egli aveva visto fare grandi cose nell’Altopiano.
Ma Lussu offre a Cardia un’altro spunto, che diviene centrale nella riflessione di quest’utimo.  Lussu,  come abbiamo detto, propendeva per un federalismo su base regionale. Le macroregioni gli parevano costruzioni artificiose e altrettanto innaturali gli sembravano le province. Solo “la regione è in Italia una entità morale, etnica, linguistica e sociale, adatta a diventare unità politica“. Della vivacità di queste entità è prova l’organizzazione dell’esercito, che Lussu ben conosceva, da gran capitano quale fu. Ebbene, proprio per il maggior rendimento in guerra si è decisivo il reclutamento regionale. Una vera rivoluzione - osserva l’uomo di Armungia - nella tradizione delle forze armate, che ha dato buoni frutti. Ci sono poi le peculiarità economiche che producono una vita sociale distinta.
Ecco nell’essere la regione “una entità morale, etnica, linguistica e sociale, adatta a diventare unità politica“, troviamo - mi pare - la base del carattere etno-storico e culturale della comunita’ e della regione sarda, che è un punto centrale e fisso della riflessione di Umberto Cardia, troviamo qui quel popolo distinto, di cui Cardia ci parla ininterrottamente.
Cardia porta agli estremi limiti il suo federalismo: la Sardegna deve avere un’autonomia massima compatibilmente con l’unità dell’ordinamento, la sua autonomia dev’essere integrale. Quale contatto può rimanere con Laconi, che federalisa non era, sulla scia di Togliatti e Laconi - com’è noto - fu sostanzialmente in Assemblea costituente il portavoce del PCI e del suo segretario generale. La posizione di Laconi è dunque quella elaborata dal gruppo comunista nelle Osservazioni ed emendamenti al progetto di Costituzione della Repubblica italiana, che così sono state sintetizzate:
Difendere l’unità e la coesione dell’organizzazione statale minacciata del sistema delle autonomie regionali e dell’eccessivo frazionamento dei poteri e delle attribuzioni; affermare il principio elettivo universale e diretto per il Parlamento e per le istanze democratiche (Regioni e Comuni); porre il Parlamento a base dell’ordinamento dello Stato come fonte ed organo di controllo dei diversi poteri e organi e come regolatore dei loro eventuali conflitti; ammettere l’iniziativa popolare e riservare agli organi di diretta investitura popolare (Parlamento, Regioni, Comuni) il ricorso al popolo“.
La posizione del PCI non era - come ebbe a precisare anche Laconi - di tipo ideologico, non riposava sulla tradizione federalista risorgimentale (Cattaneo, Ferrari, Tuveri, Asproni) come nei repubblicani o sulla elaborazione sturziana, come nella DC, risalente a Gioberti e Rosmini, ma si attagliava alla situazione politica contingente.  A fronte di queste posizioni, che rinnovavano “l’antico conflitto fra le maggiori correnti del Risorgimento nazionale - spiegherà più tardi Laconi - la posizione delle nuove forze popolari fu chiara e netta. In primo luogo noi respingemmo l’impostazione ideologica e declinammo ogni posizione di principio”.  Infatti, “i modi e le forme di organizzazione dello Stato possono variare a seconda della situazione obiettiva“. Questa convinzione spiega l’abbandono del federalismo di Gramsci e la ferma avversione al federalismo di qualsiasi specie. L’idea di fondo era che, durando i governi di unità nazionale, si poteva imprimere al paese una forte spinta riformatrice dal centro e, in questo contesto, le Regioni, sopratutto quelle meridionali, apparivano come un intralcio: “la divisione dell’Italia in 18 o 20 Regioni, dotate di poteri legislativi pressocché esclusivi in un complesso di materie, che comprendeva interamente l’economia del paese e i rapporti di lavoro, non solo avrebbe indebolito l’unità e la forza dello Stato, ma avrebbe fiaccato lo sforzo per la conquista democratica del potere“. Nelle Regioni “erano poste tutte le condizioni per ritardare lo slancio delle masse popolari” verso le riforme, e verso la conquista del potere.
Sembra far capolino, dunque, la vecchia idea giacobina, anche se temperata dall’azione di massa. Del resto, negli appunti contenuti fra le Carte Laconi sono riscontrabili diversi richiami non alla tradizione democratico-federalista sarda, assorbita - come si è visto - anche da Gramsci, ma al saggio “Stato e Rivoluzione” di Lenin, i cui principi hanno ispirato il costituente sardo nella soluzione delle questioni riguardanti l’istituzione delle Regioni in Italia. Le annotazioni di Laconi riguardano il passo in cui Lenin richiama gli scritti di Marx sulla necessità di contrapporre  il “centralismo proletario cosciente, democratico, al centralismo borghese, militare, burocratico”, nonché il passo in cui Engels, sviluppando la concezione marxista dello Stato, sosteneva che “il centralismo non esclude affatto una larga autonomia amministrativa locale, la quale, dato che i comuni e le regioni mantengono volontarimente l’unità dello Stato, sopprime precisamente ogni burocrazia e ogni comando dall’alto” (Atripaldi).
Questa visione pragmatica spiega la ostilità originaria all’attribuzione della potestà legislativa alle regioni ordinarie, ma anche l’apertura al regionalismo quando apparve chiaro che non ci sarebbero stati, dopo la rottura di De Gasperi nel 1947, più governi di unità nazionale. Laconi si trovò così - con tutto il PCI - a passare da una posizione antiregionalista, o che vedeva nelle regioni ordinarie solo enti con funzioni amministrative, a una proposta tiepidamente regionalista, che riconosceva alle regioni una potestà legislativa integrativa o attuativa delle leggi statali. Solo alle regioni speciali veniva riconosciuta una meno restrittiva potestà legislativa (Atripaldi). Insomma, nella impostazione originaria, il gruppo comunista vedeva nelle Regioni degli enti meramente amministrativi, si voleva riformare l’amministrazione statale, decentrando gran parte delle funzioni nei territori, mentre il potere di decisione politica rimaneva saldamente accentrato nello Stato.
Lussu invece fu forse il più convinto federalista in assemblea costituente dove portava l’esperienza del movimento combattentista e del primo Psd’az e, risalendo, il federalismo risorgimentale e, ancor prima, quello sardo di Tuveri e Asproni e, prima ancora, di Giommaria Angioy.
Per Lussu - come si è visto - il federalismo non era una soluzione organizzativa dell’ordinamento legata alla utilità contingente, per lui era anzitutto un sentimento, maturato nelle trincee dell’Altopiano, rispondente al bisogno di democrazia delle masse popolari. In questo modo Lussu portò in Assemblea costituente un sentimento, prima ancora che la proposta di autogoverno, che fu già di Angioy, Tuveri, Asproni e Gramsci. Ed anche sul sentimento autonomistico dei sardi di cui parlava sempre Lussu, detto per inciso, troviamo un tema caro  a Cardia e riccorrente nei suoi scritti.
Cardia da Laconi non può mutuare il federalismo, da lui  prende la passione per la storia sarda nella sua ansiosa ricerca di testimoniaze della continua lotta dei sardi per l’autonomia, dai giudicati al movimento antifeudale di fine ‘700, ai federalisti sardi dell’800 al movimento combattentistico, sardista e socialista. E forse parla di autonomismo integrale o massimo compatibilmente con l’unità dell’ordinamento per non manifestare un dissenso di fondo con Laconi e col PCI. Per non esplcitare il suo lussianesimo, da cui peraltro lo dividevano alcune non secondarie questioni. Ad esempio la nazione mancata, perché - diceva - anche una nazione perdente ha pur sempre una storia di lotta, ancorché non vincente. E se certo, Cardia con Laconi hanno ragione nel sottolineare l’esistenza di una storia, contro l’impostazione di Lussu che vede nei giudicati non entità di autogoverno dei sardi  (“non sono un prodotto delle nostre viscere!”) e nel movimento antifeudale di Angioy una fiammata, è anche vero che forse quella storia (salvo il movimento antifeudale) è più la storia di chi in Sardegna ha dominato, che la storia dei sardi.
La passione di Cardia sembra in qualche caso portarlo a giudizi discutibili. Ad esempio, egli vede nelle 5 domande al re del 1794 una Carta dell’autonomia della Sardegna, ma non spiega come mai il sovrano la accoglie, mentre Angioy viene bandito e su di lui e il suo  movimento si abbatte una repressione sanguinaria di carattere terroristico. Se era la Carta dell’autonomie del Regnum nel 1794, come mai due anni dopo, nel giugno 1796, è la base dell’accordo con le forze reazionarie, feudali e filofeudali? E quale rilevanza dare all’Achille della sarda rivoluzione, diffuso nella primavera del 1796 mentre l’Alternos marciava trionfalmente  verso Sassari? Non era questo il Manifesto dell’autonomia sarda, come in esso si legge espressamente, facendo un salto rispetto anche al “Procurade e moderare” del Mannu?
Ma qui ci fermiamo, sarebbero tante le questioni da trattare. Cardia merita una riflessione e uno studio come quelli dedicati ad Asproni, Tuveri e Laconi, perché lui è di quella levatura e come loro lancia ai sardi e non solo un messaggio alto di impegno e di lotta sempre dalla parte della classe lavoratrice e per la riforma democratica delle istituzioni.

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