Carbonia. Costi di produzione del carbone più alti del prezzo di vendita alle imprese del Continente

14 Febbraio 2021
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Gianna Lai

Nuovo post domenicale sulla storia di Carbonia, dal 1° settembre 2019.

554.988 le tonnellate di carbone estratte  nel 1945, quando gli operai sono 8 mila, 1.008.412 nel 1946, 11mila gli operai occupati in miniera. E i prezzi, lire 1400 il minuto, 1500 per la pezzatura, già stabiliti nell’agosto del 1944 dalla Commissione interministeriale prezzi, onde  far fronte ai debiti e al deficit di bilancio, fino al risanamento stesso dell’azienda: l’amministratore delegato Francesco Chieffi ne chiede  il rialzo a 3.741,35 lire. A 2.200 il presidente ACaI, tenendo conto del costo di produzione, che si aggira  intorno alle 1.900 lire la tonnellata.
Così, dal 1 marzo 1946, il prezzo del carbone passa da 1.227,74 a 3.092 lire,  le perdite ancora calcolate in 764 milioni di lire per tutto il 1944-45,  i costi di produzione ancora notevolmente superiori al prezzo di vendita. L’esercizio del 1946 si chiude quindi con un disavanzo di 209.067.309 di lire che, sommato a quello degli esercizi  precedenti, raggiunge un totale di oltre 974 milioni, in parte coperto dal Tesoro con un contributo di 634.267.904 di lire. Mentre gli scioperi dei minatori americani, nel maggio del 1946, riducono ancora le assegnazioni di carbone  estero all’Italia:  al Sulcis, che quell’anno toccherà il  milione di tonnellate di carbone estratto, si aggiungeranno le  60mila tonnellate provenienti dalla Polonia,  le 123mila dalla Rhur, le 900mila fornite dall’UNRRA. E, nell’occasione la SES aumenta le tariffe, metre chiude di nuovo, e per sempre, l’impianto di distillazione a Sant’antioco, per mancanza di carburante.
E mancano i finanziamenti per l’ammodernamento della miniera, questa la ragione che mantiene  basso il grado generale di qualificazione e bassa la produzione e alti i costi. Difficile  anche introdurvi macchinari di un certo peso, come quelli americani, in gallerie che non è possibile ampliare a causa dei caratteri stessi del giacimento e della miniera. Perciò le coltivazioni mantengono ancora tutto il carattere della provvisorietà,  con una manodopera non professionalizzata, neppure nel dopoguerra, come sta avvenendo invece in tutte le altre miniere d’Europa, man mano che i cantieri meno redditizi vengono chiusi. E poi sempre la stessa incongruenza, e così ancora  negli anni  cinquanta ed oltre, mancato ammodernamento da collegare strettamente al problema del prezzo di vendita del carbone, come  in Carbosarda” di G. Are e M. Costa, da cui son presi i dati precedenti sulla produzione, “… Ballestrazzi e Piga, ricordano che - il carbone prodotto veniva accreditato alla miniera al costo di produzione, mentre poteva essere venduto ad un prezzo 5 o 6 volte maggiore. Vi fu un trasferimento di reddito di oltre 100 miliardi dal settore carbonifero a quello industriale, cifre approssimative, ma facile potrebbe essere la loro esatta valutazione-, avendo naturalmente fondamento queste affermazioni per gli anni  anteriori il 1947, dato che, immediatamente dopo, sarebbe stato ancora più difficile il mercato del carbone Sulcis nella penisola e, quindi, la sua collocazione”. Così anche Paolo Piga, ne “La questione mineraria dal dopoguerra a oggi”,  nell’immediato dopoguerra “le miniere aumentarono la produzione di carbone, che lo Stato accreditava alla Carbonifera sarda, al valore del costo di produzione, ma che veniva venduta a prezzi assai maggiori, sottraendo al settore carbonifero un utile che può essere stimato in oltre cento miliardi del 1950″. Fino alla denuncia, negli anni cinquanta, di  Pietro Melis, consigliere regionale sardista, su L’Unione sarda del 25 giugno 1952, ‘Così lo Stato vende ai privati il suo carbone’: “……col gioco sempre  fruttuoso, in Italia, delle assegnazioni, i privati speculatori si impadronivano del carbone sbarcato nei porti della penisola e lo trafficavano a borsa nera, fino a 18 mila lire la tonnellata, lucrando quelle decine di miliardi che avrebbero consentito all’Azienda carbonifera di Stato di procedere all’ammodernamento degli impianti e all’incremento della produzione”
Perchè, in effetti, i privati speculano liberamente sul combustibile sardo mentre, come dice Sergio Turone, “la scarsità di materie prime, soprattutto carbone, bloccava la ripresa produttiva, se nel 1946 l’industria italiana aveva a disposizione soltanto il 45% del carbone che le sarebbe stato necessario”. Ed intanto la crisi economica veniva affrontata dal governo, secondo lo storico Giovanni De Luna, scegliendo “di non fare ricorso a massicci interventi dello Stato (nazionalizzazioni, rigido controllo dei prezzi, tassazione straordinaria sui patrimoni e sui redditi più alti), affidandosi invece alla spontaneità delle forze economiche”; e garantendo la “conservazione delle holding finanziarie a capitale pubblico, create dal fascismo nei primi anni trenta (come l’IMI, Istituto Immobiliare Italiano), con una particolare rilevanza attribuita all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), che allora controllava le quattro principali banche italiane e la maggior parte delle industrie meccaniche, elettriche e navali”.
Allo stesso modo il saggista Marcello De Cecco in ‘La politica economica durante la Ricostruzione’: “Lo Stato possedeva ora il 90% delle banche e una notevole proporzione dell’industria italiana, inclusa un’altissima proporzione dell’industria pesante……ai più autorevoli tra gli esponenti delle scuola del liberalismo puro”, in particolare a Luigi Einaudi, affidato il governo dell’economia italiana.  “Così, mentre nel resto del mondo la seconda guerra mondiale aveva significato una conferma della fondatezza della critica keynesiana al laisser faire, e gli economisti si affrettavano a trarne le necessarie conclusioni a favore dell’intervento dello Stato, nell’economia italiana, l’Italia, che era scampata a mezzo di interventi statali e protezionismo ai peggiori effetti della grande crisi, ora veniva messa a nuotare contro corrente, sulla base di teorie economiche sorpassate già da una generazione”.  Potendo evidentemente “contare sul favorevole atteggiamento nei confronti dell’Italia stessa da parte del governo americano”, che garantiva forniture UNRRA, nel 1946, “coprendo gran parte della domanda di importazione italiana”. Ed infatti, ancora Giovanni De Luna, “Un grande impulso venne dagli aiuti americani alimentari, ma sopratutto finanziari, solo nel 1946 gli interventi UNRRA ammontarono a 488 milioni di dollari’. Il futuro del carbone Sulcis, nel libero mercato dei colossi mondiali…

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