I primi cento giorni di Trump: la guerra civile fredda

26 Maggio 2025
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Alfonso Gianni

 

I primi cento giorni di Trump meritano certamente un primo bilancio che si compone di vari aspetti, tutti significativi e coerenti con il profilo che il tycoon ha voluto delineare di sé sia negli anni della sua prima presidenza che durante la rumorosa campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca. Non si può certo dire che Donald abbia perso tempo fin dal suo primo giorno da presidente. Il suo attivismo frenetico ha prodotto, dal 20 gennaio al 29 aprile, 143 ordini esecutivi, di cui 26 solo nel primo giorno, 42 proclamazioni. 42 memorandum, oltre a provvedimenti relativi all’anno fiscale in corso.

Secondo non pochi commentatori questa sovrabbondanza di atti, tutti tesi a destrutturare l’ordine preesistente, sia a livello interno che internazionale, qualificherebbe la sua come una “presidenza rivoluzionaria”, perché “se si prescinde dal caos, dalle fughe in avanti e – talora – dalle marce indietro, si vede delinearsi sullo sfondo un progetto politico potenzialmente rivoluzionario”1. Giusta sottolineatura, a patto che ci si intenda sul fatto che qui siamo nel campo di una rivoluzione restauratrice, un ossimoro, più volte usato in questa rivista,2 che serve a indicare la forza travolgente e la frenesia dell’azione e, allo stesso tempo, la sua direttrice di marcia all’indietro.

Basta leggere ciò che autorevoli esponenti della nuova amministrazione già scrivevano qualche tempo addietro. Tre anni fa, Russell Vought - uno degli autori del famigerato “Progetto 2025”, il piano per un esecutivo assolutista reso noto nel 2022 dall’organizzazione di destra Heritage Foundation - scelto del presidente Trump come direttore dell’Office of Management and Budgetsosteneva che “la cruda realtà in America è che siamo nelle fasi finali di una completa presa di controllo marxista del paese”, in cui “i nostri avversari detengono già le armi dell’apparato governativo e le hanno puntate contro di noi”. Conseguentemente a questa delirante diagnosi, i dipartimenti e le agenzie federali hanno ricevuto l’ordine, nel gennaio 2025, di sospendere spese per agenzie, sovvenzioni, prestiti e assistenza finanziaria in tutto il governo federale. La cosa ha provocato la reazione del giudice capo del distretto di Rhode Island, sollevando quindi un conflitto di poteri, in cui è coinvolto ovviamente anche il Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge) di cui è a capo Elon Musk. Non a caso la destra del Maga definisce la nuova situazione come uno stato di “Guerra civile fredda”.3

C’è anche un’altra espressione, diversa ma convergente, per definire, richiamando Hannah Arendt, questi cento giorni: la banalità del potere adornata da una estetica della volgarità e della brutalità, iconicamente rappresentata dalla esposizione dalle gigantografie delle cento persone migranti arrestate dall’inizio della presidenza Trump, messe in mostra, quali moderni scalpi, nel prato davanti alla Casa Bianca.4 Qui non siamo quindi nella dimensione di un male perpetrato per via burocratica, metodica e normalizzata, come nella celebre definizione della Arendt sulla “banalità del male”5 emersa dall’osservazione e dallo studio del processo ad Adolf Eichmann, quanto di fronte a un’ostentata brutalità tesa a rassicurare, i pochi, e a intimorire, i molti.6

 

L’amore di Trump per le criptovalute

Naturalmente nel bilancio di questi primi cento giorni non va dimenticato il guadagno personale della famiglia Trump. Non si tratta affatto di un effetto collaterale, ma un obiettivo perseguito e fin qui centrato. I conflitti di interesse che abbiamo conosciuto durante il ventennio berlusconiano impallidiscono. Già in campagna elettorale il tycoon aveva proclamato ai quattro venti il proposito di fare diventare gli Usa la capitale mondiale delle criptovalute. E si era per tempo premurato di spingere i suoi sostenitori a trovare i mezzi per spianare il terreno. Così il senatore repubblicano – lo abbiamo ricordato già nel numero precedente di questa rivista – Bill Hagerty si è sentito in dovere di presentare una proposta di legge per fornire una nuova regolamentazione alle monete digitali, gli stablecoins, ovvero un tipo di criptovalute che per rendere più stabile il loro valore vengono ancorate o a una valuta nazionale, come il dollaro, o all’oro.7

Nel frattempo veniva fondata nel 2024 la World Liberty Financial, che funge da banca Internet e da piattaforma cripto, ove ai posti di comando siedono i vari componenti del ramo maschile della famiglia Trump, cioè, oltre a Donald, Barron, Eric e Donald Jr.8 Per assicurarsi che non ci siano intoppi di tipo giudiziario il Presidente ha chiuso la divisione anti truffa nel cripto del Dipartimento della Giustizia. Tutto ciò gli permette un arricchimento crescente, contro cui si infrangono finora inutilmente le richieste di indagini parlamentari da parte dell’opposizione democratica.

Per fare capire di cosa stiamo parlando, benché fare i conti in tasca a Trump sia cosa assai difficile, l’associazione progressista State Democracy Defenders Action ha calcolato che solo negli ultimi sei mesi, con un’accelerazione e un incremento rilevanti dal momento in cui è cominciata la seconda presidenza del tycoon, il valore degli investimenti di famiglia nelle criptovalute è salito di 3 miliardi di dollari. Dal canto suo la famosa rivista Forbes ha calcolato che le casse personali di Trump si sono arricchite ben oltre i 5 miliardi di dollari. Su questa solida base vengono poi regolati i rapporti internazionali. Uno dei figli di Steve Witkoff, indicato come mediatore Usa in delicate situazioni internazionali, Zachary, anche lui impegnato nell’impresa, insieme ad Eric Trump ha recentemente annunciato che il fondo degli Emirati Mgx avrebbe messo due miliardi di dollari in Binance, leader degli exchange di criptovalute, utilizzando proprio una divisa digitale targata Trump della World Liberty Financial, aggiungendo che si tratterebbe solo dell’inizio.9 Quando Trump ha affermato che è l’ora di arricchirsi, evidentemente pensava prima di tutto a sé.

 

La ristrutturazione del blocco di comando

Nello stesso tempo il suo comportamento propone un esplicito modello alle elite del paese. Un modello che ha l’ambizione di produrre una ristrutturazione nel blocco sociale di comando che distingue la presidenza trumpiana oltre che da quella democratica, anche da quelle repubblicane precedenti e porta con sé non solo una cattiva modernizzazione, ma una trasformazione del partito di riferimento, il vecchio Gop. Come ha osservato giustamente Emmanuel Todd nel suo più recente lavoro “I punti forti dell’economia americana – le Gafam (acronimo che sta per le più grandi multinazionali tecnologiche a base statunitense: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e il gas (lo shale gas), la Silicon Valley e il Texas (cioè il petrolio) sono collocati ai due estremi dello spettro delle attività umane: le sequenze di codice dell’informazione tendono verso l’astrazione, l’energia è invece una materia prima. Tutto il resto dello spettro è riempito dalle difficoltà dell’economia americana: la fabbricazione degli oggetti, ossia l’industria nel senso classico del termine”. Una difficoltà che si è manifestata anche nella produzione bellica, vista – osserva sempre Todd- “la banalissima incapacità di produrre un numero sufficiente di proiettili da 155 mm, standard della Nato”10 Gli Usa cercano di superare questo quadro incrementando la space economy, su cui sembra particolarmente concentrarsi Elon Musk, con le sue migliaia di satelliti già in orbita, visto che la Byd cinese ha dimostrato di potere e sapere superare la Tecla nel campo delle vetture a motore elettrico. Ma i viaggi su Marte e la sua relativa colonizzazione rimangono per ora argomenti da fantascienza.

 

La lotta contro il “marxismo culturale”

Ma non vi è sommovimento politico profondo negli assetti istituzionali e sociali che non si fondi su teorie e operazioni culturali che ne costituiscono l’humus su cui impiantare la propria propaganda, ovvero la ricerca di consenso. Il trumpismo non sfugge certo a questa regola. Né si limita a recuperare repressioni culturali che appartengono al passato delle classi dirigenti statunitensi. L’attuale scontro in corso tra Trump e le Università, prima fra tutte Harvard, cui Trump ha negato le sovvenzioni federali, è estremamente indicativo. Tanto più che le Università della Ivy League, di cui Harvard è la più prestigiosa, sono tra le più selettive e costose (si può arrivare tra le varie voci sopra gli 80mila dollari annui), culla dei figli delle elite e delle classi più benestanti degli Usa. Di fronte a questa pesante invasione di campo da parte del governo nel campo dell’istruzione universitaria, molti hanno ricordato il maccartismo.

In effetti uno dei rapporti della Heritage Foundation risalente al 2022, si spinge ad una sorta di riabilitazione dell’opera di Joseph McCarthy, sostenendo che in realtà quella che è stata chiamata la caccia alle streghe fosse un lavoro importante e indispensabile, viziato solo dal fatto che il senatore aveva mosso accuse che poi non era stato in grado di comprovare. Per cui ora si tratterebbe di andare più a fondo contro i pericoli della presunta diffusione del marxismo, ma basandosi su fondamenti più solidi.11Il marxismo culturale cui la destra fa riferimento è quello di nuovo tipo, scevro di interpretazioni economiciste, cioè quello che parte dai Quaderni del carcere di Gramsci e dai francofortesi come Horkheimer, Adorno, Marcuse, Fromm. Ma vi è una differenza evidente tra il maccartismo degli anni ’50 e questa nuova crociata. Se il primo intendeva colpire i singoli intellettuali, ora gli strali sono lanciati verso il complesso delle istituzioni culturali nel tentativo, piuttosto inconsistente per ora, di dare vita ad un organico tessuto culturale della peggiore destra, che le è indispensabile per tenere assieme il blocco sociale che finora la ha sostenuta.

 

Trump e il movimento Maga

Il governo di Trump è fatto da miliardari e si circonda di essi. Questo elemento, che è strutturale nella costruzione del regime trumpiano, non può evitare di mostrare la contraddizione esistente, anche se la debolezza dell’opposizione non aiuta, con il vasto elettorato che ha permesso la vittoria del tycoon, nel quale la componente popolare e delle classi lavoratrici, impoverite e private del posto di lavoro dai processi di globalizzazione, è stato determinante. Il cosiddetto “esercito dei Maga” deve essere abbeverato dai mantra culturali di un radicalismo di destra che ha radici anteriori a Trump e che addirittura in alcune sue componenti guarda con scetticismo alla elite politica che attorno a lui si è venuta formando, che non è la stessa dei pionieri del digitale di Silicon Valley, per quanto si siano presto inchinati di fronte al vincitore, capaci di incantare le masse con i prodotti della loro tecnica acquistabili e sfruttabili se non da tutti, certamente da una grande parte della popolazione.

Infatti il centro nevralgico e propulsore dell’immaginario Maga non è tanto la citata Heritage Foundation (nata nel 1973), quanto soprattutto il Claremont Institute, che prese le sue mosse in California sotto l’influenza del filosofo sionista tedesco naturalizzato americano Leo Strauss e che si è spinto negli anni ‘90 fino a rivendicare il ruolo dei padri fondatori difendendoli dalla critica “progressista” sulla schiavitù e che è considerato il “cervello” dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.12 Siamo quindi di fronte a un pensiero estremo nel campo del conservatorismo. Eppure bisogna prestare attenzione alla ragione per cui sotto accusa, e viene sottolineato tutte le volte, è “il marxismo culturale”.

In un recente saggio pubblicato sull’autorevole Monthly Review, John Bellamy Foster ricorda che il sito dell’Istituto “traccia i cosiddetti ‘finanziamenti Blm’ (cioè al movimento Black Lives Matter) da parte delle aziende, sostenendo su basi estremamente discutibili, che 82,9 miliardi di dollari siano stati destinati alla causa Crt/Woke/Cultural Marxist dalle aziende.” E aggiunge che “come nell’ideologia Maga in generale, le aziende sono condannate come moralmente corrotte per avere ceduto al Marxismo Culturale, ma raramente vengono criticate economicamente, Ciò è coerente con l’intera storia della ideologia piccolo-borghese, come si riflette negli scritti del diciannovesimo secolo di personaggi celebri come Thomas Carlyle e Friedrich Nietzsche, le cui effusioni ideologiche, come ha osservato Gyorgy Lukacs, riflettevano ‘una contradditoria duplice tendenza’ di ‘critica della mancanza di cultura capitalista’, pur sostenendo un ordine ‘situato nel capitalismo’”13 A controprova si può ricordare che Curtis Yarvin uno dei principali ideologi del Maga ha scritto;: “Sarò sempre un Carlyleano, proprio come un marxista sarà sempre un marxista” (ma, purtroppo, quest’ultima parte della sua dichiarazione non corrisponde al vero)14.

E’ presumibile quindi, anche come conseguenza della trumponomics, che i rapporti fra Trump e il movimento Maga entrino in tensione. Con quali sviluppi è troppo presto per azzardare previsioni, Quello che fin d’adesso comincia a evidenziarsi è che Trump “sta ora creando una nuova elite politica di oligarchi che non ha alcun obbligo di rispondere al Congresso né alcuna lealtà verso il suo movimento Maga”15

 

I contrasti nel movimento evangelico

Persa la partita di riuscire ad influire sulla elezione del nuovo Papa – al di là delle chiacchiere che si sono fatte e del suo ridicolo travestimento virtuale da Pontefice con dito ammonitore – a Trump resta ovviamente l’appoggio di quell’80% di elettori evangelici che l’hanno fin qui sostenuto. Tuttavia la decisione dell’Amministrazione di congelare i finanziamenti dell’Usaid ha generato forti scontenti in ambienti cristiani. Il che ha influenzato la decisione della Corte Suprema di annullare il blocco degli aiuti esteri. E tantomeno è piaciuta la nomina della discussa telepredicatrice Paula White-Cain – nota per la promozione del “vangelo della prosperità, una lettura del Nuovo Testamento in salsa capitalista – alla testa di un Ufficio Fede presso la Casa Bianca. E ancora più ha nuociuto alla simpatia verso Trump negli ambienti cristiani il suo sostegno a Israele nel genocidio dei palestinesi e la sua trovata di trasformare la striscia di Gaza in un resort per super ricchi. Jonathan Wilson-Hartgrove, un autorevole predicatore evangelico legato all’Università di Yale, ha scoperchiato il vaso di Pandora del movimento, affermando che “la triste realtà è che noi [evangelici] abbiamo scelto una fazione del XIX secolo e il nostro movimento è ancora contaminato dalla religione schiavista, finanziata dai proprietari delle piantagioni. Quella fede non svanì dopo la Guerra civile; anzi, raddoppiò gli sforzi e pregò per la ‘redenzione’ dalla Ricostruzione […] Donald Trump non ha creato la crisi che stiamo affrontando ora, ma la sua presidenza sta svelando la verità su chi siamo come evangelici: non un movimento diviso fra destra e sinistra, ma un popolo di fede che ora deve scegliere tra la religione schiavista e il cristianesimo di Cristo”.16 Critiche e ripensamenti non da poco, come si capisce, che peraltro già da qualche anno girano in quel mondo. Sarà bene seguirlo per capire che effetti potranno portare e se e come l’elezione di un papa delle Americhe più che americano potrà influenzare quei processi.

 

Le mosse di Trump vanno prese sul serio

Da quanto fin qui detto è chiaro che creare le condizioni per una sconfitta di Trump e del trumpismo non è un lavoro di poco tempo e soprattutto esige una precondizione: quella di non considerare The Donald alla stregua di una macchietta, ma di prendere sul serio anche quelle che a prima vista ci sembrano delle mattane.

D’altro canto se si potessero tradurre in un grafico le innumerevoli e contradditorie dichiarazioni ed azioni di Donald Trump, ne risulterebbe probabilmente un tracciato simile a quello di una pallina in un flipper. Un zigzagare improvviso e imprevedibile, da una parte all’altra, un salire e scendere senza una direzione definitiva e coerente, ma sempre con il massimo dell’energia e della spinta. L’annuncio shock destinato a intimorire gli avversari, ma anche a spiazzare gli alleati, è il metodo della sua comunicazione politica, teso ad esaltare la sua potenza rendendo i suoi atti imprevedibili per tutti tranne che per lui. A ben guardare non è del tutto una novità, ne aveva già parlato Naomi Klein, in occasione della prima ascesa al potere di Trump e allargando il discorso alla crisi della democrazia liberale nel mondo,17 ma certamente con la sua seconda presidenza l’effetto shock diventa sistematico ed iperbolico.

Tutto questo non significa affatto che siamo di fronte a un pazzo come viene descritto in frequenti banalizzazioni, o quantomeno faremmo bene a indagare il metodo che vi è quella follia, seguendo il consiglio implicito nel famoso detto shakespeariano (“there’s method in his madness”). Trump sta non solo implementando un credo ideologico e ferocemente classista, ma sta seguendo a modo suo un piano che è alla base di quella che ormai possiamo chiamare trumponomics. Del resto l’autorevole The Economist, oggi tra i più critici, come il Wall Street Journal, sulle scelte trumpiane, non molto tempo fa titolava prudentemente che la “Trumponomics potrebbe non essere così male come molti si aspettano”18

 

Il Liberation Day

Ma certamente il 2 aprile 2025 – pomposamente soprannominato Liberation Day - Trump ha delineato con la consueta ruvidezza una svolta drastica nella politica estera, economica e finanziaria degli Usa, buttando per aria regole e intese che riguardavano il commercio mondiale e creando conseguentemente forti turbolenze sui mercati finanziari. Non era mai successo, almeno in questi termini e in queste proporzioni nel secondo dopoguerra, anche se i primi segnali si erano avvertiti durante la prima presidenza di Trump. Al punto che emergono incrinature tra Musk e il tycoon, avendo il primo interessi assai concreti da tutelare in diverse parti del mondo, come in Cina, che non sempre vanno d’accordo con le mosse del suo idolo.

La popolarità di Trump è in discesa rapida anche in Occidente. Nel nostro paese, ad esempio - ove la Meloni cerca di restare aggrappata al presidente Usa, in un gioco di spericolato equilibrismo nei confronti della Von der Leyen, mentre Salvini si propone come il più autentico sostenitore della linea d’oltreoceano - recenti sondaggi, che certo non sono verità assolute, ma spesso indicano tendenze reali, testimoniano un rapido crollo di fiducia da parte dei nostri cittadini nei confronti di Trump.19 Negli Usa i sondaggi di opinione tra i cittadini statunitensi mostrano cali ancora più considerevoli nel gradimento di Trump mano a mano che le sue minacce sui dazi si concretizzano.

Secondo recenti rilevazioni di YouGov per The Economist si tratta di un -14% che coinvolge anche settori di voto tradizionalmente repubblicano. Le Borse hanno segnato pesanti passivi un po’ ovunque (anche se le ultime notizie su una possibile intesa fra Usa e Cina sui dazi ha ridato fiato ai mercati); Wall Street sale e soprattutto scende a seconda delle voci, vere o false che siano, che si inseguono nell’arco della giornata; mentre anche l’oro ha avuto un andamento altalenante, restando però dominante la tendenza verso la crescita che ha permesso di raggiungere la cifra record di 3.350 dollari l’oncia, a metà aprile, segno tangibile quanto inequivocabile della ripresa della corsa verso i beni rifugio, di cui l’oro rappresenta l’eccellenza.20

Le oscillazioni negative dei titoli nel settore tecnologico

Ha fatto notizia in particolare il crollo di oltre il 7% delle azioni del colosso tecnologico Nvidia, che prevede di perdere 5,5 miliardi di dollari nel trimestre che si chiuderà il 27 aprile, dopo che l’amministrazione Trump ha vietato la vendita in Cina dei chip H20, perché si ritiene possano essere usati in supercomputer cinesi. Il che costringe Nvidia a ottenere licenze speciali per la vendita. Una mossa che si inserisce nella più generale battaglia contro lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale nel grande paese asiatico. Ma se tale trovata fa crollare i titoli del colosso tecnologico statunitense, accade praticamente il contrario sui mercati orientali dal momento che – come ha dichiarato Vey-Sern Ling, direttore generale di Union Bancaire Privée – “L’innovazione IA in Cina è in pieno boom e il divieto sull’H20 non la rallenterà, anzi potrebbe accelerare l’uso di chip domestici” e come si è già visto la Cina può sviluppare modelli IA innovativi neutralizzando le restrizioni trumpiane. Quindi le azioni hardware cinesi hanno tenuto o sono andate in rialzo.21

Lo scontro fra Trump e la Fed

Intanto lo scontro tra il presidente della Fed, Jerome Powell, e Trump si fa sempre più rovente. Il primo avverte che la Banca centrale potrebbe trovarsi in grave difficoltà a seguito delle mosse dell’amministrazione sul fronte dei cambi e che dunque potrebbe diventare difficile mantenere in equilibrio i due mandati cui la Fed è tenuta, il controllo dell’inflazione e il raggiungimento della piena occupazione. E il Presidente, che è interessato solo all’abbassamento dei tassi di interesse, ne invoca apertamente il licenziamento, salvo le solite smentite che non smentono nulla sulle sue intenzioni22

Allo stesso tempo cominciano a delinearsi più apertamente e nettamente diverse posizioni all’interno dell’entourage e dell’Amministrazione trumpiani. Da una parte si collocano gli ideatori e i falchi della guerra commerciale, Peter Navarro, consigliere per il commercio e il manifatturiero, e Stephen Miran, capo dei consiglieri economici del presidente. Dall’altra i segretari al Tesoro, Scott Bessent, e al Commercio, Howard Lutnick, sostenuti da importanti banchieri, quale Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan. Alle loro pressioni su Trump sembra si debba attribuire la sospensione di novanta giorni sull’innalzamento delle tariffe doganali.

Un simile sconvolgimento non era certamente imprevedibile. Anche se sembra assumere persino tratti autolesionisti, era messo nel conto da Trump e dai suoi consiglieri economici. Vi è infatti una ragione di fondo che sta dietro le sue mosse ed un piano specifico. E non lo ferma certamente la preoccupazione di calpestare quella middle class e quelle parti di classe operaia della Rust Belt (“la cintura della ruggine”, ovvero le zone deindustrializzate) che pure lo hanno votato.

Il piano che muove le mosse di Trump

Del carattere ferocemente classista della politica dei dazi si è già detto nel numero precedente di questa rivista, facendo anche riferimento all’importante lavoro di due studiosi americani, Matthew C. Klein e Michael Pettis.23 Questa politica non può però basarsi solo sullo sconvolgente effetto degli annunci shock, che, proprio perché tali, sono spesso contradditori tra loro. Per riuscire, ha bisogno di un piano, per quanto rischioso, che si muova a livello internazionale.

Quasi inevitabilmente ritornano d’attualità le sprezzanti ma profetiche parole con cui John Maynard Keynes concludeva il suo capolavoro di quasi 90 anni fa: “I pazzi al potere, che odono voci nell’aria, distillano le loro farneticazioni attingendo a qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro”.24 Fermo restando che, come già detto, Trump non può essere considerato un pazzo, lo scribacchino c’è e la sua influenza sul Presidente è nota. Possiamo anche fare un’analogia con un passato di qualche decennio fra, ricordando il famoso tovagliolo di carta su cui Arthur Laffer nel 1980 disegnò la curva che prese il suo nome per dimostrare al candidato repubblicano Ronald Reagan che la diminuzione delle aliquote migliorava il gettito fiscale e favoriva la crescita economica. E difatti il candidato, divenuto Presidente, diminuì drasticamente le imposte dirette, facendone uno dei pilastri della Reaganomics.

Il Laffer di Trump è Stephen Miran che nel novembre del 2024 elaborò un corposo paper dal titolo ambizioso A user’s Guide to Restructuring the Global Trading System 25 (Guida per l’utente alla ristrutturazione del sistema commerciale globale). Il nocciolo della questione è subito esplicitato nelle prime righe del testo “La radice degli squilibri economici risiede nella persistente sopravvalutazione del dollaro che impedisce l’equilibrio del commercio internazionale e questa sopravvalutazione è guidata dalla domanda anelastica di attività di riserva. Con la crescita del Pil globale diventa sempre più gravoso per gli Stati Uniti finanziare la fornitura di attività di riserva e l’ombrello della difesa, poiché i settori manifatturiero e commerciale sopportano il peso dei costi.”

Il primo step di questo nuovo percorso è appunto rappresentato dall’aumento dei dazi. Miran si rende perfettamente conto che questo può portare in un primo momento, per l’aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione, a un rafforzamento del dollaro, anziché ad un suo indebolimento come sarebbe da lui stesso auspicato quale obiettivo di fondo di tutto il piano. Infatti lo scrive nella pagina conclusiva del paper: “In ogni caso, poiché il presidente Trump ha dimostrato che i dazi sono un mezzo con cui può estrarre con successo leva negoziale (ed entrate) dai partner commerciali, è molto probabile che i dazi vengano utilizzati prima di qualunque strumento valutario. Poiché i dazi sono positivi per il dollaro statunitense, sarà importante per gli investitori comprendere la sequenza delle riforme del sistema commerciale internazionale. E’ probabile che il dollaro si rafforzi prima di invertirsi, se ciò avviene.”

Ma nessuna paura, fa capire Miran, perché gli Usa hanno altre frecce al loro arco. Certamente, spiega, “storicamente gli accordi multilaterali sulla valuta sono stati il mezzo principale per attuare cambiamenti internazionali nel valore del dollaro”. Come fu con il Plaza Accord del 1985, quando Usa, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito si sono coordinati per indebolire il dollaro, frenandone poi l’eccessiva discesa con il successivo Louvre Accord del 1987. Ma allora il quadro era decisamente diverso. Ad esempio mancava un player - ora diventato un protagonista e un antagonista, dal punto di vista statunitense - sulla scena mondiale, quale è la Cina. E’ difficile oggi immaginare un accordo monetario multilaterale, una sorta di Mar-a-Lago Accord, dal nome della residenza in Florida di Trump.

 

Il bastone e la carota

Quindi, dice Miran, bisogna ricorrere al metodo del bastone e della carota: “Innanzitutto c’è il bastone delle tariffe. In secondo luogo c’è la carota dell’ombrello della difesa e il rischio di perderla”. Ecco quindi che il disegno strategico per riacchiappare la centralità e il dominio del dollaro nel commercio e nei mercati globali, e con esso la diminuzione del deficit commerciale e dell’enorme debito degli Usa, si intreccia indissolubilmente con la costruzione di un sistema di guerra che funzioni da ricatto e minaccia permanenti. E che, per avere efficacia, non può basarsi solo su guerre latenti, ma su guerre effettivamente guerreggiate e possibilmente infinite se viste nel loro insieme, al di là dei singoli luoghi dove possono accendersi e (provvisoriamente) spegnersi.

I rischi derivanti da contro dazi, almeno nel campo dove ancora ha determinante voce in capitolo la declinante potenza di Washington – ad esempio l’Europa – sarebbero così eliminati o almeno fortemente attutiti dalla capacità di manovrare il bastone e la carota. Da qui la necessità di scavalcare ogni sistema di intermediazione a livello globale, come quelli nati alla fine della seconda guerra mondiale, così come quelli che hanno cercato di governare la globalizzazione nel suo periodo più aureo, cioè l’ultimo ventennio del secolo scorso, e di trattare con i singoli Paesi ponendoli di fronte ad una scelta secca: o nella sostanza accettate i dazi oppure aumentate le spese per la difesa militare della Nato. La scelta di accordi bilaterali Usa e un altro paese, viene già implementata da Trump. Lo si è visto con il Regno Unito, e pare sia stato raggiunto un accordo anche con la Cina, seppure al moment, non ne conosciamo i termini con la dovuta precisione.

I Matusalem bond

Al contempo Miran si pone il problema di come convincere le banche centrali di Cina, Giappone ed Europa a vendere le riserve di dollari in eccesso da esse possedute comprando sui mercati le rispettive valute nazionali. Per questa via il dollaro dovrebbe perdere valore e quindi ne trarrebbe profitto la competitività delle merci statunitensi. Non facile, come è evidente, soprattutto tenuto conto delle elevatissime riserve in dollari, ad esempio, della Cina. Non solo, ma come evitare che la forte vendita dei titoli Usa (i Treasury) possa provocare una corsa alla liquidazione di attività in dollari, quindi un rialzo dei rendimenti, ottenendo un effetto collaterale del tutto indesiderato, viste le pressioni di Trump sulla Fed su questo tema, e cioè che i tassi di interesse salgono anziché scendere? C’è un altro coniglio nel capace cappello di Miran pronto ad essere estratto: i cosiddetti titoli Matusalem. Ovvero le banche centrali verrebbero incoraggiate a scambiare titoli a breve termine con quelli a lunghissima scadenza, fino a 100 anni, garantendo al contempo alle banche di approvvigionarsi della liquidità a loro necessaria senza essere costrette a vendere i bond in perdita.26 Di fatto si tratterebbe di un’estorsione.

 

I presupposti sbagliati del piano Miran

Siamo quindi di fronte ad un piano articolato – di cui qui ho fatto cenno solo ai punti che ritengo più qualificanti -, che cerca anche di rispondere prontamente a quelli che persino il suo autore ritiene essere i lati più deboli. Ma che si regge su presupposti sbagliati, fin troppo evidenti se si esce dai paradigmi mainstream dell’economia. Infatti, come è già stato osservato da più parti,27 il declino statunitense, la deindustrializzazione, insieme causa e conseguenza dei processi di delocalizzazione che Trump vorrebbe invertire con il suo Make America Great Again, non hanno come causa primaria la sopravvalutazione del dollaro, quanto la sovraccumulazione di capitali rispetto alla possibilità di ricavarne i profitti desiderati. In altre parole la caduta tendenziale del saggio di profitto di marxiana memoria torna a fare valere la sua attualità.

D’altro canto il deprezzamento del dollaro deve fare i conti con il suo ruolo di valuta di riserva, su cui ha finora poggiato la forza dell’impero statunitense. Quindi il desiderato indebolimento della moneta verde, per evitare che i consumatori trovino più conveniente acquistare all’estero, mentre le imprese sono svantaggiate, non deve spingersi oltre un certo limite, come è successo in passato quando il Louvre Accord ha dovuto correggere il Plaza Accord, soluzioni oggi improponibili per i motivi già detti.

Infine l’idea di ricostruire una potenza produttiva interna agli Usa si scontra con il fatto che gli insediamenti industriali non si creano da un momento all’altro, neppure nelle aree dismesse. Ma soprattutto, visto che negli Usa sii è in uno stato prossimo alla piena occupazione, per fare funzionare nuovi stabilimenti servirebbero inevitabilmente lavoratori immigrati, il che cozza contro la feroce politica per il rimpatrio forzato dei migranti così oscenamente ostentata dal governo Trump.

 

Il ruolo dei Brics

Questo è dunque il disegno e questo il piano di attuazione. Non siamo quindi di fronte ad atti di sconsiderata follia. Ma ciò non significa che questi non creino contraddizioni o che siano imbattibili. Certamente ci vorrebbe ben altra consapevolezza e altro spirito di quelli messi in campo qui da noi e in Europa. Mi riferisco sia ai propositi dei vari governi, sia a quanto è emerso a livello Ue. La strategia dei contro dazi rischia di essere facilmente schiacciata dalla logica della trattativa con ogni singolo paese da parte degli Usa e dal maneggio alternato del bastone e della carota.

Oggi più che mai l’indipendenza dell’Europa dal disegno di Trump di riconquistare ciò che l’America sta perdendo, ovvero il ruolo di baricentro dell’economia e della politica mondiale detenuto durante il “secolo americano”, risiede nello spezzare il sistema di guerra, così consustanziale, come abbiamo visto, al disegno economico e politico degli Usa, quindi farsi portatrice di un progetto di pace che in primo luogo si opponga al riarmo, alla cosiddetta difesa comune, ai progetti di un esercito europeo.

Nello stesso tempo la via di uscita non può essere quella di inseguire gli Usa nell’innalzamento dei dazi europei, ma piuttosto quella di volgersi dal punto di vista commerciale ed economico verso i Brics, verso i paesi del Global South, attuando accordi su basi paritarie. Non basta qualche troppo timida apertura registrata negli ultimi giorni da parte della von der Leyen verso la Cina e il mondo asiatico in generale. Bisognerebbe che le economie basate sull’export traessero dalla negatività della guerra dei dazi, l’occasione per un cambiamento di paradigma. In particolare i paesi che si sono basati soprattutto sulle fortune delle esportazioni, la Germania, ma anche l’Italia (per la quale l’export costituisce circa un terzo della parte più innovativa e propulsiva dell’economia nazionale) dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo interno, aumentando l’intervento pubblico nei settori capaci di sviluppare l’economia e di venire incontro ai bisogni delle popolazioni, sbarazzandosi dei vincoli del pareggio di bilancio, addirittura infilati in Costituzione. La Germania lo ha fatto, ma finalizzando esplicitamente la spesa al riarmo; l’Italia non muove un dito, neppure dal versante dell’opposizione all’attuale governo, per cancellare la sciagurata introduzione nel 2012 del pareggio di bilancio nell’articolo 81 della nostra Costituzione attuata con il Pd consenziente, anzi protagonista.

La pessima risoluzione del Parlamento europeo

Come ha detto Thomas Piketty in una recente intervista: “Ora tutti i paesi [europei] che hanno investito per potere esportare si trovano penalizzati. L’Europa deve quindi uscire dalla sua postura attendista … ovvero restrittiva …abbiamo bisogno soprattutto di investimenti pubblici, nell’istruzione, nella ricerca, nella sanità … dobbiamo inventare nuove forme di governance nel settore digitale per controllare i grandi gruppi privati”.28

Ma purtroppo la Ue si muove in senso opposto, come dimostra la sconcertante risoluzione in 197 punti e 59 pagine votata a Strasburgo che può essere considerata come un muro che il Vecchio Continente vuole alzare verso l’Oriente e il Sud del mondo dentro un sistema di guerra che riguarda la spesa militare, come la produzione bellica, come gli indirizzi da dare all’insegnamento scolastico, come il più generale orientamento culturale. Non solo vengono destinati 800 miliardi di euro per le spese militari dei singoli Stati, non solo la Banca europea per gli investimenti è pronta ad offrire altri 8 miliardi di prestiti anche per opere e strumentazioni non dual use, ovvero di uso civile e non solo militare, come invece dovrebbe fare per vincoli statutari. Ma la risoluzione mette nel mirino oltre la Russia – vaneggiando un possibile attacco ai paesi della Ue – anche la Cina, sottolineando così, in perfetta sintonia con gli Usa, quale è il vero nemico contro cui si punta.

 

La centralità della lotta per la pace

Di fronte a ciò la sinistra diffusa si sta organizzando per dare vita a manifestazioni nel nostro e in altri paesi. Nel nome della pace, con la speranza che gli avvisi di una possibile trattativa di pace possa mettere fine alla guerra russo-ucraina, ma nella più profonda disperazione per il genocidio in atto del popolo palestinese che non si riesce a fermare. Resta però una sinistra acefala, nei singoli paesi e a livello europeo. Non basta che nel recente congresso di una elettoralmente rinata Linke si sia tornato a parlare di superamento del capitalismo, cosa comunque positiva ma offuscata dal non riuscire a sciogliere pesanti ambiguità sulla tragica questione palestinese, dimostrando che il senso di colpa verso il popolo ebraico, che fa da velo all’appoggio incondizionato al peggiore sionismo da parte della Germania, fa capolino anche dalle parti della migliore sinistra di quel paese.29

Lo schieramento dei Brics+ si sta intanto allargando a nuovi paesi e i loro progetti, compreso quello di una moneta unica per gli scambi internazionali che ostacoli il primato del dollaro, si vanno precisando, dimostrando che un altro ordine mondiale, fondato sul multipolarismo, è possibile. Molte speranze sono riposte nel vertice di questi paesi che si terrà il 6 e il 7 luglio di quest’anno a Rio de Janeiro che è stato preceduto da una fattiva riunione nella stessa capitale brasiliana dei rispettivi ministri degli esteri. La dichiarazione finale di questa riunione conclusasi lo scorso 29 aprile ha accolto l’Indonesia come nuovo membro dei Brics, così come accoglie Bielorussia, Bolivia, Kazakistan, Cuba, Nigeria, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan come Paesi partner dei Brics a partire dal primo gennaio 2025.

La posta in gioco è enorme. Siamo nel corso di una epocale transizione egemonica mondiale da ovest verso est. La fine del “secolo americano” avviene contemporaneamente all’ascesa della Cina. Ma la sostituzione di un assetto mondiale che trasmigra da un unipolarismo ad un altro, con il cambio del pivot, come è successo in passato, non sarebbe auspicabile. Quindi una visione multipolare deve essere alla base di ogni concezione economica e politica, se si punta alla pace. Le precedenti transizioni che nella storia pluricentenaria dei prodromi, delle origini e dello sviluppo del capitalismo sono sempre avvenute dopo una o più guerre. Così è stato da ultimo nel Novecento dove la primazia statunitense ha scalzato quella inglese. Ma oggi questa transizione, che ritengo inevitabile, sulla scorta di ben più autorevoli analisi e studi,30 deve avvenire entro una condizione sostanziale di pace. Una guerra tra Usa e Cina, che diversi analisti americani cominciano a ritenere prossima (a cui gli ambienti militari si stanno già attrezzando), sarebbe, per la incontrollabile e incomparabile potenza degli armamenti messi in campo, distruttiva del pianeta e del vivente umano e non umano. Il tema della pace diventa quindi centrale, nella lotta politica come in quella sociale, per noi e per le prossime generazioni.

 

 

 

 

 

 

1 Vedi Sergio Fabbrini “Il caos dei primi cento giorni di Trump” ed anche Moreno Bertoldi e Marco Buti “L’autocrate americano e le risposte Ue” entrambi in Il Sole 24 Ore del 4 maggio 2025

 

2 Infatti il titolo di copertina del numero 74 (ottobre-dicembre 2024) di Alternative per il Socialismo era appunto “La rivoluzione restauratrice”

 

3 Vedi Thomas B. Edsall “’Trump’s Thomas Cromwell’ Is Waiting in the Wings” (Il “Thomas Cromwell di Trump” è in attesa dietro le quinte) nel New York Times del 4 febbraio 2025

 

4https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/29/cartelloni-con-i-volti-di-100-migranti-arrestati-allingresso-della-casa-bianca-lultima-mossa-di-trump-video/7968977/

 

5 Hannah Arendt La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2019

 

65 Vedi Marta Cariello “Foto dei deportati. L’oscena banalità del potere Maga”, in il manifesto del 20 aprile 2025, che giustamente si sofferma anche sulle riflessioni del filosofo e storico camerunense Achille Mbembe sul postcolonialismo

 

7 “Il senatore statunitense Bill Hagerty mette sul piatto una nuova regolamentazione stablecoin: Usdt e Usdc sotto il controllo della Fed in The Cryptonomist del 5 febbraio 2025; https://cryptono-mist.ch/2025/02/05/bill-hagerty-nuova-regolamentazione-stablecoin-usa/

 

8 https://it.benzinga.com/crypto/donald-trump-e-world-liberty-financial-lanciano-una-riserva-strategica-di-crypto-e-una-blockchain-layer-1/

 

9 Vedi al riguardo il puntuale articolo di Marco Valsania “Le criptovalute, il grande business della famiglia Trump” in Il Sole 24 Ore dell’11 maggio 2025

 

10 Vedi Emmanuel Todd La sconfitta dell’Occidente, Fazi editore, Roma 2024; in particolare il nono capitolo “Sgonfiare l’economia americana”

 

11 Mike Gonzales e Katharine C.Gorka, How Cultural Marxism Threatens the United States and How Americans Can Fight It (Come il marxismo culturale minaccia gli StatiUniti e come gli americani possono combatterlo), Rapporto speciale n.262, Heritage Foundation, 14 novembre 2022 e degli stessi autori, NextGen Marxism: What It Is and How to Combat It, (NextGen marxism: che cos’è e come combatterlo), Ecounter books, 2024. Vale la pena di riportare la scheda del libro riportata da Amazon.it per incentivarne la vendita: “Mike Gonzalez e Katharine Gorka documentano la metamorfosi della sinistra in un marxismo imbastardito e razzializzato che rappresenta una minaccia per tutto ciò che gli americani hanno di più caro. In questo libro profondamente illuminante, i lettori comprenderanno la natura della bestia e come combatterla nelle loro comunità.”

 

12 Vedi Marc Fisher e Isaac Stanley-Becker, “Il Claremont Institute ha trionfato negli anni di Trump. Poi è arrivato il 6 gennaio” nel Washington Post del 30 luglio 2022 e Elisabeth Zerofsky, “Come il Claremont Institute è diventato un centro nevralgico della destra americana” nel New York Times del 3 agosto 2022

 

13 John Bellamy Foster “The Maga Ideology and the Trump Regime” in Monthly Review, Volume 77, numero 01, maggio 2025. Le citazioni di Giorgy Lukacs sono tratte da La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1974

 

14 Matt McManus “Yarvin’s Case against Democracy: Curtis Yarvin Is too Elitist for Fascism”, in Commonweal, 27 gennaio 2023

 

15 Gary Stout, “Il matrimonio tra Maga e miliardari è già incerto” in Observer-Reporter del 25 gennaio 2025

 

16 Jonathan Wilson-Hartgrove, Reconstructing the Gospel: Finding Freedom from the Slaveholder Religion (Ricostruire il Vangelo cercando di liberarci dalla religione schiavista), Ivp, 2018, nonché, dello stesso autore: “Nell’era di Trump, un momento di decisione per gli evangelici, in Durham Herald Sun, 26 aprile 2018, “La paura è lo strumento di controllo della religione schiavista” in Soujourners, 22 aprile 2019

 

17 Naomi Klein Shock Politics. L’incubo di Trump e il futuro della democrazia, Feltrinelli, Milano 2019

 

18 “Trumponomics would not be as bad as most expect. Opposition would come from all angles” The Economist, 11 luglio 2024

 

 

19 Si veda Renato Mannheimer “Crolla la fiducia verso Trump. Si amplia anche la frattura fra l’Europa e gli Stati Uniti” in ItaliaOggi, 8 aprile 2025

 

20 Il Sole 24 Ore del 9 aprile 2025 sintetizzava così la situazione nel titolo a cinque colonne di prima pagina: “Borse nel caos, crollano Europa e Asia, Wall Street sull’ottovolante, oro in caduta”. Poco più di una settimana dopo, nell’edizione del 17 aprile, lo stesso quotidiano annunciava il nuovo record dell’oro, vedi appunto Vito Lops “Wall Street cade dietro i chip. Nuovo record dell’oro a 3.350$”.

 

21 Vedi Vito Lops cit.

 

22 Vedi https://tg.la7.it/esteri/trump-powell-licenziato-fed-attacca-17-04-2025-235808

 

23 Matthew C.Klein, Michael Pettis, Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come la crescente diseguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einaudi, Torino 2021.

 

24 Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, (Londra 1936) nella traduzione di Giorgio La Malfa, Mondadori “I Meridiani”, Milano 2019

 

25 Il testo in inglese è reperibile al link: https://www.hudsonbaycapital.com/documents/FG/hudsonbay/research/638199_A_Users_Guide_to_Restructuring_the_Global_Trading_System.pdf

 

 

 

26 Si veda anche, su questi ultimi temi, Luigi Pandolfi “Matusalem bond, i prestiti a 100 anni, l’arma letale per coprire il debito Usa” in il manifesto del 3 Aprile 2025

 

27 Vedi, ad esempio, Domenico Moro “I dazi possono fermare la decadenza degli Stati Uniti?” in Laboratorio per il socialismo del XXI secolo, online, 23 aprile 2025

 

28 Anais Ginori intervista a Piketty “Stati Uniti così brutali perché hanno perso il controllo” in la Repubblica del 17 aprile 2025

 

29 Vedi Sebastiano Canetta “Linke a Congresso dopo il boom si prepara l’opposizione a Merz” in il manifesto dell’11 maggio 2025

 

30 Tra le molte pubblicazioni al riguardo voglio ricordare per brevità: un libriccino davvero prezioso quale Fernand Braudel La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1981, che contiene tre lezioni tenute negli Usa dal grande storico francese nel 1977 e Giovanni Arrighi Il lungo XX secolo. Denaro. Potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 2014

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