Il compagno C., il compagno Mao e il compagno M. E molto altro. Memorie degli anni ‘70 del secolo scorso

23 Maggio 2020
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Tonino Dessì

 

Nel 1975 mi iscrissi dall’Università, in Giurisprudenza, a Cagliari. I primi due anni furono davvero intensi. Per la prima volta vivevo in autonomia, con la modesta mesata proveniente dallo stipendio di mio padre, impiegato statale, e qualche soldo ricavato da occasionali lavoretti estivi. Unica responsabilità, rassicurare i miei che stavo regolarmente dando gli esami.
A parte gli studi di diritto e di economia, che a uno studente proveniente dal liceo classico, almeno agli inizi, apparivano tecnici e ostici, oltre alle ordinarie (un po’ rituali) agitazioni studentesche e alla frequentazione della Casa dello Studente (dove stava una delle due mense universitarie e dove alloggiava la gran parte dei miei amici barbaricini), la parte veramente nuova di quella vita fu la frequentazione del PdUP per il comunismo, nella storica sede del Manifesto, un tempo “Il Giardino d’Inverno”, nella Via Manno.
Non era solo una sede di partito. Vi si riunivano collettivi studenteschi, gruppi femministi, comitati promotori di iniziative sociali e di quartiere.
Lo stesso custode, il vecchio compagno Nino Bruno, aveva accompagnato Gramsci al convegno clandestino svoltosi a Molentargius (”prima di vederlo, pensavo fosse un gigante” - ci diceva) e restava tenacemente iscritto al PCI a cui aveva aderito fin dal Congresso di Livorno.
Quella piccola formazione politica che gestiva la sede era un singolare e turbolento crogiuolo di provenienze: dagli ex PCI del Manifesto (prevalentemente provenienti dalla nidiata allevata da Luigi Pintor nella sezione Lenin, durante il suo esilio in Sardegna seguito alla sconfitta ingraiana nell’XI congresso nazionale), ai militanti dell’ex PSIUP sopravvissuti all’insuccesso elettorale del 1972 (che facevano capo a Vittorio Foa e a Silvano Miniati), ai cattolici di sinistra provenienti dall’ex MPL (che facevano riferimento a Giangiacomo Migone), cui in seguito si erano aggiunti i seguaci (allora di formazione stalinista) di Mario Capanna e quelli di Mario Mineo, zio di Corradino, infine quelli di Silverio Corvisieri, Aurelio Campi, Vincenzo Vita, provenienti da Avanguardia Operaia.
Politicamente un manicomio, destinato dopo una precaria unificazione a un percorso di scissioni multiple.
Era però un ambiente ricco di persone interessantissime.
Molte le donne; militanza e pratica femminista agguerritissima: “Il personale è politico” e prova a sgarrare, compagno maschio.
A me, che pure simpatizzai subito per quelli del Manifesto (mi sembravano i meno ortodossi ideologicamente e, pur con qualche pretesa aristocratica, i più ironici e dissacranti, ma anche i più preparati nella concretezza della politica, anche perché mantenevano in piedi, sia pur conflittualmente, il confronto con i maggiori partiti della sinistra), attraeva tuttavia un’altra componente generazionale e sociale.
Erano i non pochissimi operai di fabbrica, chimici degli impianti e metalmeccanici impiegati nella realizzazione di quegli stessi impianti e delle relative infrastrutture.
Erano assai più giovani della componente storica, pur presente, costituita dagli impiegati e operai SIP ed Enel e dai portuali, che rappresentavano il legame con la tradizione sindacale e operaia cagliaritana, ma che spesso erano più ideologici e conservatori, oltre che, eticamente, più bacchettoni che puritani.
Gli operai dei consigli erano moderni, istruiti e colti, formati fuori Sardegna dalle aziende e dai sindacati di categoria, conoscevano i processi produttivi e commerciali, discutevano di politica economica e internazionale, ma soprattutto di vertenze e di territorio, di diritti e di qualità della vita e della salute, in fabbrica e fuori.
Era con loro che spesso si confrontavano in Via Manno professori universitari, medici, avvocati e altri esperti di varie professionalità, impegnati nel sostegno alle lotte operaie. Io ne ero affascinato, anche perché spesso noi studenti andavamo con loro a volantinare a Macchiareddu, davanti ai cancelli delle fabbriche e vedevo da fuori impianti di complessità e dimensioni tali da destare meraviglia.
Non si era in pochissimi e non si avvertiva l’essere socialmente e politicamente minoranza. Eravamo, nel nostro immaginario, avanguardie, esperti e rossi, radicali ma unitari.
Quell’idillio durò in realtà poco.
La seconda metà degli anni ‘70 fu sconvolta dalla crisi industriale, dagli anni di piombo, dall’immiserimento della vita politica e dalle scissioni anche in seno ai micropartiti, dalla prima grave rottura intergenerazionale (la cacciata di Lama dalla Sapienza), dalla fine dell’unità sindacale confederale.
Non fu senza conseguenze, tutto ciò, anche nel microcosmo cui avevo appartenuto pensando che fosse il mio universo.
Per esempio finì un esperimento sindacale fantasioso.
Se nelle Camere del Lavoro si era tentato di costruire un rapporto con i giovani creando le Leghe dei disoccupati, la FLM (che riuniva politicamente FIOM, FIM e UILM) nelle aree urbane aveva esteso la sua tessera unitaria anche agli studenti, per tenerli agganciati al mondo della fabbrica (e mi vanto di aver avuto appunto in tasca, come prima tessera, quella dei metalmeccanici sardi della FLM: “Truncare sas cadenas”).
Finì quell’esperimento e in Sardegna, cominciando da Cagliari, finì l’unità tra operai.
Le industrie chimiche entrarono in una crisi verticale, aprendo un’agonia che sarebbe durata dolorosamente trent’anni. Di impianti non se ne costruivano più e non se ne ampliavano. Perciò bisognava liquidare i metalmeccanici.
Il conflitto fu deflagrante.
Nel 1978, mi pare, la FLM cagliaritana, guidata da Salvatore Cubeddu, (FIM), allora del PdUP, da Franco Porcu (FIOM), del PCI,  e da Angelo Rizzu (UILM) della Metallotecnica di P. Vesme, simpatizzante PdUP, promosse un tentativo di occupazione delle fabbriche a Macchiareddu.
Non fu la forza pubblica, a impedirlo.
Furono gli operai delle corrispondenti sigle chimiche, fino ad allora compagni di lotta dei metalmeccanici, a chiudere e a presidiare i cancelli, dove scoppiarono anche delle risse.
Le tre confederazioni chimiche riunite nella FULC e le tre sigle metalmeccaniche riunite nella FLM avevano sede in un palazzo di via Alghero, in due appartamenti dello stesso pianerottolo. Provate a immaginarvi il clima. Infatti la convivenza condominiale cessò subito dopo.
Non ricordo ora quante centinaia di operai metalmeccanici il territorio di Cagliari dovette riassorbire negli anni a venire e nella prima grande risacca antropologica che lo investì.
E quante più ancora centinaia, forse qualche migliaio, nel successivo decennio, di chimici, perché poi ineluttabilmente toccò a loro.
Fenomeno poco indagato, che è stato tuttavia la premessa di un trentennio di sconfitte politiche e prima ancora sociali e culturali e anticamera della malattia morale della sinistra sarda, della quale la classe operaia cagliaritana aveva rappresentato, per forse un decennio, la punta avanzata.
E quei giovani, che tanto avevo ammirato e invidiato, presero le più disparate strade, passando dalla cassa integrazione al licenziamento. Qualcuno riprese gli studi, altri si inventarono un mestiere o un commercio, altri emigrarono, chi tornò al paese nella campagna dei genitori, chi - molti - dovette per lungo tempo farsi assistere da altri, un tempo giovani, che aveva conosciuto in via Manno come appartenenti a Medicina Democratica o a Psichiatria Democratica.
Nessuno tuttavia, che io ricordi, derivò nella nebulosa della lotta armata di allora.
Ma nel 1976 io ancora non potevo prevedere tutto questo, mentre partecipavo, in un pomeriggio di luglio, alla mia prima riunione regionale del PdUP, dove ancora si discuteva come se fossimo sodali e commilitoni dei grandi dirigenti del movimento rivoluzionario mondiale e con loro interloquissimo quotidianamente e personalmente.
Eravamo a Ovodda, nel Centro Sardegna, ospitati democraticamente in un locale del Municipio.
Erano, i miei compagni più grandi, infervorati in una discussione che implicava riferimenti alla Rivoluzione culturale cinese, i cui eccessi erano stati duramente stigmatizzati dal compagno Francesco C., docente di materie letterarie.
Successivamente intervenne il compagno Giovanni A. M., di Ovodda (gestiva un distributore di carburanti alle porte del paese, dopo avere organizzato memorabili lotte nei cantieri durante la costruzione della diga del Taloro), con una veemente difesa dell’esperienza cinese, al termine della quale interpellò frontalmente C.: “Io non so cosa gli abbia fatto il compagno Mao al compagno C., per avercela così tanto con lui”.
Vi assicuro che non scherzava e che nessuno (se non, nel ripensarci, anni dopo) scoppiò in una risata. Erano (eravamo) ancora candidamente fatti così.
Le travagliate vicende dei movimenti e dei partiti degli anni e dei decenni successivi ci resero certo meno ingenuamente candidi, ma non per questo meno appassionati e i semi di quella stagione germogliarono in tante lotte e iniziative per meritevoli cause democratiche sociali, civili, culturali.
Dopotutto siamo in molti ancora qui, nè ottimisti nè pessimisti, a impegnarci in quello che ci sembra utile continuare a fare per quelle cause.

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