Carbonia. Dopo il 25 aprile. Le miniere per la Ricostruzione in Italia e in Sardegna

20 Settembre 2020
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Gianna Lai

 

Oggi è domenica e dunque nuovo post sulla storia di Carbonia, iniziata il 1° settembre 2019.

Di buon auspicio, subito dopo la Liberazione, l’insediamento il 29 aprile della Consulta regionale della Sardegna che, nell’ordine del giorno approvato, ‘riafferma unanime la volontà sarda di raggiungere l’effettiva autonomia, nel quadro dell’unità nazionale’. Mentre si annuncia  la partenza della Commissione alleata dalla Sardegna,  pur se la vendita di Sulcis rimane ancora sotto il suo controllo, e giungono gli aiuti americani dell’UNRRA, a rifornire direttamente anche le miniere sarde 1).
Ora la fine della guerra e l’uso del Sulcis, destinato alla ricostruzione del paese, avrebbero dovuto porre su nuove basi  il futuro del territorio, ma niente fa presagire, pur col nuovo Consiglio di amministrazione insediato, un cambiamento di prospettive fuori dal quadro dell’emergenza nazionale. Anche in tema di epurazioni assoluta continuità, alcuni tra i collaboratori e i dirigenti particolarmente coinvolti al tempo del fascismo, si limitano ad abbandonare la città, se, come dice Vittorio Foa, ‘la linea produttivistica per la ricostruzione che i partiti di sinistra e la CGIL avevano fatto propria, avrebbe portato fatalmente a sanare la posizione degli epurati che fossero (o apparissero) tecnicamente necessari alla produzione’2)
L’ACaI richiede subito l’assunzione di altri 3 mila minatori, la produzione verso un ulteriore incremento, pur restando in continuità il programma della miniera con la precedente gestione imposta dagli alleati. Sempre politico il prezzo di vendita del carbone, fissato dalla Commissione interministeriale in lire 1450 la tonnellata, contro un costo di produzione  di lire 2100-2200. ‘Quindi su una produzione media di 60-70 mila tonnellate  mensili, si avrà un deficit di 45 milioni al mese, da sommare al gravissimo deficit della SMCS….E’ possibile che un’azienda lavori continuamente in passivo?’, si chiede Renato Mistroni nello scritto intitolato Il prezzo del carbone, su Il Lavoratore del 10 novembre 1945.
In effetti  il Consorzio costituito in Continente per la vendita del carbone alle aziende, ne aumentava poi a suo piacimento il prezzo, sicché contingentamento e prezzo politico  non ne avrebbero impedito la vendita  al mercato nero, tanto che nella penisola esso poteva raggiungere le 12mila lire a tonnellata, come denuncia  Il Lavoratore del 22 dicembre 1945: da tutta Italia i mediatori per acquistarlo direttamente a Carbonia, enormi i profitti. A beneficiare del prezzo politico  anche le imprese isolane, spettando alla Sardegna  15.000 tonnellate di Sulcis, così distribuite: 7500 alla Società Elettrica Sarda, 3.000 per i consumi interni dell’ACaI, 2000 alle le Ferrovie dello Stato, 1.300 all’Italcementi, 770 alle miniere metallifere, 430 alle piccole industrie e all’artigianato locale. Lo Stato ad intervenire  con oltre 300 milioni per sostenere il conseguente deficit SMCS, secondo un duplice flusso di risorse dall’isola al Nord e dallo Stato alla Sardegna. Il fatto è che la SES, controllata dal gruppo Strade Ferrate Meridionali, Bastogi (che controllava, a sua volta, altre 19 società,) era detentrice in Sardegna del monopolio elettrico e possedeva inoltre il 40% del capitale nella Società imprese elettriche, il 37% della Società Tranvie della Sardegna, il 100%  nella Società Peschiera di Sant’Antioco. Un colosso, come del resto il Consorzio per la vendita del carbone, contro i quali ben poco avrebbe potuto la dirigenza SMCS. 3)
Eppure sembrava, al momento, ancora vivo l’interesse del governo per le miniere, se già nei documenti d’archivio troviamo un apposito titolo dedicato alle ‘Miniere del Sulcis’, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ne indica priorità e importanza durante tutto il dopoguerra . E poi quell’intensificarsi in città delle visite di esponenti sindacali e politici, di tutte le tendenze, tra le quali si annovera, il 4 maggio, anche la rappresentanza della Commissione ministeriale dell’industria, per indagare sulla situazione della città e sulle tensioni in miniera. Seguita, poco dopo, dall’intervento di esponenti  nazionali della CGIL, per un impegno preciso ’su loro indicazione’, al superamento del regime commissariale,  cui era ancora sottoposta l’azienda. E la garanzia della partecipazione dei lavoratori al Consiglio di amministrazione della SMCS, oltre a  una richiesta di aumento salariale, di lire 80 giornaliere, e di un consistente rifornimento di calzature e indumenti per gli operai 4).
Ma contro il pericolo di chiusura dei pozzi, già in evidenza subito dopo la Liberazione, le prime proposte di sviluppo industriale del bacino minerario non possono che venire  direttamente dalle forze politiche cittadine e regionali, in adesione al programma già delineato da Emilio Lussu in città nel 1944, una volta poste  le tematiche operaie all’attenzione dell’intero movimento progressista sardo, che andava in quegli anni lentamente consolidandosi. Il discorso politico diviene ora ‘Salviamo le miniere’. Così il secondo Congresso regionale sardo del PCI si  pronuncia a favore della costituzione di un’Azienda Carboni sardi, affiancata da impianti speciali che facciano uso dei sottoprodotti  del combustibile Sulcis. E, contro il pericolo di smobilitazione, l’affrancamento della città dalla SMCS e la costituzione nel Sulcis di un’azienda popolare, ‘una grande azienda socializzata’, con capitali forniti inizialmente alla Sardegna dallo Stato, in sostituzione dell’Azienda Carboni Italiani. Consiglio di amministrazione e direzione formati da  operai e tecnici delle miniere, mentre una commissione regionale, formata ugualmente da operai e tecnici, avrebbe revisionato e regolamentato ‘le concessioni minerarie e tutte le questioni tecniche da esse derivanti’ 5)
Dalla Democrazia Cristiana cittadina la proposta,  nel  Convegno  del febbraio 1945, di un coinvolgimento delle maestranze della miniera nel Consiglio di amministrazio della  SMCS, ‘tenuto presente che il programma sociale della DC prevede la partecipazione dei lavoratori alla gestione dei mezzi di produzione e agli utili dell’azienda’6) . E poi dalla Camera del Lavoro di Carbonia, un Ordine del giorno per chiedere ‘l’abolizione del prezzo politico del carbone sardo’, sì da portarlo ‘almeno al livello dei prezzi dei carboni meno pregiati del Continente’ -e il riferimento non può non essere alla lignite picea di Ribolla, miniera toscana della Montecatini- ‘in modo da risanare il bilancio deficitario dell’azienda’. Per arrivare al completamento del quadro, con la specificazione dei sottoprodotti del carbone, ‘anilina, azotati, concimi chimici’, da estrarre in impianti, che lo Stato avrebbe dovuto immediatamente finanziare 7).
Nell’intervento di Renato Mistroni su Il prezzo del carbone, la lotta portata avanti dalle maestranze e i loro sacrifici, da poco toccate le 65mila tonnellate di produzione mensili, aveva chiamato a nuove responsabilità  governo centrale e  nuovi dirigenti della miniera. Così nel comizio del sardista Mastino in città, sullo sfruttamento delle risorse minerarie da parte degli speculatori continentali. Così nella interrogazione del consultore comunista Borghero  all’Alto Commissario, sul provvedimento di chiusura dello stabilimento di Sant’Antioco, per mancanza di combustibile, secondo le  assegnazioni definite dal Piano Marrshall. ‘2.400 le  tonnellate di carbone destinate alla distillazione,  che avrebbero potuto essere compensate  largamente dai prodotti ricavati’ 8). E la riapertura nel ‘46 avrebbe consentito il collocamento di 130 unità lavorative, ma  per un breve periodo, le riassunzioni con scrupolosi  criteri di rappresaglia a danno degli elementi che si erano messi più in vista durante le lotte, secondo  Il Lavoratore del 23-marzo 1946.

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