Carbonia. Distanti le posizioni tra i partiti in città, specie nei confronti della SMCS. Le sinistre aprono al Psd’az

25 Ottobre 2020
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Gianna Lai

E’ domenica e torniamo puntuali con la storia di Carbonia ormai dal 1° settembre 2019.

Non poteva restare, Carbonia, ‘un’isola nell’isola’, come dice Nadia Gallico Spano durante l’intervista del 1988, così distante dal resto della Sardegna,  per posizione geografica e crescita politica: il Partito a Roma era convinto che da lì potesse iniziare “la costruzione dell’unità della classe operaia”. Il motore di un movimento progressista sardo, nella costruzione “del Partito nuovo degli operai e dei contadini”, come diceva Renzo Laconi, per avviare un processo di reale unità  fra lavoratori sardi e lavoratori del Continente, nella unità degli intenti, nelle forme di adesione alle lotte organizzate dalla CGIL. E intanto nascevano  in città i nuovi organismi di coordinamento del Partito comunista,  il Comitato di zona e il Comitato federale, di cui fece subito parte lo stesso Velio Spano, e poi la Federazione comunista del Sulcis. I dirigenti locali sempre più spesso espressione delle lotte in miniera così, per quanto riguarda tutte le istanze del partito, una base sempre attiva nell’organizzazione e nella costruzione di  nuovi e duraturi legami, onde  mantenere viva e diretta la relazione  col territorio.  Anche quando gli effetti  più evidenti di un dogmatismo, mai del tutto superato negli anni, rischiavano di modificare gli equilibri a favore di un controllo verticistico del dibattito interno e della gestione stessa delle poltiche cittadine. Frutto certamente di ritardi nella formazione dei quadri, soggetti anch’essi a un continuo ‘turnover’, potevano risentirne i rapporti stessi col PSIUP, un legame che si era meglio definito solo dopo le Risoluzioni del Consiglio nazionale socialista, luglio 1945, favorevole alla ‘fusione’. E dopo il 2^ Congresso regionale comunista che, nel maggio di quell’anno, invitava “i compagni di tutta la Sardegna a stringersi, fin dalla base, con i compagni del partito socialista,  in modo da costruire, nell’azione comune, l’unità della classe operaia”. Mentre, alla presenza di Velio Spano, il Convegno dei quadri a Cagliari nell’agosto del 1945, lanciava un appello all’unità dei partiti di massa, come leggiamo in ‘Renzo Laconi’ di Maria Luisa Di Felice.
“Noi socialisti venivamo chiamati fusionisti, perché Nenni intendeva arrivare alla fusione dei due partiti,  e a Carbonia eravamo tutti nenniani”, ricorda nell’intervista Aldo Lai,  dirigente socialista cittadino. Perché, come dice anche Ernesto Ragionieri, “Nenni era uno dei più tenaci assertori della necessità di trasformare  il Patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti, in una fusione organica dei due partiti della classe operaia”. Così in avanti si era ormai spinta l’intesa tra le due organizzazioni, e la stessa intesa animava a Carbonia la sinistra. “Fatto salvo il futuro gruppo dei socialdemocratici, sempre piuttosto marginale e privo di spessore politico che, pur d’accordo col Patto di unità d’azione, si distinse subito  con posizioni autonome rispetto alla fusione, la grande maggioranza dei socialisti sulcitani si espresse fin da subito a favore della fusione dei due partiti”, conclude Aldo Lai.  Una solidarietà fraterna, per il rafforzamento della sinistra a Carbonia, partendo dalla dirigenza dei comunisti e dei socialisti, per giungere  fino ai militanti, fino alla base degli iscritti, nella prospettiva di costruire un movimento organizzato e creare nuovi rapporti anche con gli altri partiti popolari cittadini. Avendo il 2^Congresso del Partito comunista in Sardegna, 5 giugno 1945, sollecitato “i compagni a stabilire cordiali vincoli di collaborazione con tutti gli altri partiti di massa, il Partito sardo d’azione,  il Partito democratico cristiano, nei quali non mancano certo elementi sinceramente democratici e progressivi’, come riporta Girolamo Sotgiu, nel suo, già citato, ‘Movimento operaio e autonomistico”.
In verità, il settarismo  di buona parte dei dirigenti sardisti avrebbe messo sovente a dura prova la politica di intesa  delle sinistre verso un programma comune sulle miniere, che riscuoteva invece i favori del  gruppo di ‘lussiani’ guidato da Armando Zucca e Carlo Sanna, i più impegnati a promuovere l’apertura del partito ai socialcomunisti. Andava anzi facendosi strada, la preoccupazione che il Psd’az fosse al centro di un disegno politico volto a farne l’elemento destabilizzante,  in miniera e nella città, onde  impedire, fin da subito, la crescita di movimenti popolari e organizzati su tutto il territorio. In che modo? Attraverso la nomina al vertice della SMCS di tecnici sardisti che, dissimulando un generico populismo, avrebbero invece favorito e rigidamente applicato le scelte governative  sulla miniera, quelle orientate verso l’abbandono del carbone, anche se fortemente in contrasto con gli interessi dei lavoratori e della città. In effetti il Partito sardo, sempre molto debole politicamente, sia a livello di iscritti che in termini organizzativi, sarebbe divenuto presto una consistente forza elettorale, potendo contare sull’appoggio del ceto medio cittadino, impiegati e tecnici, e poi dei dirigenti della miniera, equamente distribuiti, appunto, fra sardisti e democristiani.  Mentre  a fianco della DC, il Psd’az avrebbe trovato la sua collocazione politica sui banchi del Consiglio comunale di Carbonia, contro la maggioranza PCI-PSIUP, subito dopo la scissione di Emilio Lussu e della nascita del Psd’az socialista. Del resto le sue scelte furono in quegli anni ancora più disinvolte e spregiudicate, come quando accolse tra gli iscritti quell’ingegner Cioni che, durante il fascismo, si era reso così inviso agli operai, in ossequio alla rigida e ossessiva disciplina imposta dal regime in miniera. O come quando, essendo il partito del tutto estraneo al processo politico che aveva portato alla nascita  dell’organizzazione sindacale unitaria e delle leghe dei minatori,  tentò maldestramente di dare vita ad associazioni di contrasto, alternative, aprendo uffici di consulenza per operai e impiegati. E si riferiva in particolare, il Lavoratore del 1 dicembre 1945 e poi del 16 febbraio 1946, alla ‘lega autonoma degli impiegati’, sorta a Bacu Abis, appunto per iniziativa del Psd’az,  e poi sciolta spontaneamente dagli impiegati stessi, che entrarono, subito dopo, “nella lega dell’industria, della quale fan parte tutti i lavoratori”. E lo stesso giornale, il  23 febbraio 1946, non avrebbe esitato a definire provocatori i dirigenti del Psd’az quando, avendo l’azienda  e la federazione minatori, stabilito di effettuare direttamente in busta paga, secondo accordi nazionali, la trattenuta della quota  di iscrizione alla CGIL di 128 lire mensili, accusarono l’organizzazione sindacale di essersi appropriata indebitamente  dei denari degli operai. Perché si voleva screditare la rappresentanza sociale agli occhi dei minatori, secondo il giudizio contenuto nelle testimonianze degli attivisti di quel tempo, e “costringere le sinistre ad attestarsi su posizioni di intransigente difesa, onde ostacolarne il cammino verso la costruzione dell’unità di tutti i lavoratori”.  Specie dopo la nascita in città del Psd’az socialista di Emilio Lussu, che finalmente concretizzava l’intesa politica con le sinistre.

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