I rapporti tra democrazia e mercato

11 Dicembre 2010
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Gianfranco Sabattini

Mai, come in questo momento di crisi dei mercati finanziari internazionali, il rapporto tra democrazia e capitalismo è stato oggetto di riflessione di economisti e di politologi. Vi è chi sostiene che la democrazia è un impedimento al corretto funzionamento dei mercati e chi, invece, sostiene che, senza la democrazia, i mercati andrebbero incontro a gravi disfunzioni, a causa dell’incertezza e dell’instabilità originata dalla loro mancata regolazione. Fra i sostenitori di quest’ultima posizione risultano di particolare interesse le analisi critiche di Jean-Paul Fitoussi (La democrazia e il mercato) e di Michele Salvati (Capitalismo, mercato e democrazia).
Il primo, autorevole economista francese, respinge i luoghi comuni, generalmente condivisi da gran parte degli economisti che condividono l’ideologia liberista. In particolare, respinge i luoghi comuni che rinvengono nel sistema di sicurezza sociale istituzionalizzato all’interno dei paesi di antica democrazia e nella regolamentazione dei mercati l’origine delle difficoltà della crescita e dello sviluppo che affliggono tali paesi, nonché l’origine della bassa produttività dei loro sistemi economici. Per Fitoussi, i sostenitori dell’ideologia liberista sono stati costantemente smentiti dall’esperienza fattuale; infatti, tutte le loro analisi non sono valse sinora a dare una risposta a quanto, oltre settanta anni or sono, John Maynard Keynes imputava alla libertà non regolata dei marcati. Notoriamente, secondo il grande economista inglese, i due vizzi capitali di un’economia di mercato senza regole sono la mancanza di un impiego sicuro e una ripartizione del reddito arbitraria e priva di equità. A fronte di questi vizzi, i liberisti non hanno mai indicato le istituzioni più convenienti per la loro rimozione. Anzi, per le crisi che da allora hanno investito sempre più frequentemente i paesi più industrializzati sono stati incolpati i governi che, con il loro interventismo, si sarebbero sottratti alla responsabilità di creare, all’interno dei loro sistemi sociali, delle vere economie di mercato. Conseguentemente, le crisi sono state prevalentemente viste come tipica conseguenza del fatto che, con l’intervento dei governi, sarebbero state create delle strutture istituzionali che, a causa della loro apertura ad un’eccessiva solidarietà e al perseguimento di una distribuzione del reddito sempre più equa, avrebbero concorso a creare le condizioni di una crescita scarsa e di elevati livelli di disoccupazione.
Poiché l’interventismo regolatore dei governi sarebbe, per i liberisti, la conseguenza di un allargamento del processo di democratizzazione delle strutture politiche, la causa della bassa crescita e dell’alta disoccupazione viene individuata, in ultima istanza, nella democrazia; l’unica soluzione, perciò, dovrebbe consistere nel subordinare la forma di governo, cioè la democrazia, alle “esigenze” del mercato, nel rispetto delle necessarie “libertà economiche”. La migliore forma di governo, quindi, dovrebbe essere identificata con quella che assicura un livello di libertà politica sufficiente ad impedire che i governi si aprano, oltre ogni limite giustificabile sul piano economico, alle richieste di una crescente giustizia sociale.
Michele Salvati, noto economista-politico italiano, completa l’analisi critica dell’ideologia liberista di Fitoussi, sottolineando la ineludibilità per i governi di dover conciliare, per i sistemi sociali industrializzati che aspirino alla libertà ed all’efficienza, la democrazia con il capitalismo. La sua analisi, infatti, dimostra, da un lato, che il capitalismo non ammette alternative dal punto di vista dell’efficienza produttiva, e, dall’altro, che la superiorità del capitalismo può essere garantita solo se, dal punto di vista istituzionale, è assicurata una generalizzata condizione di uguaglianza di tutti i componenti il sistema sociale, sia dal punto di vista politico, che dal punto di vista economico. Questo duplice aspetto istituzionale del funzionamento efficiente ed equo del sistema economico non implica, perciò, la reiezione dell’importanza del ruolo delle azioni regolatrici dei governi quando, a causa degli esiti degli “animal spirit” che motivano gli agenti economici alla ricerca del profitto, l’uguaglianza politica ed economica dei soggetti che compongono il sistema sociale si dissolve. In questo caso, per evitare che la democrazia neghi sé stessa e vanifichi la superiorità dei liberi mercati sul piano dell’efficienza economica, occorre che l’intervento “riparatore” dei governi ristabilisca la compatibilità del capitalismo con la democrazia. Ciononostante, i liberisti, mentre sono soliti mostrarsi preoccupati che gli interventi riparatori non siano eccessivamente restrittivi delle libertà economiche, restano muti quando segmenti importanti del mondo economico, come ad esempio le banche d’investimento, dopo aver fruito degli aiuti governativi necessari alla loro conservazione sul mercato per superare la situazioni di crisi da loro stessi determinate, tornano, in momenti successivi, a speculare sulla “capacità di tenuta dei conti pubblici”, anche quando l’insostenibilità di questi sia in parte da ricondursi ai consistenti aiuti pubblici ricevuti.

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