Riforma della giustizia: la deriva autoritaria e “Sostiene Latorre”

1 Settembre 2008
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di Enrico Palmas e Carlo Dore jr.

In una lunga intervista rilasciata in esclusiva al direttore de “Il Giornale”, il Ministro della Giustizia Alfano ha indicato le linee – guida della proposta di riforma del sistema giudiziario destinata ad essere sottoposta all’esame del Consiglio dei Ministri entro la fine di settembre. Dichiarando di ispirare le proprie scelte alle idee di Giovanni Falcone, il Guardasigilli ha individuato una volta ancora nella separazione delle carriere dei magistrati, nella radicale ridefinizione dei criteri di composizione del CSM, nel superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale i passaggi fondamentali per restituire efficienza e credibilità ad una giustizia prossima al collasso.
Mentre l’ANM non ha esitato a denunciare il rischio di una deriva autoritaria volta a mettere la Magistratura sotto tutela, alcuni settori del principale partito di opposizione lasciano aperto più di uno spiraglio al dialogo con l’Esecutivo. In particolare, Nicola Latorre (che già aveva espresso il proprio gradimento con riguardo all’iniziativa diretta ad ottenere la nomina di Berlusconi alla carica di Senatore a vita, nell’ambito di una non ben precisata strategia di “pacificazione nazionale”) sostiene che le posizioni del sindacato delle Toghe esprimono «una preoccupazione corporativa a prescindere dal contesto e dalle ipotesi di riforma. Ci si muove sulla base di parti in commedia che abbiamo conosciuto in questi anni e che non hanno mai fatto fare un passo avanti alla discussione sui temi della giustizia».
Proprio le dichiarazioni del Senatore del PD rendono però necessaria la formulazione di alcuni interrogativi in ordine alla linea di azione che, sul delicatissimo tema della giustizia, l’area democratica deve contrapporre allo strapotere berlusconiano. Posto che – sostiene Latorre - «le riforme non le faranno né gli avvocati né i magistrati. Entrambi saranno ascoltati ma sarà il Parlamento ad agire» e che – sostiene sempre Latorre - , ferma restando la centralità della separazione dei poteri, «possiamo discutere di tutto, anche di obbligatorietà dell’azione penale», non possiamo non chiederci: le misure elaborate dal Guardasigilli potranno contribuire a risolvere gli eterni problemi della giustizia italiana? In altri termini: la seperazione delle carriere dei magistrati, la sostanziale sterilizzazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’incremento del numero dei componenti laici del CSM, la creazione di una sezione disciplinare “sganciata” dal CSM, e per finire la boutade del PM  eletto direttamente dai cittadini (singolare disegno di politicizzazione della magistratura elaborato dai più irriducibili oppositori delle “toghe militanti”) potranno favorire la realizzazione di un sistema giudiziario più rapido ed efficiente, tale da garantire un effettivo punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza dei cittadini e la necessità di garantire i diritti dell’imputato?
Allo stato delle cose, la risposta a siffatti quesiti non può che tradursi in un secco niet. Come correttamente ha osservato Gerardo D’Ambrosio, se da un lato la separazione delle carriere è finalizzata soltanto a «scoraggiare i magistrati che indagano sui potenti» (imbrigliandoli nella tagliola costituita da un’azione disciplinare riconnessa ad un soggetto sottoposto al potere politico e da progressioni di carriera dipendenti da non ben precisate valutazioni di competenza), d’altro lato il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale di fatto attribuisce al Parlamento il potere di individuare quei reati “socialmente allarmanti” da perseguire in via prioritaria. E’ quindi facile ipotizzare come, mentre Procure e Tribunali rimarranno sommersi dai processi per reati contro la persona e contro il patrimonio (con buona pace di quanti reclamano a gran voce provvedimenti diretti a contrastare le lungaggini del sistema processuale), i fatti riconducibili alla c.d. “criminalità economica” saranno destinati a restare nella sostanza impuniti.
Premesso che le argomentazioni dirette ad attribuire a Giovanni Falcone la paternità morale della riforma che si esamina (lo stesso Pietro Grasso ha ribadito che mai Falcone avrebbe accettato l’idea di una magistratura asservita alla volontà dell’Esecutivo e della maggioranza che lo sostiene), la “bozza Alfano” non sembra prendere in considerazione quelle riforme strutturali - assunzione di nuovi magistrati; revisione e razionalizzazione degli assetti dei vari uffici giudiziari; eliminazione di un grado di giudizio nel processo penale; depenalizzazione di quei reati minori che potrebbero essere efficacemente sanzionati in termini di illecito amministrativo - di cui il nostro sistema giudiziario sembra avere davvero bisogno.
Spetterà quindi ai tanti esponenti dell’area democratica (da Furio Colombo a Gianrico Carofiglio; da Nando dalla Chiesa allo stesso Gerardo D’Ambrosio) che hanno individuato nella difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura l’argomento fondamentale del loro impegno politico il compito di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su queste effettive priorità, e di contrastare così la “deriva autoritaria” della giustizia che la riforma elaborata dall’Esecutivo rischia di innescare, superando una volta per sempre le illusorie prospettive di dialogo a cui la logica del “sostiene Latorre” sembra ancora fare riferimento.

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