Il 2012 è anch’esso s’annu doxi?

31 Ottobre 2012
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Andrea Pubusa

Passerà il 2012 alla memoria dei sardi come “s’annu doxi”, come l’anno della fame? Come s’annu doxi vero, quello della grande fame e, non a caso, della rivolta di Palabanda? Il paragone, formulato da qualcuno nelle rievocazioni della rivolta di due secoli fà, a primo acchito, mi è sembrato forzato. La fame del 1812 era fame vera, quella che nelle narrazioni delle grandi carestie del passato ha manifestazioni paurose. Gli uomini che, animalescamente, tornano a mangiare l’erba, a praticare perfino il cannibalismo, a morire nelle strade colpiti dalla fame e dalle pestilenze.
Amarthia Sen ci ha insegnato che la democrazia, fra i suoi tanti meriti, ha anche quello di aver sconfitto le  grandi carestie. L’informazione e la prevenzione consentono di avere riserve  per gli anni negativi. La solidarietà, assicurata dallo Stato democratico, fa il resto: anche i ceti popolari riescono a sopravvivere. Le pestilenze sono vinte dal sistema sanitario e dalla diffusione dell’acqua.
Una forzatura dunque il paragone fra il 1812 e il 2012? No e sì. No, se si pensa ad una improponibile replica. Sì, se si pensa allo sfascio del sistema produttivo e alla disoccupazione dilagante. Mentre si svolgeva il Convegno all’Orto botanico, l’orto di Palabanda dell’Avv. Salvatore Cadeddu, dove si riunivano i cospiratori nel 1812, nella vicina viale Trento il Sulcis, la zona più povera d’Italia, era in piazza per chiedere al governatore della Sardegna, Carlo Felice…, pardon!, Ugo Cappellacci, misure per ridurre la disoccupazione endemica, per combattere la mala stagione di oggi, la chiusura delle fabbriche e la riduzione delle attività economiche, la pura sopravvivenza dell’agroalimentare.
A ben pensarci, anche oggi esistono i ceti parassitari, come nell’Ancien Régime. Vivono senza produrre, ma assorbono gran parte dell reddito. O hanno compensi sproporzionati rispetto a quanto fanno. Basta guardare la ricchezza ostentata nei porticcioli turistici per rendersi conto che, mentre gran parte della società si arrabbatta per tirare a campare, altri possono gettare al vento, negli ozi e nello svago, una ricchezza, che, per la sua smodatezza, non può essere frutto del lavoro, ma di sistemi perversi di attribuzione. La gente vede sopratutto nello status dei politici questa artificiosa creazione di privilegi. Ma questa è la fascia più visibile, non la più estesa e neppure la più privilegiata.
Ma oggi c’è anche Vittorio Emanuele I° o Carlo Felice? E’ certo una forzatura. Ma chi oggi lascia alla mano invisibile del mercato l’opera di aggiustamento della situazione certo si avvicina a quei governanti preoccupati solo delle sorti dei ceti alti. Ed oggi la politica delle grandi istituzioni mondiali ed europee è su questa linea. E lo è Monti, il quale, da ferreo iperliberista, imperturbabile non muove un dito per salvare qualcosa dell’apparato industriale italiano. Non è affare del governo, dice, ma delle forze sociali, imprese e sindacati. Il governo Monti fa strame dei diritti sociali e beffardamente le chiama riforme. L’aspetto curioso della vicenda è che alla fedeltà al re dei sardi di allora corrisponde la credibilità di Monti oggi, non presso i suoi amici delle centrali ipeliberiste mondiali, ma perfino nel maggior partito della sinistra parlamentare italiana. Sta facendo il deserto nei settori produttivi e nei diritti, sociali e territoriali, ma dicono (Napolitano prima di tutti) che sta realizzando riforme impressionanti.
Come possano P.Torres, P. Vesme, Ottana, Villacidro e gli altri  settori produttivi riprendersi, senza una politican industriale statale, è un mistero. Ma oggi non esistono centri organizzativi capaci non dico di sacrosante ribellioni, ma di un programma serio di fuoriuscita dalla crisi con la mobilitazione consapevole delle masse. Dalle elezioni siciliane vengono segnali opposti e inquietanti. E’ vero s’annu doxi è lontano, ma lo sfascio produttivo e democratico è vicino, qui fra noi, grande. E il futuro è oscuro.

Ecco ora una scheda sull’anno fatidico, tratta da Storia della Sardegna – 27.3.1996 - MP

Su famini de s’annu doxi
Ci sono avvenimenti nella storia che entrano così profondamente nell’immaginario collettivo che, tramandandosi di generazione in generazione, sembra siano avvenuti in tempi relativamente recenti, perché ce ne ha fatto cenno il nonno e a lui ancora il nonno e via dicendo; o anche perché certi fatti si ripetono ciclicamente nella storia.
E’ certamente il caso delle carestie, pesti, calamità naturali, guerre, che hanno spesso una conseguenza comune, la fame.
La fame è ricordata dall’uomo a prescindere dai libri di storia, ha riferimenti cronologici precisi, ma si confonde con altra fame, per cui viene evocata senza differenze “su fami de s’annu doxi” (e s’intende il 1812, ma la percezione temporale è ormai persa), definito anche “s’annu de su famini”, o “su fami de su quarant…” (e qui c’è ampia facoltà di scelta, in quanto il riferimento varia a seconda dell’interlocutore di un arco di tempo che va dal quarantatre al quarantotto… seconda guerra mondiale).
A noi bambini “viziati” ci ha sempre accompagnato un tormentone simile: “chi teniast su famini chi tenia deu me in su quarantaquattru, bidiast comenti tu ddu papasta!” (se tu avessi la fame che avevo io nel 1944, mangeresti rapidamente tutto di sicuro).
Lo scenario del 1812 in Sardegna fu dunque drammatico, le piogge eccessive degli anni precedenti, impedirono la semina e ne derivò, specie quell’anno, una grave carestia e la conseguente peste.
Le descrizioni che si hanno di Cagliari in quell’anno ricordano molto da vicino la Milano manzoniana del seicento.
Voglio brevemente descrivere il contesto politico/amministrativo di quegli anni.
Ho già fatto cenno in precedenti post a come i piemontesi si sono insediati nel Regno di Sardegna, alle loro convenienze, al loro sfruttamento, ai diversi tentativi di disfarsi dell’Isola, al banditismo che si opponeva alla loro iniqua amministrazione.
In questo quadro, i pochi spiragli di luce sull’Amministrazione sarda, seppur sempre di natura reazionaria, erano dovuti ad alcuni viceré più attenti a qualcosa che non fosse esclusivamente l’esazione delle tasse e più preoccupati, dal loro punto di vista, allo stato dell’Isola.
Nella seconda metà del settecento venne segnalata al Re la necessità di dividere il territorio in Province (come avveniva già in Piemonte) e nel contempo istituire in ognuna di esse una Prefettura, che sovrintendesse in particolar modo alle questioni economiche e all’ordine pubblico (negli anni sessanta del settecento, in un anno, l’attività banditesca aveva ucciso 760 buoi da lavoro per contrastare il potere feudale, eredità spagnola.
Il Re (Carlo Emanuele III) non accolse l’istanza, sostenendo che l’inserimento di nuovi funzionari nel territorio avrebbe limitato il potere feudale, facendo osservare che vi erano già i Consigli Comunitativi (una fattispecie analoga agli attuali Consigli Comunali) a limitare quel potere.
Vittorio Amedeo III, che era Re allo scoppio della Rivoluzione francese, si servì di una memoria sulla Sardegna scritta dal conte Rossi e dopo i deboli tentativi di attacco giacobino del 1792/93, fece costruire delle piazzeforti per la difesa militare e progressivamente affiancò ai militari dei funzionari amministrativi (Intendenti). Con il passare del tempo essi si occuparono in particolare di aspetti produttivi e furono affiancati da giudici (amministratori della giustizia nei territori periferici) e governatori (legati all’attività militare).
Vi fu dunque un complesso percorso che, dal 1807 al 1814, portò all’istituzione delle Prefetture in Sardegna. Il territorio fu diviso in quindici province (otto a settentrione, sette a meridione).
I prefetti ebbero tutti i poteri degli intendenti e dei giudici, dunque di natura economica e giudiziaria. Il percorso non fu esente da problemi, visto che il nuovo apparto si scontrava con quello feudale, costituendone sotto diversi aspetti un doppione. Anche il feudatario, infatti, aveva una struttura giudiziaria, dai tribunali alle carceri.
Si decise pertanto che i tribunali feudali dovessero funzionare solo per la prima istanza (il primo grado). La seconda spettava alla Prefettura.
Iniziò così lo scontro con le istituzioni feudali (soprattutto in mano a spagnoli che ormai si erano stabiliti in Sardegna). La Spagna non poté intervenire in loro difesa in quanto occupata dai francesi.
Nacquero gli archivi, il controllo sull’operato dei Consigli Comunitativi, ma non fu esclusivamente un controllo sull’amministrazione, venivano controllati anche i costumi e le idee della gente. Nasceva insomma lo stato di polizia.
I Prefetti in genere erano sardi, in quanto nominati dal viceré; si affrontò anche la soluzione dei loro problemi logistici.
Ciò si compiva sotto Carlo Emanuele IV e Vittorio Emanuele I.
I sardi, assoggettati e immobilizzati dalla burocrazia, potevano ben dire che si stava meglio quando si stava peggio.
Questo intricato controllo sociale non fu capace di evitare s’annu de su famini, fame solo per il popolo s’intende.
(Storia della Sardegna – 27.3.1996) MP

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