Democrazia ad alta energia?

30 Aprile 2008
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Franco Mannoni

Il libro che mi permetto di consigliare  per contribuire al dibattito politico di casa nostra è “Democrazia ad alta energia” di Roberto Mangabeira Unger, Fazi Editore, 2007. Non ricordo come ci sono arrivato. Probabilmente entro una ricerca di voci fuori dal coro che introducano nella discussione politica elementi di novità e dissonanze potenzialmente feconde. Sicuramente la cultura europea è in grado di elaborare e di proporre analisi e soluzioni rispetto alla condizione dell’uomo e delle nazioni degli anni duemila. Al suo interno poco quella italiana, molto di più quella francese e tedesca. Trovo però sempre più ampio lo spazio che vanno occupando le idee che nascono da esperienze legate alla cultura indiana e a quella brasiliana anche quando fortemente ibridate da contaminazioni americane: penso ad Amarthia Sen, ovviamente, ma anche a Jadish Bhagwati e a Prem Shankar Jha. Roberto Mangabeira Unger è brasiliano. E’ evidente come l’affacciarsi, ormai imponente, di nuovi protagonisti economici sulla scena mondiale, si accompagni a una correlativa capacità delle culture di riferimento, di proporre nuove linee guida. Questo può agevolare lo spostamento dei ragionamenti sull’economia e sulla politica da un asse presuntuosamente eurocentrico a una visione più autenticamente mondiale.
Anche la nostra discussione sul Partito Democratico necessita, allargandosi a maggior ragione dopo la sconfitta elettorale, di attingere a tali contributi. Particolarmente, nel caso di Unger, perchè egli si colloca in maniera critica e innovativa rispetto allo schema ortodosso socialdemocratico nel quale troviamo Antony Giddens, Ulrich Beck e, in casa nostra, Michele Salvati. Non per accettarne in toto e acriticamente le proposizioni, quanto piuttosto per ricavare elementi di ampliamento, di riflessione e approfondimento dei temi che sono al centro del dibattito.
Unger a prima vista, può apparire un utopista, mentre non lo è. Al contrario è un pragmatico, che si adopera per cambiare le cose.
Personalmente non diffido poi tanto dell’utopia. Anche se per molti è stata dichiarata morta o, comunque , va guardata con diffidenza. Sono convinto che non si costruisce il nuovo senza ambizioni in qualche modo collegabili in un orizzonte utopico.
Persino Il popolo della libertà, che un partito vero e proprio non lo è, si è costituito intorno a un nucleo di scopi (obiettivi, idee) di derivazione individualista ed egoista, ma connotati da un tanto di utopia. Libertà, iniziativa privata, liberazione dall’oppressione di apparati burocratici e politici, affermazione individuale sulla base delle capacità.
Infatti un partito non nasce e non acquisisce consensi perché si propone come un elemento di semplificazione del sistema politico. Anche se, bisogna dirlo, miglior funzionamento del sistema politico è anche miglior funzionamento della democrazia. L’adesione e la militanza sono suscitati però da obiettivi capaci di investire anche più di una generazione, di disegnare un mondo più accettabile per uomini più liberi e liberati dall’oppressione del bisogno e della precarietà.
A cosa attinge il PD? Alle culture dei confluenti. D’accordo, ma è un gioco di parole.
Si tratta di culture di cui sopravvivono elementi importantissimi (cultura del lavoro, della solidarietà, del valore della persona, dei rapporti di classe. Ma ciascuno dei trapassati (quelli veri, DC,PCI, PSI) ha in qualche misura fallito. I loro attuali corrispondenti nella scena europea, la socialdemocrazia e il partito popolare, non sono in grado di creare e offrire un quadro generale efficace e credibile di critica alla società di mercato nel tempo della globalizzazione e una proposta di breve, medio e lungo termine per superarne iniquità e contraddizioni. Una proposta che contenga quel tanto di utopia che aggiunga potenza al carburante ideale attuale.
Se è vero che il Partito Democratico non si omologa a nessuna delle esperienze passate, pur riferendovisi, deve avere  l’ambizione di costruire una piattaforma innovativa , attingendo anche alla frontiera della più aggiornata elaborazione della cultura progressista mondiale.
Tutto ciò premesso, non è che si possa leggere Mangabeira Unger con l’intento di trasferirne gli indirizzi nella nostra quotidianità. Il testo peraltro è ricco di critiche, idee e suggestioni delle quali fare tesoro, per tutte le organizzazioni che hanno come stella polare la messa in discussione del turbo capitalismo e delle inique ricadute conseguenti alla mercatizzazione. Denso di convinzioni e di speranze, di uno spirito di cui c’è bisogno. A partire dalla sua considerazione del mercato, di cui rifiuta l’ineluttabilità della corrente forma di funzionamento, per proporne una trasformazione che ne massimizzi le positività. E poi tanto altro sulla democrazia e le istituzioni.
Si parva licet…..ne possiamo trarre stimolanti indicazioni per le discussioni sul futuro dell’autonomia regionale.

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