Perché l’economia perde credibilità?

1 Dicembre 2014
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Gianfranco Sabattini

Sul numero di ottobre 2014, “Aspenia”, la rivista trimestrale dell’”Aspen Institute Italia”, un’associazione privata, indipendente, internazionale, apartitica, caratterizzata dall’approfondimento, la discussione, lo scambio di conoscenze ed informazioni sui problemi del mondo attuale, ha pubblicato un articolo di Stefano Baietti e Giovannei Farese dal titolo volutamente polemico: “Economia senza economisti: una battaglia storica”.
L’articolo è un atto di accusa rivolta contro gli economisti, rei d’aver stravolto la scienza economica da scienza sociale in un’”accozzaglia” di procedure che, privilegiando la convenienza rispetto alla verità, ha impedito che la teoria economica si conservasse al servizio della collettività; ciò perché la teoria economica ha perso ogni capacità di contribuire a risolvere i problemi del mondo moderno, ma soprattutto perché ha cessato di elaborare strumenti in grado di migliorare le condizioni esistenziali dell’uomo, così come era avvenuto sino ad un recente passato.
Baietti e Farese osservano che, tra il 1935 ed il 1965, gli economisti hanno “ben lavorato”, allargando di continuo “i limiti dell’area coperta dalla loro scienza”, vincendo numerosi premi Nobel “per i loro contributi al patrimonio conoscitivo-valutativo dell’umanità”; per contro, continuano Baietti e Farese nella formulazione del loro atto d’accusa, è assai difficile che gli economisti che nel periodo compreso tra il 1985 ed il 2015 hanno concorso a creare nuove fortune e nuove convenienze per pochi vedano “riconosciuto con il premio Nobel il proprio apporto al mutamento di orizzonte”. Non è proprio così, perché, come si ricorderà, anche nel periodo indicato da Baietti e Farese alcuni economisti sono stati insigniti dell’ambito premio, proprio per aver orientato l’economia in modo diametralmente diverso rispetto al passato.
La cesura subita dalla teoria economica l’ha resa oggi “sempre meno in grado di padroneggiare la realtà della vita economica del pianeta”, per via del fatto che l’economia finanziaria e l’economia reale sono divenute due realtà separate, al pari di due “asteroidi lanciati su rotte divergenti”. Questa divergenza, determinata dall’aumentata fianziarizzazione della ricchezza accumulata e dalla corrispondente diminuzione del suo impiego nell’economia reale, giustifica oggi perché, su base annua, la “somma del PIL di tutti gli Stati del mondo è dell’ordine di grandezza di un centesimo del valore delle transazioni finanziarie”. Ciò ha fatto sì che i problemi finanziari diventassero materia di approfondimento quasi esclusivo della teoria economica; indirizzando la conduzione degli studi dei fatti economici, verso una fase che Baietti e Farese qualificano come “evoluzione-involuzione”. Questa, nei tempi più recenti, è consistita nel fatto che i benefici dell’ingegno profuso nell’approfondimento della conoscenza economica siano “diventati meno disponibili per larga parte dell’umanità”.
La divergenza di rotta dell’economia finanziaria da quella reale ha avuto un impatto anche sulle espressioni linguistiche con cui in passato veniva designata la teoria economica. “Negli anni Settanta prima e negli anni Novanta poi – affermano Baietti e Farese – la scienza economica diventa economics senza aggettivi e poi economics and finance: a segnare prima l’assolutizzazione rispetto alla polis e al ‘politico’ e, dopo, lo scollamento tra variabili reali e varibili finanziarie”. La fase dell’evoluzione-involuzione della teoria economica è giunta in tal modo a caratterizzarla come scienza al servizio di pochi e come conoscenza a disposizione di chi vuole arricchirsi a “prescindere dal benessere della società”. Si è avuto così un impoverimento della teoria economica, nel senso che essa ha perso di vista la visione macroeconomica del sistema sociale, tanto da giustificare, secondo Baietti e Farese, il chiedersi a che cosa serva oggi l’economia. La risposta che essi danno è che la conoscenza scientifica dei fatti economici serve a poco se non si accompagna alla “conoscenza degli interessi che premono” e degli istituti che dovrebbero regolarli; la probabilità che ciò possa avvenire è strettamente correlata al ritorno al metodo privilegiato dagli economisti del passato.
Occorre infatti partire dal punto di vista dello studio del funzionamento dell’intera economia nazionale, secondo una prospettiva macroeconomica, perché la teoria economica possa riacquisire la funzione di scienza sociale al servizio delle comunità; solo in questo modo la teoria economica, come già sottolineato da Alfred Marshall, può divenire la “molla principale” per liberare l’uomo dal bisogno. Gli economisti del tempo di Marshall, ispirati dai grandi progressi delle scienze naturali, hanno contribuito a forgiare uno strumento (la teoria economica) con cui è stato possibile analizzare l’”ingegnosissimo e potentissimo meccanismo sociale” che è servito a creare “un’opulenza materiale non solo mai vista prima, ma anche una straordinaria ricchezza di nuove opportunità”. Rimaneva, tuttavia, un problema irrisolto, che l’elaborazione teorica di John Maynard Keynes, nel periodo dei fatidici anni 1935-1965 evocati da Baietti e Farese, ha consentito di regolare il problema della giustizia sociale nel rispetto dei principi di efficienza e di libertà individuale.
Gli economisti del passato, quindi, a differenza di quelli attuali, sono sempre stati motivati dal desiderio di trasformare gli uomini in artefici del proprio destino; cioè, dal desiderio che le loro idee potessero essere usate per promuovere sistemi sociali caratterizzati dalla libertà individuale e dall’abbondanza, invece che dalla rovina morale e materiale di molti e dall’accumulazione di privilegi da parte di pochi.
E’ questo il segno qualificante dell’avvento dell’economics and finance, inaugurata negli ultimi decenni del secolo scorso dalle “innovazioni teoriche” di due economisti finanziari, Harry Markowitz e Bill Sharpe, insigniti del premio Nobel per aver elaborato modelli di rischio e rendimento per la gestione degli investimenti finanziari. Il contributo pionieristico di Markowitz e Sharpe ha dato la stura alla successiva elaborazione delle tecniche di securitization, che hanno consentito che la finanziarizzazione delle economie si espandesse attraverso il trasferimento del rischio di credito delle istituzioni finanziarie con la “cartolarizzazione” dei titoli di credito, con i tanto discussi “contratti derivati” e con l’”invenzione”, con il nuovo millennio, dei fondi speculativi (hedge fund o fondi comuni di investimento), che sono serviti a legare il funzionamento dei moderni sistemi economici ai risultati di una perenne lotteria nazionale.
Stando così le cose, è possibile ricuperare la teoria economica alla sua funzione originaria? Si possono nutrire fondati dubbi sulla possibilità che ciò possa avvenire in un orizzonte temporale prevedibile; in un clima intellettuale che, anziché orientarsi a porre rimedio alle deviazioni subite dalla scienza economica, preferisce invece pensare di “tamponare” le conseguenze della crisi dei prestiti immobiliari subprime con la creazione di “bad bank” per la gestione dei crediti deteriorati e di poter favorire il superamento della crisi ancora in atto da quei prestiti causata attraverso attività speculative non più immobiliari, ma mobiliari, è la “prova provata” che ha senso chiedersi: a che cosa servono gli economisti, se, anziché essere i professionisti esperti utili per la cura dei “mali sociali”, ne sono la causa?

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