Violenza sulle donne: le parole sono importanti…

19 Agosto 2016
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Da Repubblica.it del 3.8.2016

Vania, data alle fiamme da un ex compagno geloso, è morta oggi dopo aver riportato ustioni sul 90% del corpo. In un altro luogo, a Caserta, Rosaria, è stata uccisa con 12 coltellate dal compagno, che poi l’ha chiusa in un sacco a pelo e si è costituito. Martina, invece, è stata uccisa dall’ex fidanzato della figlia che lei aveva allontanato perché pericoloso. La cronaca ci restituisce nuove storie di terrrore e nuovi motivi per inorridire, a pochi giorni dall’emergere di particolari sul delitto della Magliana (Sara è stata soffocata, prima di essere data alle fiamme), e dall’azione “raccapricciante” di Matteo Salvini che mostra dal palco a Soncino una bambola gonfiabile definendola “la sosia di Laura Boldrini”.
Cosa hanno in comune queste storie? La banalizzazione della violenza sulle donne e una cultura sessista diffusa. Perché se un uomo politico può usare quel linguaggio impunemente, come facciamo a spiegare ai nostri figli che le donne non sono oggetti di consumo e meritano rispetto?

Torniamo a parlare di un tema mai finito: la violenza di genere. Sistematica, trasversale, specifica e gravissima, culturalmente radicata, una violazione dei diritti umani tra le più diffuse. I dati statistici sono inquietanti, e malgrado le campagne di sensibilizzazione non sono migliorati negli ultimi anni. Resta cioè un problema serio che colpisce individui, famiglie, comunità, la società nel suo complesso. Superando ogni confine, non c’è luogo al mondo dove la violenza di genere sia eliminata. Ed esiste inoltre un sommerso di violenze “ordinarie” su bambine, ragazze e donne di drammatiche proporzioni, nel quale rientrano anche forme più subdole, meno eclatanti, che annientano la soggettività della donna sul piano psicologico, economico e sociale, con conseguenze insidiosamente distruttive di vasta portata.

LA VIOLENZA NON È (SOLO) ALTROVE
Alziamo spesso il dito contro comunità e paesi dove le donne sono costrette nel burqua, lapidate per adulterio, e bambine stuprate e uccise da gruppi di maschi. Ma sulle nostre atrocità siamo restii, tendiamo a confinarle come episodi di cronaca nera, a considerarle lontane da noi, quasi non ci appartenessero. Non sembra, tutto sommato, ci sia uno sforzo attivo, un impegno sociale volto ad estirpare, a lavorare dal basso verso la violenza contro le donne, come succede ad esempio per la lotta contro il cancro al seno. In Italia viene assassinata una donna ogni due o tre giorni. Secondo il terzo rapporto Eures riferito all’anno 2014, nel 94% dei casi l’assassino è uomo: il coniuge, il convivente, il fidanzato, un ex, a volte il padre. Si tratta di delitti particolarmente efferati, realizzati con armi da taglio oppure a mani nude attraverso percosse, strangolamento, soffocamento. I corpi sono fatti a pezzi, bruciati, gettati in un burrone. Gelosia e possesso i moventi nella maggioranza dei casi. Come donne veniamo assassinate perché si decide di uscire da una relazione di coppia, si esprime l’intenzione di farlo, si sceglie un nuovo compagno, si dà adito a gelosie. In altri casi perché ad un certo punto il nostro partner vuole eliminarci come oggetto di intralcio. Per noi è l’intimità il luogo più violento al mondo.

LA VIOLENZA BANALIZZATA
Omicidio passionale, amore criminale, imprevedibilità del gesto folle, gelosia e raptus incontrollato sono però definizioni pericolose e fuorvianti. Perché non fanno capire cosa succede veramente. Non dicono che ci sono in genere denunce, abusi e maltrattamenti precedenti, escalation di vessazioni e persecuzioni. Non fanno capire che molte volte la donna ha denunciato e chiesto aiuto ma sono mancate risposte adeguate dal punto di vista istituzionale. Non aiutano a comprendere lo scenario inquietante di queste barbarie, una cultura millenaria di possesso dell’uomo sulla donna, e di sottomissione femminile. Della sopravvivenza di convinzioni pericolose legate al rapporto uomo-donna che affondano nel sentire comune, che portano lei a nascondere l’abuso, a non riconoscerlo, a pensare che poi lui cambierà, che se maltratta è “perché mi ama veramente, bisogna sopportare, l’amore violento è quello più forte”. Non rendono chiaro che la violenza è utilizzata nelle relazioni per affermare potere, controllo, dominio e possesso maschile sulla donna. Che sussistono atteggiamenti e credenze a sostegno della violenza che influenzano il comportamento dei singoli, si infiltrano nelle relazioni, nelle comunità. Quando si giustifica, si scusa, si pensa che alla fine gli uomini siano biologicamente predisposti, impossibilitati a frenare il loro impeto aggressivo o sessuale. Quando si banalizza pensando che la violenza in una coppia sia dopotutto inevitabile, forse le donne “godono” ad esse stuprate e se vogliono possono lasciare un compagno violento. Si nega, pensando che le donne esagerino sulle affermazioni di abuso. Si dà la colpa a chi subisce, a chi dice no ma vuole dire sì. Si tende ad avere una percezione ristretta nell’interpretazione della violenza, si riducono al minimo i danni. Si mostra meno empatia con la vittima e più con l’aggressore.

PARLIAMO DI VIOLENZA
Oggi si discute sull’appropriatezza del termine femminicidio, ci sono resistenze alla sua introduzione, sembra distingua forzatamente il delitto sulla base del sesso della vittima. Di contro l’esigenza di identificare un concetto nuovo, o meglio un fenomeno tristemente antico, verso il quale è cambiata però la percezione della gravità. Non possiamo comunque fare a meno di ricordare che fino a ieri nella nostra storia, precisamente il 1981, questo tipo di crimine era salvaguardato. Il nostro ordinamento giuridico prevedeva infatti pene scontate ad un uomo che uccideva in un impeto d’ira la moglie, la figlia o la sorella al fine di salvaguardare l’onore della propria famiglia. Era un “delitto riparatore”. È da qui che veniamo.
E quando si scrive e si parla, è la violenza a diventare soggetto, le donne oggetto mentre facciamo sparire gli autori dalla discussione. Che sono uomini nella quasi totalità dei casi. La cultura della violenza fisica e sessuale di genere vede infatti a livello mondiale il maschio violento contro donne, bambini e altri uomini. Ma quando si racconta questo fenomeno agghiacciante ci concentriamo soprattutto sulle vittime, si sorvola sui responsabili costruendo così un silenzio dannoso che limita la possibilità di concettualizzare, prendere consapevolezza e progettare soluzioni. Non citare gli autori contribuisce a creare equivoci. Parlare di violenza domestica, contro le donne o femminicidio significa omettere i colpevoli. Non dare risalto allo squilibrio di potere nei rapporti di genere, centrale invece per spiegare e affrontare la violenza: donne e uomini non hanno lo stesso potere, le loro risorse, idee e lavoro non sono valutati allo stesso modo.

Spostando l’attenzione sui responsabili il sito Inquantodonna.it realizza una toccante e sconvolgente bacheca virtuale che mette online il volto delle donne uccise, degli assassini e, non dimentichiamo, dei figli molte volte coinvolti.  Si scopre che ciò che accomuna i carnefici, oltre ad essere partner intimi della vittima, è la volontà di affermare il «dominio» sulla donna assassinata, al punto di poterne disporre la morte. E anche il fatto di beneficiare spesso di una certa indulgenza giudiziaria. Pene ridotte, patteggiamenti, permessi premio, domiciliari per tentato omicidio che permettono poi di completare il crimine. Raramente rischiano l’ergastolo, a meno che non siano extracomunitari.

Forse anche l’utilizzo della parola “vittima” in un qualche modo evoca concetti di purezza morale che mettono sotto processo. Smuove il pregiudizio per il quale ad esempio la vittima di stupro era vestita in modo provocatorio, andava in giro di notte da sola, non era così innocente, se l’è cercata. Come è successo, con commenti anche femminili, per le due turiste assassinate e lasciate in sacchi dell’immondizia in Ecuador. Il post della pagina di Facebook “Ieri mi hanno uccisa” ha fatto il giro del mondo per difendere il diritto delle donne a viaggiare da sole, cioè senza la scorta di un maschio. Perché se qualche uomo ci fa del male, alla fine sembra che la colpa sia sempre la nostra.
Argomenti società · psicologia
(03 agosto 2016)

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