L’egemonia in Gramsci

25 Marzo 2017
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Gianfranco Sabattini


L’”attrazione magnetica” del pensiero di Gramsci è riconducibile, secondo Anderson (“Gli eredi di Gramsci”, Micromega, n. 1/2017)), al fatto che gli scritti del carcere erano “appunti disordinati, stringati e preliminari”, in vista di opere che il pensatore sardo non è mai riuscito a scrivere da libero; fatto, quest’ultimo, che avrebbe contribuito a rendere gli scritti, “più che tesi dal sapore finito, semplici suggestioni, facilmente soggette, una volta morto il loro estensore, a tentativi di ricostruzione immaginifica all’interno di questo o quel quadro d’insieme”; in altre parole, si sarebbe trattato di suggestioni e motivazioni che, meno “vincolanti di una teoria fatta e finita”, sarebbero state in grado di “attrarre interpreti di tutti i tipi”, lasciando libero campo all’improvvisazione e alla creatività.
Le potenzialità esplicative della dinamica sociale del pensiero di Gramsci, per Anderson, non hanno avuto seguito in Italia, per via del fatto che il PCI, da lui stesso guidato durante l’instaurazione del regime fascista, era caduto, dopo il suo trasferimento all’estero, sotto le “grinfie” di Stalin. La “camicia di forza” imposta al partito dal rigido controllo bolscevico aveva, da subito, impedito l’esame critico delle “illuminazioni” contenute nei “Quaderni”. In Italia, tuttavia, il PCI, non è stato l’unico partito di sinistra; sia pure da posizioni maggioritarie, esso ha dovuto dividere il campo con altre forze, dissenzienti però dalla linea comunista ufficiale; fatto, questo, che ha impedito che il pensiero di Gramsci fosse totalmente “monopolizzato” dal PCI, consentendo, a parere di Anderson, una sua lettura alternativa, “incentrata” sul ruolo chiave che nei “Quaderni” era stato assegnato al ruolo del “Partito”, inteso come “moderno principe”. Il partito, com’è noto, non era identificato da Gramsci in una persona reale o in un individuo concreto; poteva essere solo un “organismo complesso”, operante all’interno della società, nella quale fosse iniziato un processo di formazione di una volontà collettiva, proiettata a tradursi in un’azione trasformatrice della realtà sociale; questo organismo era considerato da Gramsci come esito dello sviluppo storico.
L’interpretazione alternativa degli scritti di Gramsci del periodo di prigionia, però, a parere di Anderson, non sarebbe riuscita, in ultima analisi, ad evitare “la sequenza oscillante” delle interpretazioni ufficiali che degli stessi venivano effettuate; ciò perché, si può aggiungere, i due maggiori partiti della sinistra italiana si sono logorati in una lotta politica sterile per la conquista della primazia nella rappresentanza del voto delle forze di sinistra, il cui risultato, nel momento di riflusso delle ideologie e di crisi del sistema dei partiti e delle istituzioni democratiche, è stata la completa “sterilizzazione del pensiero di Gramsci nel Paese che gli aveva dato i natali”.
Il fallimento dell’interpretazione alternativa del contenuto dei “Quaderni”, sperimentata in Italia, non ha impedito, però, che il loro “riuso” si spostasse all’estero, con risultati che avrebbero messo capo, sostiene Anderson, a quattro interpretazioni principali, databili tutte nel periodo che va dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, e tutte riconducibili ad uno “schema unitario”. Queste interpretazioni, inoltre, sarebbero caratterizzate, sempre a parere di Anderson, innanzitutto dal fatto che i loro autori (il giamaicano Stuart Hall, l’argentino Ernesto Laclau, l’indiano Ranajit Guha, l’italiano Giovanni Arrighi) le hanno elaborate nel mondo anglofono, quindi lontani dai propri Paesi d’origine, e tutte ruotanti “intorno al concetto di egemonia”.
A queste caratteristiche, però, se ne può aggiungere anche un’altra: la collocazione politica di quelle indicate da Anderson è riconducibile a studiosi di Gramsci collocabili tutti all’interno del campo tradizionale della sinistra; forse ciò è da attribuirsi al fatto che lo storico britannico, da “vecchio” militante della sinistra radicale, ha inteso privilegiare il ricupero delle interpretazioni del pensiero di Gramsci da sinistra, trascurando il fatto che interpretazioni originali del pensiero del filosofo di Ales, riguardanti proprio il concetto di egemonia, si sono avute anche da parte di autori esterni al campo delle forze di sinistra.
Una corrente di pensiero multidisciplinare estranea alla tradizione marxista, nata all’interno del campo degli studi economici e sociologici, ha formulato un’interpretazione del concetto di egemonia utile a spiegare come potrebbe essere risolto il possibile stato di crisi sistemico del quale soffre il modo di funzionare dei sistemi capitalistici, governati da strutture istituzionali pluralistiche e, dunque, caratterizzati da procedure decisionali maggioritarie. Si tratta di una interpretazione del concetto di egemonia del tutto indipendente rispetto alla tradizione marxista; tradizione, questa, che interpreta il concetto di egemonia come approccio alla dinamica dei sistemi economici, che vede i gruppi sociali egemonizzati “lottare” allo scopo di mettere fine al loro sfruttamento attraverso la trasformazione di tali sistemi.
Nella prospettiva marxista, la dinamica sociale non implica tanto la sostituzione ricorrente dell’esercizio dell’egemonia da parte del gruppo egemonizzato a quello del gruppo egemone, quanto la sua “cristallizzazione” nella forma di un’egemonia assoluta degli sfruttati, come garanzia di una democrazia sostanziale. In questo senso, non si realizza un’”alternanza” dei gruppi sociali nell’esercizio del potere egemonico, ma l’assolutizzarsi dell’egemonia in uno solo dei gruppi sociali. La dinamica all’interno di un sistema sociale pluralistico, intesa come sintesi del processo di cambiamento di tutto ciò che la sottende, è invece considerata in sé, e non in termini di un suo possibile e probabile risultato fissato a priori.
La crisi del “moderno principe”, cioè del partito, e della democrazia formale che caratterizzano il funzionamento dei sistemi capitalistici contemporanei, non implica la perdita della capacità esplicativa del concetto di egemonia, quando sia interpretata come una leadership intellettuale e morale, non più meramente elettorale e di parte, ma collettiva; in altri termini, quando il soggetto egemonico non sia più identificato in un portatore degli interessi di una data classe socio-economica precostituita, ma in una “volontà collettiva, incorporata nello Stato, nel quale si riassuma la sintesi di un’”equilibrata”, “stabile” e “giusta” dinamica del sistema sociale, sia economica, che antropologica.
Interpretato in questo modo il concetto di egemonia non individua più una specifica relazione sociale fra portatori di interessi contrapposti, ma uno specifico rimedio a uno stato di conflitto permanente che caratterizza, oggi più di ieri, i sistemi sociali retti da democrazie pluralistiche. Come infatti viene sottolineato dalla corrente di pensiero estranea alla tradizione marxista, che ha fatto propria un’interpretazione particolare del concetto di egemonia, nel processo di socializzazione degli esiti della dinamica dei sistemi capitalistici democratici contemporanei, lo Stato svolge una funzione molto più esaustiva che nel passato, per stabilizzare la base produttiva e per garantire una tendenziale distribuzione socialmente condivisa del prodotto sociale.
Lo Stato, quindi, parafrasando il discorso di Gramsci, assurto a “moderno principe”, in luogo dell’antico soggetto espresso dal partito, è l’elemento che concorre alla creazione della necessaria “forza giacobina” posta a presidio di una “rivoluzione permanente” (dinamica-trasformazione sociale), utile a conservare e a stimolare l’evoluzione partecipata della volontà collettiva, in sostituzione di ogni forma di “rivoluzione passiva”, implicante, invece, sul piano dei rapporti tra i diversi gruppi, solo equilibri corporativi. In questo senso, la critica al liberalismo (ed a tutte le sue implicazioni istituzionali) mossa da Gramsci e la sua lettura del “Principe” di Machiavelli sono considerate, fuori dalla tradizione marxista, come uno sviluppo del marxismo, e nel loro insieme esprimerebbero il superamento della logica del conflitto di classe ad un più alto livello di solidarietà sociale.
Come possono i diversi gruppi sociali riconoscersi nell’egemonia collettiva esercitata dallo Stato all’interno dei sistemi sociali capitalistici? Adam Przeworski, teorico polacco-americano e analista delle società democratiche, in “Material Bases of Consent: Economics and Politics in a Econonic System”, sostiene che i diversi gruppi sociali, pur portatori di interessi concorrenti, possono comunque coordinarli, se interiorizzano, accettandolo nell’interesse reciproco, l’esercizio dell’egemonia collettiva dello Stato.
La conservazione dell’ordine capitalista e delle procedure democratiche dipende allora dalla propensione di tutti i gruppi a coordinare i loro interessi attraverso l’accettazione di due ordini di comportamenti condivisi: da un lato, i “gestori” dei mezzi di produzione orientano il funzionamento del sistema economico perché, attraverso lo scambio, siano soddisfatti gli stati di bisogno, storicamente determinati, che tutti avvertono; dall’altro lato, i diversi gruppi sociali concordano nel destinare ciò che resta del prodotto sociale, dopo la rimunerazione dei fattori produttivi impiegati nella produzione, alla soddisfazione degli stati di bisogno futuri del sistema sociale.
Oggi, all’interno dei sistemi capitalistici governati da istituzioni democratiche in crisi, quali possibilità esistono che l’egemonia collettiva esercitata dallo Stato possa essere condivisa, al fine di realizzare il coordinamento degli interessi dei vari gruppi sociali? E’ difficile rispondere; è solo certo che, se l’esercizio di questa forma di egemonia fosse condivisa, ogni riferimento a qualsiasi modello di socialismo della tradizione marxista scomparirebbe, mentre il significato dell’egemonia sarebbe espresso dalla condivisione collettiva che la dinamica del sistema sociale sia ”equilibrata”, “stabile” e “giusta”.

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