Lavoro e territorio: partire dalle vocazioni locali

27 Marzo 2017
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Fernando Codonesu

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La nostra Carta costituzionale all’art. 1 recita “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La natura della repubblica è quella di essere democratica, ma non solo, essa è anche e soprattutto fondata sul lavoro: democrazia e lavoro, quindi, come elementi costitutivi indissolubili. Giustamente il lavoro era visto dai costituenti come elemento fondante dell’intera comunità perché con il lavoro ciascun uomo si realizza, sviluppa e tutela la propria dignità e contribuisce al benessere di tutta la comunità. Sono diversi gli articoli dedicati dalla Carta al tema del lavoro, alla sua tutela, alle sue forme organizzative e ai diritti-doveri connessi e qui si fa cenno ad alcuni di essi per meglio inquadrare i ragionamenti che saranno fatti successivamente.
Con gli articoli 35 e 36, ne vengono affermati da parte della Repubblica la tutela, la cura della formazione ed elevazione professionale dei lavoratori, la promozione di accordi che affermino e regolino i diritti del lavoro, il diritto ad una retribuzione commisurata alla quantità e qualità del lavoro svolto, purché sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
E’ evidente lo stretto legame tra la dignità dell’uomo e il lavoro, anzi l’accento posto sulla giusta retribuzione che consenta un’esistenza dignitosa anche per la famiglia costituisce l’elemento qualificante dell’esistenza umana. Tra gli altri articoli che qui si intende evidenziare vi è il 41 che recita “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il tema del lavoro viene trattato quasi sempre con lo sguardo miope o presbite. E’ miope lo sguardo di chi vede se stesso come l’ombelico del mondo, tipicamente è lo sguardo del sindacato economicista e di una certa imprenditoria italiana: non vi è mai una visione e un interesse generale, conta il tempo breve e la difesa ad oltranza delle proprie posizioni. E’ presbite lo sguardo di chi si preoccupa di fare analisi teoriche, che possono essere corrette e lungimiranti, ma le cui ricette non risolvono i problemi del presente, indipendentemente dal tempo storico a cui il presente si riferisce.
In mezzo, a nostro avviso, vi è la necessità di uno sguardo corretto per lo meno con lenti progressive in modo da contemperare la visione strategica con un’applicazione coerente con i bisogni del presente.
Innanzitutto c’è bisogno di lavoro, ma bisogna essere consapevoli che la politica non crea né può creare direttamente lavoro: il lavoro viene creato dalle imprese. Non c’è lavoro senza impresa per cui parlare dell’uno significa necessariamente parlare anche dell’altra. Alla politica, ora più che in passato, spetta un intervento sistematico, continuo ed organico innanzitutto sul fronte dell’attività di regolazione delle relazioni tra lavoro e impresa e, a valle, sul fronte della redistribuzione della ricchezza. A fronte di situazioni particolari come di crisi prolungate abbiamo già visto e sperimentato grandi interventi di tipo keynesiano da parte degli Stati (la politica). Un tempo tale attività poteva essere compiutamente affrontata dallo Stato regolatore, oggi tale compito può essere risolto sì dallo Stato regolatore pur di averne la volontà politica corroborata da adeguate maggioranze parlamentari, ma solo all’interno di politiche sovranazionali coordinate.
Per un tema di così vasta portata, si tratta della necessità declinare il ruolo del Governo, della parte pubblica a diversi livelli di responsabilità e di capacità decisionali (Regioni e Comuni, per esempio) e della politica come attore fondamentale innanzitutto a monte del mercato decidendo le regole del gioco per tutti i giocatori e con un ruolo più diretto, a valle, che potrà essere rivolto agli interventi su asset economici e produttivi strategici, così come a tutti quei casi nei quali è l’assunzione di responsabilità pubblica della politica che può garantire i territori e i comparti particolarmente soggetti a stati di crisi e/o di marginalità.
Da qui l’interrogativo se e come il diritto al lavoro può essere garantito per tutti considerati i vari aspetti della questione sul piano locale, nazionale, e sovranazionale, con particolare riferimento alla dimensione europea.
In questa sede diamo per scontate le analisi che riportano i numeri della crisi in termini di perdita di occupazione nell’ultimo decennio, in pratica a partire dal 2007, anno dello scoppio della crisi negli USA, da cui si diffonde rapidamente in tutto il mondo e diventa particolarmente acuta e grave nel continente europeo, sia per una sua colpevole sottovalutazione nel periodo iniziale da parte di alcuni governi e degli organi di controllo e regolazione, sia per una serie di interventi sistematici messi in campo negli anni successivi dalla BCE principalmente sul fronte del credito, ripresi dalle politiche già sperimentate con successo dalla FED, ma senza gli strumenti operativi a disposizione della FED medesima. Per l’analisi dei numeri, riferiti all’ambito nazionale, che non riportiamo in questa sede si rimanda perciò ai rapporti ISTAT, mentre per gli strumenti normativi, come i vari provvedimenti sulla “flessibilità” e il “jobs act” si rimanda ad altri autorevoli interventi, pubblicati anche su questo blog, sulla precarietà dei lavoratori, specialmente dei giovani, che oggi, quando hanno un’occupazione, sono sfruttati, sottopagati e spesso vivono condizioni di semi schiavitù, non così dissimili dai lavoratori immigrati che raccolgono i pomodori nel Sud del nostro paese, di cui ci si dimentica con troppa facilità.
Il tema del lavoro va affrontato come prospettiva di sviluppo e se ci si impegna su tale percorso, in un rapporto virtuoso tra i diversi attori del lavoro e con la salvaguardia dei principi costituzionali, tra gli altri settori che caratterizzano l’economia nazionale, bisogna rilanciare la capacità manifatturiera italiana migliorando la produttività e la competitività. Ciò non può mai avvenire con la semplice e strausata “compressione del costo del lavoro”, ovvero a discapito della componente dei lavoratori, ma con nuovi prodotti, migliore qualità, una nuova organizzazione del lavoro e un orientamento dei consumi a vantaggio delle produzioni nazionali e locali.
Le produzioni dovranno soprattutto privilegiare quelle a maggior valore e qualità che caratterizzano l’eccellenza italiana nel mondo.
Considerazioni analoghe valgono per tutti i territori regionali che potranno e dovranno essere organizzati come macro territori di produzione e di consumo.
E la Sardegna?
«Il lavoro è dignità. La società che non garantisce il lavoro a tutti è una società ingiusta», e ancora “Non lasciatevi rubare la speranza” così diceva papa Francesco nella tappa cagliaritana della sua visita pastorale del mese di settembre 2013 in Sardegna.
In Sardegna i numeri della crisi fanno davvero paura, anche perché a differenza di altre parti d’Italia non si intravede un minimo spiraglio di inversione di tendenza.
Insomma, sicuramente un quadro difficile, per certi versi drammatico se si aggiunge la crisi irreversibile dell’industria e dei poli industriali e lo stato dell’agricoltura caratterizzata in questa fase da una presenza massiccia di immigrati di varie parti dell’est europeo e del nord Africa, anche a causa del fatto che molti, troppi sardi non vedono più nelle campagne una possibilità di vita dignitosa. La demografia e lo spopolamento dell’interno dell’isola non aiuta di certo. Il tasso di fecondità della nostra Isola è il più basso d’Italia ed anche questo è dovuto alla mancanza di prospettive ed è associato ad una aspettativa di vita costantemente in crescita. Il dato forse più drammatico riguarda i risultati dei test scolastici Invalsi e Ocse che, uniti alla più alta dispersione scolastica d’Italia, spiegano più di ogni altro elemento quanto sia difficile disegnare un nuovo progetto di sviluppo per l’isola.
Alla luce del quadro generale delineato e approfondito su alcuni aspetti tematici in altri interventi pubblicati in precedenza, per uscire dalla crisi occorre misurare le azioni e le progettualità da mettere in campo come Regione puntando innanzitutto sulle nostre specificità, a partire anche dalle criticità più evidenti, ma facendo leva sulle imprese e gli imprenditori. Senza questi ultimi soggetti, bisogna, essere coscienti che non si va da nessuna parte. Non è mai bastata, né può bastare la sola politica, specialmente in questo periodo dove si vede all’opera solo la “mala politica”, con tutto ciò che ne consegue. Gli assi da prediligere riguardano la terra e i suoi prodotti a partire dall’agroalimentare, l’ambiente con le sue bonifiche, l’assetto del territorio con la sua messa in sicurezza sotto il profilo del rischio idrogeologico, un’industria compatibile con l’ambiente e le vocazioni territoriali, il turismo, il settore manifatturiero nelle sue nuove declinazioni digitali, la green e la blue economy, tenendo sempre fermo il principio della valorizzazione del capitale umano e delle potenzialità presenti in ciascun territorio.

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  • 1 OGGI lunedì 27 marzo 2017 | Aladin Pensiero
    27 Marzo 2017 - 07:51

    […] Lavoro e territorio: partire dalle vocazioni locali. Fernando Codonesu su Democraziaoggi. lun 27 marzo 2017 Aladinews, SardegnaCheFare? EuropaCheFare? […]

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