Roncaglia: l’età della disgregazione

7 Settembre 2019
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Gianfranco Sabattini

Alessandro Roncaglia ha pubblicato di recente un ponderoso volume sulla storia del pensiero economico contemporaneo (“L’età della disgregazione”, Laterza, 2019): “di fronte alla frammentazione che caratterizza oggi la ricerca in campo economico”, egli ne ricostruisce le linee di sviluppo, evidenziando i nessi che le legano e le filosofie sottostanti, e spiegando le contrapposizioni e le diverse interpretazioni “di cui è ricca la ricerca teorica in campo economico, nonostante la pretesa tante volte richiamata di obiettività scientifica”.
Nell’Introduzione al libro, Roncaglia precisa che la sua ricostruzione non è solo centrata “sulla ‘rassegna delle truppe’ e sull’illustrazione/interpretazione dei diversi orientamenti di ricerca (quindi sui concetti e sulle idee più che sui modelli e sui singoli economisti)”, ma anche sugli sviluppi non rientranti nel campo dominante (o mainstream) della teoria economica; ciò perché – afferma Roncaglia – nel lungo periodo, di regola “gli eterodossi più innovatici ricevono man mano più attenzione mentre gli ortodossi che dominano in una data fase storica passano in secondo piano”.
Precisati gli intenti che lo animano, Roncaglia descrive gli elementi storico-culturali prevalenti che, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, hanno costituito il “baricentro del dibattito economico”, delineato da entrambe le sponde dell’Atlantico: da un lato, l’Europa stremata dagli eventi bellici; dall’altro, l’America vincitrice, il cui mondo accademico, proprio “come prodotto collaterale delle ricerche belliche”, ha gettato le basi per l’affermazione di una nuova cultura economica, divenuta dominante con “gli sviluppi della teoria dell’equilibrio economico generale legati alla teoria dei giochi e delle utilità attese”. Sulla base di queste ultime teorie, è stata realizzata – sostiene Roncaglia - una riformulazione “delle fondamenta microeconomiche della concezione marginalista” che, riassorbendo le novità delle rivoluzione keynesiana pre-bellica, ha dato luogo, con il contributo degli economisti del MIT (Massachusetts Institute of Technology), ad una “sintesi neoclassica” con la teoria marginalista del valore e della distribuzione.
La “sintesi” realizzata sul piano teorico, ulteriormente integrata, ha avuto modo di affermarsi anche su quello della politica economica, con l’avvento del neoliberismo, seguito all’evoluzione della situazione economica (culminata nel corso degli anni Settanta del secolo scorso con la crisi del sistema di Bretton Woods e di quella dei mercati energetici e delle materie prime) e di quella politica (verificatasi con la vittoria di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti). Il neoliberismo ha potuto soppiantare il liberismo progressista (sempre arroccato nelle università americane della costa atlantica) sul piano della politica economica, ma non su quello teorico, grazie all’apporto critico delle rinnovata scuola austriaca e delle ricerche e iniziative politico-culturali di Friedrich von Hayek, fondatore e animatore della Mont Pèlerin Society. La “sintesi neoclassica, a partire dagli anni Settanta, nella sua coniugazione neoliberista, è divenuta così la teoria economica mainstream.
Quest’ultima ha dominato lungo i decenni successivi, ma è stata progressivamente contrastata dalle critiche formulate contro la teoria marginalista del valore e della distribuzione, i cui risultati, pur riscuotendo consenso sul piano analitico, “non sono stati accompagnati – doce Roncaglia – da un pari consenso sulle loro implicazioni”. Sul piano analitico, dallo stesso interno della teoria economica mainstream, sono state gradualmente formulate delle critiche contro di essa sulla base di “linee di ricerca alternative”.
Un campo di queste ricerche è stato quello dell’”economia comportamentale” di Herbet Simon, sviluppatasi “a partire dall’analisi dei casi […] in cui il comportamento dei soggetti economici” non seguiva il paradigma della razionalità, “identificata con la massimizzazione dell’utilità attesa”; all’”economia comportamentale” si è affiancata l’“economia cognitiva” di Danil Kahneman e Amos Tversky, anch’essa critica del paradigma delle razionalità. Un altro campo delle ricerche alternative è stato lo studio delle istituzioni e il loro ruolo nel performare la stabilità di funzionamento del sistema economico; nello studio delle istituzioni – afferma Roncaglia – è stato attivo il marxismo fin dalle sue origini, mentre i suoi sviluppi successivi sono stati quelli dell’“istituzionalismo”, all’interno del quale si è affermata una linea di ricerca “evoluzionista-istituzioalista”, anch’essa eterodossa rispetto all’impostazione marginalista. Un ulteriore campo delle ricerche alternative (ma non ultimo), infine, ha avuto ad oggetto lo studio dell’etica in economia; studio che è divenuto rilevante soprattutto per la soluzione dei problemi connessi all’equità distributiva del prodotto sociale.
In conclusione, secondo Roncaglia, lo stato attuale della ricerca economica può essere espresso efficacemente, come egli dice, parafrasando Antonio Gramsci, affermando che “l’orientamento mainstream statunitense” continua a dominare il campo complessivo della ricerca teorica in economia, senza però egemonizzarlo; ciò accade per la varietà delle linee di ricerche in continuo sviluppo, molte delle quali, pur eterodosse rispetto alla tradizione della teoria economica mainstream, si stanno rivelando più rispondenti sul piano della politica economica, ai fini dell’assunzione di decisioni volte a risolvere i problemi economici e sociali che agitano le società contemporanee.
Nella sua storia del pensiero economico sviluppatosi dopo la fine del secondo conflitto mondiale, Roncaglia, pur privilegiando il dibattito culturale-analitico, dedica la parte finale del libro agli indirizzi di ricerca eterodossi. Questi indirizzi, per lo più estranei alla riflessione economica precedente al 1945, sono divenuti interni alle ricerche della seconda metà del XX secolo, con la speranza che queste possano perdere la loro natura di ricerche eterodosse e che gli indirizzi che le coltivano possano diventare sempre più importanti per scelte di politica economica sempre più rispondenti alle problematiche distributive ed ambientaliste delle società industriali contemporanee. A tali ricerche Roncaglia dedica la parte finale del suo libro, nella quale egli narra dei risultati “dei filoni di ricerca” marxisti, evoluzionisti ed istituzionalisti, lasciando “aperto” il tema di una loro possibile convergenza sul piano analitico per l’inaugurazione di una teoria economica più comprensiva.
Il marxismo, l’evoluzionismo e l’istituzionalismo riprendono tradizioni eterodosse affermatesi sul piano valoriale tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, tutte orientate a privilegiare la considerazione dello sviluppo e del cambiamento rispetto all’analisi statica della teoria neoclassica dell’equilibrio economico generale. Questi approcci mostrano però delle differenze significative; in particolare, può dirsi che la tradizione istituzionalista si sia articolata in un “filone” neoistituzionalista, che si presenta come uno sviluppo della microeconomia mainstream, e in un altro “filone” neomarxista, che si presenta come soluzione normativa del problema della distribuzione del prodotto sociale, per contrastare le disuguaglianze e le loro relazioni negative con lo sviluppo economico.
Gli autori della tradizione istituzionalista – a parere di Roncaglia – seguendo “un’impostazione metodologica fondata sull’analisi delle istituzioni e della loro evoluzione nel corso della storia”, hanno posto in rilievo le interrelazioni tra aspetti economici e non economici della vita sociale; il risultato delle loro analisi è stata una “visione del capitalismo di derivazione classica, intrinsecamente dinamica che si [è contrapposta] a quella marginalista, intrinsecamente statica o al più stazionaria”.
Dall’indirizzo di ricerca dell’istituzionalismo è nato il sottoindirizzo del neoistituzionalimso di Ronald Coase, Olivier Williamson e Douglas Morth; da questi autori, le istituzioni sono state considerate delle regole formatesi spontaneamente, attraverso processi di auto-organizzazione, sulla base del comportamento ripetuto di agenti razionali, orientato a ridurre i costi di transazione. Il carattere comune di queste ricerche è – secondo Roncaglia - la tendenza a derivare, sul piano teorico, l’insieme delle istituzioni che presiedono allo svolgimento dell’attività economica, considerato ottimale “nel contesto marginalista dell’individualismo metodologico” e già oggetto delle critiche di John Mynard Keynes e di Piero Sraffa.
L’altro sottoindirizzo, nato dall’istituzionalimso è il neomarxismo, coltivato da autori come Daron Acemoglu e James Robinson, che collocano al centro delle loro analisi la considerazione dei fattori da cui trae origine la nascita delle istituzioni e l’affermarsi del loro ruolo nel regolare i processi decisionali della collettività; un “filone”, quello del neomarxismo, che comprende la schiera dei cosiddetti “marxisti analitici” (Gerald Cohen, Jon Elter, John Roemer, Philippe Van Parijs ed altri) i quali, interpretando in termini innovativi i testi marxiani, hanno proposto una soluzione normativa delle problematiche distributive, per sottrarle al rischio che l’inconcludenza del dibattito sul come risolverle ne determinasse la rimozione dal novero delle cause principali delle crisi di natura economica e sociale del capitalismo contemporaneo.
Le società in cui viviamo sono caratterizzate dal ruolo fondamentale delle istituzioni che concorrono a configurare lo Stato; si tratta di un ruolo attivo di coordinamento e di intervento per diversi aspetti concernenti il “buon funzionamento” dell’economia, quali la regolazione del mercato, l’amministrazione della giustizia, la vigilanza contro le frodi e le attività illecite, i fallimenti di mercato, la gestione della politica monetaria e fiscale, la difesa dell’occupazione e la politica ridistribuiva (che, con il welfare State, si è estesa dall’assistenza sanitaria al sistema pensionistico). All’interno del sottoindirizzo neomarxista dell’istituzionalismo, i temi di ricerca maggiormente sviluppati riguardano la distribuzione del reddito, la misura delle disuguaglianze e le modalità per la loro rimozione, o quantomeno per la loro riduzione.
Sul problema della lotta alle disuguaglianze entra direttamente in gioco a livello teorico – asserisce Roncaglia – la contrapposizione tra la teoria economica marginalista e quella classica; contrapposizione che riguarda la relazione tra equità distributiva ed efficienza economica. Per la teoria meginalista, ricorda Roncaglia, “le variabili distributive – salario, rendita, saggio di profitto – non sono altro che mezzi di produzione, i cui valori ottimali sono determinati in concorrenza dalla loro produttività e scarsità”; di conseguenza, le disuguaglianze “sono un corollario inevitabile della ricerca dell’efficienza nell’allocazione dei fattori produttivi tramite il mercato”. Nel caso della teoria classica (quella alla quale appartiene l’analisi marxiana), invece, dopo la critica di John Maynard Keynes e di Piero Sraffa alle ipotesi e al metodo della teoria marginalista, un ruolo importante nel risolvere le disuguaglianze è assegnato ai rapporti di forza che si stabiliscono tra le classi sociali.
Se il ricorso ai rapporti di forza può essere utile, come affermano i marxisti analitici, per “sopire la disputa senza fine” sul come risolvere le problematiche distributive, esso (il ricorso), però, non risolve il problema della dimostrazione su basi logiche della rimozione (o del contenimento) delle disuguaglianze. Considerata, secondo la teoria del marginalismso, l’inevitabilità sul piano analitico dell’ineguale distribuzione del reddito in funzione dell’efficienza del modo d’impiego dei fattori della produzione, l’unica alternativa possibile per contrastare l’annoso problema della mal distribuzione del reddito consiste nel formulare una teoria normativa della giustizia sociale.
In questa prospettiva assume rilevanza la proposta di Philippe Van Parijs, di istituire un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, inteso come criterio normativo per creare le condizioni istituzionali proprie di una società libera e di un’economia stabile, liberate entrambe da ogni forma di estrazione di valore, ovvero da ogni forma di appropriazione senza merito di una quota del prodotto sociale. La giustificazione etico-politica del reddito di cittadinanza, posto a fondamento dell’equità distributiva, risiede nel fatto che con esso viene assicurata a ciascun cittadino la capacità di effettuare le scelte ritenute più consone alla realizzazione del proprio progetto di vita.
In questo senso, parafrasando lo stesso Roncaglia, si può dire che, pur in presenza dei limiti analitici che caratterizzano lo stato attuale della teoria economica, questa, per continuare ad essere utile, deve risultare “eticamente impegnata”, sul piano della politica economica, per il perseguimento del bene comune. Poiché nelle società pluraliste, quali sono quelle democratiche, il bene comune deve tener conto dell’esistenza di una pluralità di interessi in conflitto, l’economia deve offrire a coloro che hanno responsabilità di governo (e quindi il potere di determinare l’intervento delle istituzioni, al fine di regolamentare il funzionamento del sistema economico) le basi tecniche per lo svolgimento di un ruolo attivo e responsabile nella composizione dei conflitti, assumendo le loro decisioni sulla base di “di una faticosa ricerca del rigore logico e del realismo”. E’ questo il presupposto irrinunciabile perché l’azione delle istituzioni possa svolgersi sorretta dalla fiducia dei governati, pur di fronte alla profondità dei conflitti che possono agitare le loro relazioni.

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