Crescita e sviluppo: Sardegna e Irlanda a confronto

2 Novembre 2019
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Gianfranco Sabattini

 

Nell’ambito del dibattito sul problema dello sviluppo economico, Stefano Usai, Daniela Moro e Marco Sideri, in “L’economia della Sardegna. Una competitività fragile”, compiono il tentativo di spiegare perché alcune regioni arretrate riescono ad attivare un processo di crescita endogena, mentre altre, malgrado gli sforzi compiuti per rimuovere il loro ritardo sulla via della crescita, rimangono “al palo”.
Gli autori, premesso un breve excursus sui modelli che la scienza economica ha formalizzato per individuare i paradigmi ai quali attenersi nell’elaborazione delle politiche d’intervento più efficaci per promuovere la crescita delle regioni arretrate, effettuano la loro analisi assumendo come punto di riferimento quanto sperimentato da due distinte aree regionali (la Sardegna e l’area sud-orientale della Repubblica d’Irlanda, il Leinster), la cui politica di crescita, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha avuto esiti diametralmente opposti.
Dall’excursus su tali modelli emerge l’assunto degli autori che quelli formalizzati dai teorici dell’economia della crescita endogena, integrati dai contributi della “Nuova Geografia Economica”, possano offrire la definizione di uno “scenario” all’interno del quale collocare, per meglio comprenderla, la diversa esperienza vissuta dalle due aree regionali messe a confronto.
Alla fine degli anni Ottanta – rilevano gli autori – le due aree avevano lo stesso reddito pro-capite, mentre ora l’area sud-orientale dell’Irlanda (il Leinster) ha un reddito pro-capite superiore del 50% a quello della Sardegna. Tenuto conto delle differenti posizioni delle due aree rispetto al loro contesto nazionale, gli autori riconducono la diversa dinamica reddituale a vari fattori: innanzitutto, al fatto che la Sardegna rappresentava, allora come oggi, un’”economia periferica” rispetto al contesto nazionale, mentre l’area dell’Irlanda sud-orientale era la più importante tra quelle che compongono lo Stato irlandese, essendovi in essa concentrata la parte più significativa delle risorse economiche e politiche del Paese; in secondo luogo, alla diversa qualità del fattore umano disponibile nelle due aree (alla fine degli anni Ottanta, in Sardegna la forza lavoro contava solo 6 diplomati ogni 100 persone, mentre nell’area irlandese tale indice era più che doppio); quindi, alla maggiore attrattività dell’area irlandese (dovuta alla migliore qualità del capitale umano) di investimenti esteri in comparti produttivi ad alta tecnologia, che hanno permesso al Leinster di sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie informatiche; inoltre, al miglior contesto istituzionale dell’area irlandese, che ha reso l’attività d’investimento facile, rapida e sicura; infine, alla propensione delle imprese irlandesi ad operare sui mercati internazionali, capitalizzando in tal modo gli effetti dimostrativi (offerti dalla frequentazione dei mercati esteri da parte delle imprese irlandesi) che hanno generato, a loro volta, importanti effetti cumulativi.
La Sardegna, al contrario dell’area sud-orientale dell’Irlanda, non disponeva di “un sistema economico radicato nel territorio e basato sui suoi reali vantaggi economici, in grado di superare le sue fragilità storiche”. La base produttiva dell’Isola era caratterizzata dalla presenza di un settore agricolo frammentato, a bassa produttività, e di un settore industriale costituito da attività produttive ad alto rapporto capitale/lavoro, orientate verso i mercati esterni, “di conseguenza non in grado di avere significativi e permanenti impatti sulle imprese manifatturiere locali” (peraltro di piccola dimensione e non in grado di offrirsi come base di trasformazione manifatturiera delle produzioni del comparto agricolo e di quello dell’allevamento del settore primario).
Inoltre, le condizioni dell’economia della Sardegna erano associate a una bassa dotazione di capitale infrastrutturale e a una bassa qualità del capitale umano; fattori, questi, che non hanno consentito all’Isola di sfruttare, com’è accaduto all’area irlandese, le opportunità offerte dalle tecnologie informatiche, nonostante la presenza, a partire dal 1990, del CRS4 (un centro di ricerca, sviluppo e studi), volto a promuovere la costituzione di imprese informate a tali tecnologie, la più importante delle quali è stata Tiscali, il cui successo non è riuscito tuttavia a “trainare la crescita economica regionale”.
Infine, le istituzioni della Sardegna, caratterizzate da un eccessivo centralismo decisionale e da una pervasiva burocrazia, non sono riuscite ad elaborare una strategia di crescita orientata a favorire il consolidamento delle attività produttive tradizionali dell’Isola, in funzione della promozione di un diffuso processo di industrializzazione fondato sulla valorizzazione delle risorse tradizionali dell’interra area regionale.
A causa delle diverse strategie di crescita sperimentate nelle due aree a confronto, la Sardegna, secondo l’”EU Regional Cmpetitiviness Report 2016”, che misura la competitività regionale rispetto a cinque parametri (istituzioni, infrastrutture, sanità, educazione e innovazione), i nostri giorni, è classificata alla 228.ma posizione fra le 275 regioni europee ed alla 18.ma posizione rispetto alle altre regioni italiane.
Sulla base di queste risultanze, non deve stupire – affermano gli autori – che in Sardegna si soffra povertà, in termini assoluti e relativi”; ciò accade perché l’Isola, dopo circa quarant’anni di politica per la crescita, “presenta un’economia stagnante con una moltitudine di piccole e micro imprese e un alto livello di disoccupazione […]. Inoltre, la sua struttura economica è ancora caratterizzata da un’importante presenza del settore primario ma anche da un ipertrofico settore dei servizi, all’interno del quale ha un ruolo centrale il comparto della pubblica amministrazione”.
La Sardegna, perciò, concludono gli autori, se vuole superare lo stato di povertà e la stagnazione della propria economia, deve prendere ad esempio il modello irlandese di uno Stato/Regione “in grado di investire nelle capacità delle persone”, nonché “su innovazione, infrastrutture efficienti e qualità delle istituzioni, inaugurando così una nuova tendenza che consenta all’Isola di convergere verso le regioni più ricche in Italia e in Europa”.
Ciò che stupisce dell’analisi di Usai, Moro e Sideri è la mancata considerazione dei vincoli che, nel corso degli anni Ottanta, l’Isola (a differenza dell’area irlandese) scontava, a causa delle politica di crescita in essa attuata nei trent’anni precedenti. stupisce ancor di più che gli autori non manchino di ricordare, in premessa della loro analisi, che la Sardegna, dopo l’inizio dell’intervento staordinario (finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno, prima, e dallo Stato con i Piani di Rinascita, poi), era collocata “all’interno di un panorama istituzionale e sociale” fortemente modellato dalla tradizione e dalla natura insulare della regione.
All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale – ricordano gli autori – l’Isola “presentava un quadro economico sociale caratterizzato da povertà, analfabetismo […] e assenza o inadeguatezza di infrastrutture di base, quali strade, scuole e ospedali. Una regione povera caratterizzata da un’economia rurale e associata ad un settore industriale basato prevalentemente sull’estrazione mineraria”. Tuttavia, il contesto economico sociale è cambiato negli anni successivi al 1950; nel senso che “la Sardegna – continuano gli autori – è riuscita a migliorare significativamente benessere e produttività in termini assoluti”. Tuttavia questo processo non è riuscito a far convergere l’Isola “sui sentieri più ricchi e produttivi delle regioni del Nord Italia e del resto d’Europa”. Ciò sarebbe la conseguenza del fatto che il processo di ricupero è stato di breve durata e limitato al periodo compreso tra il 1960 e il 1975. Dalla metà degli anni Settanta, la convergenza dell’economia sarda rispetto alle altre regioni avanzate si è, prima, ridotta e, successivamente, arrestata del tutto.
Quali ragioni – si chiedono gli autori – hanno impedito alla Sardegna di continuare a crescere negli ultimi quarant’anni? La loro risposta può essere dedotta dal confronto che essi effettuano dei motivi per cui l’Isola, a partire dagli anni Ottanta, non ha potuto contare su una politica di crescita simile a quella attuata nella regione irlandese. A loro parere, il contesto teorico all’interno del quale valutare la mancata inaugurazione in Sardegna di una politica di crescita identica a quella sperimentata nell’area irlandese può essere individuato scegliendo, come “lente di lettura”, la logica propria dei modelli formalizzati dai teorici dell’economia della crescita endogena, integrati dai contributi della “Nuova Geografica Economica”. Sulla questa scelta è plausibile nutrire qualche riserva.
Per il superamento dell’arretratezza economica e l’attivazione di un processo di crescita, la teoria economica ha formalizzato una pluralità di modelli, assunti come paradigmi di riferimento per la formulazione e l’attuazione di politiche pubbliche finalizzate a promuovere il passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo delle aree e regioni arretrate.
I modelli neoclassici, elaborati dopo la fine del secondo conflitto mondiale, hanno fornito una prima risposta per la soluzione del problema, legandola alla possibilità delle regioni arretrate di accedere ai mercati esogeni, per acquisire i fattori primari e le tecnologie che consentissero il superamento del loro ritardo sulla via della crescita. La validità dei paradigmi suggeriti da tali modelli non è stata confermata dall’esperienza vissuta dalle regioni che vi hanno fatto ricorso. Il limite maggiore di questi modelli neoclassici consisteva nell’assumere che l’avvio del processo di crescita dipendesse da dinamiche esogene, i cui “risultati”, se fossero stati imitati i meccanismi sottostanti a queste dinamiche, sarebbero stati sufficienti a garantire alle regioni arretrate, com’era ad esempio la Sardegna all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, un successo automatico.
I modelli successivamente formalizzati all’interno della teoria della crescita endogena hanno rovesciato l’assunto di quelli neoclassici, nel senno che la risposta al problema del superamento dell’arretratezza è stata correlata alla “capacità endogena” delle regioni arretrate di avviare al loro interno un’attività creativa e innovativa, quindi di promuovere un cambiamento ambientale, rispetto al quale basilare sarebbe stata la qualità del capitale umano. Alla creatività endogena, assunta a fondamento della crescita prospettata da tali modelli, era associata la possibilità che l’attività innovativa potesse dare origine ad un crescita supportata da un processo di “causazione cumulativa” dai rendimenti crescenti, destinati a conservarsi nel tempo.
Anche i modelli di crescita endogena si sono dimostrati però inadeguati nell’offrire paradigmi validi per l’attivazione di un processo di crescita all’interno delle regioni arretrate; ciò in quanto non si è considerata la forte componente ambientale che connota sempre una possibile attività creativa e innovativa svolta all’interno di una regione arretrata. Né tali modelli, pur se integrati dai contributi della “Nuova Geografia Economica”, non hanno potuto superare i loro limiti esplicativi del passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo dato l’assunto che il superamento del sottosviluppo dipendesse dalla capacità della struttura istituzionale e sociale (fortemente modellata dalla tradizione) delle regioni arretrate di avviare, su basi imitative, un’intensa attività innovativa.
I modelli endogeni quindi, se da un lato hanno costituito la base per il superamento dei limiti dei tradizionali modelli neoclassici, sono stati però anch’essi smentiti sul piano esperienziale, in quanto hanno correlato le politiche di intervento, volte a promuovere e a supportare il processo di crescita delle regioni arretrate, all’apporto (considerato strategico) assicurato dalla preventiva formazione del capitale umano, nel quale si incorpora, secondo i modelli endogeni, la capacità di promuovere l’attività creativa e innovativa necessaria perché le regioni arretrate possano iniziare a crescere e a svilupparsi.
Ma la formazione del capitale umano, nel caso di una regione arretrata, si trova in un rapporto biunivoco con l’”ambiente sociale” dell’area, costituito dall’insieme delle istituzioni e dei “corpi intermedi” in cui si struttura la sua società civile. Se gli elementi costitutivi tradizionali di questa rimangono inalterati, la conseguenza inevitabile è la mancata considerazione degli ostacoli all’avvio del processo di crescita connessi alle “resistenze sociali”, dalle quali possono derivare (come l’esperienza ha evidenziato) impedimenti all’attuazione di qualsiasi tipo di intervento a sostegno dello sviluppo. I modelli della crescita endogena assumono di poter evitare tali impedimenti, ipotizzando possibili interventi riparatori delle istituzioni regionali che, per definizione, nel caso delle regioni arretrate, non sono meno resistenti dei componenti la società civile all’introduzione nell’”ambiente sociale” degli esiti dell’attività innovativa indotta dalla formazione del capitale umano.
Quanto sin qui detto non vuole sminuire il valore dei risultati cui la modellistica nata all’interno della prospettiva della teoria della crescita endogena è pervenuta; non si può però ignorare la considerazione metodologica circa la sproporzione esistente tra la “potenza esplicativa” di tale modellistica e la concreta possibilità di porre in atto politiche di intervento capaci di incidere sulle variabili, non solo economiche, ma anche psicologiche e sociologiche, riguardanti le regioni arretrate. A questa sproporzione deve essere imputata la permanenza dell’arretratezza di gran parte delle regioni arretrate italiane, sebbene esse, nei primi trent’anni successivi al 1950, siano state le destinatarie di consistenti flussi di risorse pubbliche; mentre sono ben chiare le cause dell’arretratezza, i risultati conseguiti nelle regioni arretrate con l’impiego di modelli della teoria della crescita endogena sono risultati deludenti. Qual è la ragione dell’insuccesso?
La risposta è stata data (in termini meno rigorosi sul piano formale, ma più realistici sul piano storico) da Albert Hirschman, secondo il quale lo sviluppo economico di una regione arretrata è un fenomeno molto complesso, per essere promosso sulla base di assunti del tutto disgiunti dalla struttura sociale propria di ogni regione arretrata. Secondo Hirschman, i modelli della teoria della crescita endogena utilizzati per la formulazione delle politiche d’intervento assumono implicitamente l’ipotesi dell’”industrializzazione ritardata”, che implica la riproposizione, all’interno delle regioni arretrate, dei processi decisionali e delle strutture produttive razionalmente organizzate ch caratterizzano le regioni avanzate; tale ipotesi sottintende che, per promuovere il processo di crescita delle regioni arretrate basti immettere forzatamente risorse finanziarie nella struttura sociale e produttiva (stazionaria) delle regioni arretrate, adeguando nel contempo le altre variabili (quali il capitale umano, la tecnologia e l’imprenditorialità) attraverso una politica pubblica finalizzata alla creazione di economie esterne di tipo reale (infrastrutture) o di tipo finanziario (incentivi monetari).
E’ stata questa la causa per cui tutti i tentativi di avviare un processo di crescita delle regioni arretrate, mediante l’immissione di apporti finanziari esogeni disgiunti da ogni considerazione dell’”ambiente” sociale, economico e culturale che le caratterizzava, non hanno avuto successo; ciò perché la logica sottostante tali interventi è stata fondata sull’ipotesi, contestata da Hirschman, che la dinamica sociale ed economica delle regioni arretrate fosse compatibile con la “razionalità economica” propria do quelle già sviluppate.
Le conseguenze dell’immissione di sole risorse finanziarie (decise esogenamente) per il superamento dell’arretratezza della Sardegna, non solo hanno comportato la conservazione dell’originario stato di arretratezza, ma hanno anche impedito di avviare al suo interno un processo di accumulazione endogena. Da questo punto di vista diventa plausibile considerare la Sardegna degli anni Ottanta nelle stesse condizioni dell’Irlanda sud-orientale, per poi constatare come, ai nostri giorni, le due aree regionali siano cresciute in modo assai differente.
La diversità delle posizioni, però, non è tanto riconducibile, come sostengono Stefano Usai, Daniela Moro e Marco Sideri, alla mancata attuazione in Sardegna di una politica d’intervento “in linea” con i paradigmi dei modelli della crescita endogena, ma solo all’”infausta decisione” di perseverare a conservare i risultati negativi della politica di crescita imposta alla Sardegna nei decenni precedenti gli anni Ottanta.

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