Politiche meridionalistiche: fallimento perché?

8 Novembre 2019
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Gianfranco Sabattini

 

Morire di aiuti: I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) (Policy) di [Accetturo, Antonio, de Blasio, Guido]

Il progresso della scienza economica e quello dell’uso dei metodi di natura quantitativi realizzati negli ultimi decenni consentono oggi una più precisa valutazione degli esiti connessi agli aiuti erogati a favore alle regioni meridionali per il superamento del loro ritardo sulla via della crescita e dello sviluppo. Grazie a tali progressi, Antonio Accetturo e Guido De Blasio, in “Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud [e come evitarli]”, hanno potuto verificare se i trasferimenti monetari a favore delle regioni e aree arretrate del Paese (attuati dopo la fine dell’intervento straordinario all’inizio degli anni Novanta) hanno realmente contribuito a promuovere il superamento dello stato di arretratezza.
La verifica effettuata dai due economisti ha confermato, su basi oggettive, quello che è ormai una percezione consolidata a livello di opinione pubblica: ovvero, che circa trent’anni di politiche d’intervento “hanno generato una diffusa sfiducia” nei confronti dell’utilità e dell’opportunità dei trasferimenti, L’opinione prevalente nelle regioni economicamente sviluppate è – affermano gli autori - che ogni euro speso per le regioni povere sia “un euro sprecato”. D’altra parte, le comunità delle regioni in ritardo hanno smesso di credere a un futuro di sviluppo economico; gli aiuti pubblici sono infatti “percepiti unicamente come un sussidio per attività improduttive (nella migliore delle ipotesi) o come uno strumento per arricchire corruttele e criminalità (nella peggiore)”.
Le politiche d’intervento future non possono perciò che essere fondate su basi diverse, più tecniche e maggiormente aperte all’impiego degli strumenti che i progressi dell’economia teorica e applicata hanno nel frattempo reso disponibili. L’obiettivo degli autori è quello di contribuire a dimostrare, con la loro analisi critica dell’esperienza del passato e con le loro considerazioni propositive per il futuro, che “è finito il tempo delle politiche ‘per tentativi’”, ritenendo sia giunto il momento di inaugurare “politiche più oculate, meglio pensate”, che massimizzino gli effetti desiderati e minimizzino quelli collaterali negativi.
Poiché si è ora in grado di verificare, con l’impiego di metodologie statistiche accurate, se i trasferimenti possono contribuire a promuovere il superamento dello stato di arretratezza delle regioni meridionali, quindi di stabilire quali interventi possono favorirne la crescita e quali invece sono inutili o dannosi, il dibattito focalizzato unicamente sull’ammontare dei trasferimenti – sostengono Accetturo e De Blasio – non può che essere deprimente e fuori luogo; deve essere invece privilegiato l’interrogativo se l’impiego delle risorse trasferite ha ricadute positive, oppure meno, sull’economia regionale e su quella nazionale. E’ giunto quindi il momento in cui i decisori pubblici tengano conto dei progressi realizzati dalla scienza economica, eliminando il baratro sinora prevalso, nelle questioni concernenti i divari economici territoriali all’interno del Paese, tra le decisioni d’intervento e le conoscenze scientifiche.
Secondo Accetturo e De Blasio, per meglio rispondere all’esigenza che i trasferimenti siano realmente finalizzati al superamento dello stato di arretratezza delle regioni meridionali, i policy maker delle regioni in ritardo sulla via della crescita devono poter formulare i propri “disegni d’intervento”, accertando innanzitutto quali siano le cause dell’arretratezza che intendono rimuovere; in secondo luogo, se le politiche pubbliche progettate, sulla base delle cause accertate dell’arretratezza, siano efficaci, ovvero in grado di generare maggiore occupazione o più elevati investimenti rispetto quelli che potrebbero verificarsi in loro assenza; in terzo luogo, se le politiche pubbliche progettate possano causare effetti indesiderati sul sistema economico regionale; infine, quali siano gli effetti dell’attuazione delle politiche sul sistema economico regionale complessivo.
Nel formulare un disegno d’intervento coerente e razionale, i policy maker regionali devono quindi disporre degli studi preliminari necessari per stabilire quali siano le cause che ostacolano la crescita dell’area territoriale di loro competenza; in linea di principio, sulla base degli studi preliminari, i policy maker regionali devono porsi il problema di come promuovere la “convergenza” delle loro regioni arretrate verso quelle sviluppate, attivando nelle prime un processo di crescita a tassi più elevati rispetto alle seconde.
Quando, malgrado le politiche pubbliche attuate, ciò non accade, è segno evidente che esistono delle ragioni che impediscono lo svolgersi del processo di convergenza; in questi casi, i policy maker possono accertare, attraverso l’impiego di metodi statistici applicati alle informazioni quantitative raccolte, il grado di efficacia delle politiche pubbliche attuate, per poi stabilire le cause per cui tali politiche siano state in qualche misura deficitarie: ad esempio, rispetto alla dotazione di infrastrutture, o del capitale umano; oppure se le imprese abbiano effettuato investimenti sufficienti; se si siano espanse la corruzione e l’attività della criminalità organizzata; se risulti deficitario il capitale sociale o sia mancata la qualità dell’azione delle istituzioni regionali.
Anteriormente alla fine dell’intervento straordinario nelle regioni arretrate del Paese, le valutazioni dei policy maker regionali potevano risultare problematiche, se non impossibili, per la mancanza di strumenti conoscitivi ed operativi adeguati; ora però, sottolineano Accettura e De Balsio, le condizioni sono profondamente cambiate. Straordinari passi in avanti sono stati compiuti, sia sul piano della possibilità di valutare l’efficacia delle politiche pubbliche attuate, che su quello della progettazione di politiche più efficaci per il futuro. Tutto ciò, ovviamente, renderà necessario, sostengono gli autori, che si raccolgano innanzitutto dati e informazioni dettagliati sui singoli interventi, al fine di permettere analisi empiriche rigorose sull’efficacia dei trasferimenti pubblici; in secondo luogo, sarà necessario che i policy maker regionali siano competenti nell’uso dei risultati delle analisi empiriche per una migliore progettazione delle politiche da attuare.
Fatte queste premesse, gli autori hanno valutato gli effetti delle politiche a vario titolo realizzate nelle regioni meridionali dopo l’interruzione dell’intervento straordinario; essi hanno così constatato che gli aiuti erogati hanno scarsamente inciso sull’attività economica delle regioni che li hanno ricevuti. L’insieme dei risultati è sconsolante; mentre nei Paesi diversi dal nostro – essi osservano – gli esiti delle politiche per lo sviluppo regionale hanno lasciato “qualche spazio all’ottimismo, da noi l’evidenza empirica a favore dell’efficacia degli aiuti è [stata] scarsa, quasi inesistente”; in più, altre analisi, hanno avvalorato l’ipotesi che le risorse ricevute siano state utilizzate per finalità improprie.
Nel complesso, il risultato finale della valutazione  dell’impatto dei trasferimenti sui sistemi economici e sociali delle regioni e delle altre aree arretrate del Paese legittima, a parere degli autori, alcune considerazioni delle quali si deve tener conto nel formulare la futura attività di intervento: innanzitutto, che le politiche attuate per lo sviluppo regionale negli ultimi decenni non sono risultate efficaci e “probabilmente hanno aggravato una situazione già deteriorata”; in secondo luogo, che tali politiche hanno generato una diffusa sfiducia nei confronti dell’intervento dell’operatore pubblico. Ciò implica che le politiche del futuro debbano essere diversamente fondate, ovvero su basi tecnico-scientifiche, perché siano adottare decisioni d’intervento nella consapevolezza di cosa nel passato ha funzionato e cosa non, cessando così di procedere solo “per tentativi”.
Se, per il futuro, non si terrà conto di queste considerazioni, sarà inevitabile che all’interno delle regioni arretrate si radichi ulteriormente il convincimento che gli aiuti siano stati, nella migliore delle ipotesi, solo un sussidio per attività improduttive o, nella peggiore, uno strumento per arricchire corruttele e criminalità. La discontinuità rispetto al passato è tanto più necessaria, se si vuole evitare che le politiche di sostegno dello sviluppo delle regioni in ritardo sulla via della crescita si trasformino in una sorta di “dipendenza”, a causa dei loro continui effetti negativi sull’economia regionale, che impoveriscono il settore produttivo; proprio per questo – secondo Accetturo e De Blasio – tali politiche possono essere “ancor più percepite come imprescindibili per le sorti di un territorio”, nel senso che il loro unico obiettivo, per quanto esse siano inutili o addirittura dannose, non può che diventare quello d’essere reiterate di continuo.
E’ difficile immaginare, concludono gli autori, ”che senza un deciso cambio di direzione nella politica di coesione, le sorti del Mezzogiorno possano migliorare”; perciò, la loro analisi critica dell’esperienza sinora vissuta in fatto di sostegno della crescita delle regioni arretrate del Paese vuole essere “un piccolo contributo per andare in tale direzione”.
Di parere diverso è Nicola Rossi che, con la sua Prefazione al libro, completa l’analisi di Accetturo e De Blasio, prendendo però le distanze dalla loro speranza che le future politiche a favore delle regioni arretrate italiane posano cambiare. Rossi dubita infatti che sia possibile, stante la situazione attuale, adottare un “disegno puntuale, scientificamente fondato”, per la prosecuzione delle politiche in pro del Mezzogiorno. Perché tanto pessimismo?
Secondo Rossi, “se è certamente fondato quanto Accetturo e De Blasio osservano, e cioè che l’effetto degli aiuti sull’attività economica sarebbe ‘condizionato dalla qualità delle istituzioni locali’”, non può essere sottovalutata “la capacità delle politiche di sostegno e delle istituzioni locali di bassa qualità di alimentarsi a vicenda”. Si tratta di una verità, quella messa in evidenza da Rossi, difficile da smentire.
Chi vive in una regione che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione che le politiche di sviluppo regionale sinora attuate siano diventate, come sostiene Rossi, solo “veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti non per le proprie capacità amministrative o per la propria visione politica ma perché […] si è in grado di fare affluire risorse sul territorio e di distribuirle fra i più disparati clienti. E si è in grado di raccogliere risorse in maniera del tutto indipendente dal loro utilizzo e da qualsivoglia visione del futuro di un territorio proprio perché si è stati eletti”.
Perdurando questa situazione è quindi diventata ragionevole la presunzione che gli obiettivi dei programmi d’intervento non siano la crescita o l’occupazione, ma siano, al contrario “il benessere della classe politica locale, la prosperità della pletora di professionisti dipendenti da quei programmi, la felicità delle burocrazie locali e nazionali ad essi connesse”. Esiste una via d’uscita da questa situazione?
Chi vive quotidianamente la condizione denunciata da Rossi, ha maturato il convincimento che sia molto difficile individuare efficaci politiche alternative a quelle sinora attuate. Concordando con la proposta avanzata dallo stesso Rossi, l’unica via d’uscita dalla situazione che si è cristallizzata all’interno delle regioni sinora assistite è che le politiche siano eliminate tout court, “almeno sino a quando, privata dell’acqua in cui vive e prospera, l’attuale [classe dirigente] locale unitamente alle rilevanti burocrazie locali e nazionali non si saranno estinte e con esse la sottocultura che hanno giorno dopo giorno contribuito a diffondere”.
Se si considera quanto Accetturo e De Blasio hanno evidenziato, ovvero che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico e sociale delle regioni arretrate, dalla eliminazione di tali politiche le comunità locali non avrebbero “nulla da temere e nulla da perdere”; al contrario, porrebbero fine allo stato attuale che le vede condannate a vivere (e a morire) solo di aiuti.

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